Falken, pyrotechnique integrator for law enforcement et defense: è la risposta più chiara e di senso compiuto ricevuta dalle famiglie e dagli attivisti di Zarzis dopo due mesi di mobilitazioni e proteste per la vicenda delle diciassette persone scomparse in mare nel naufragio del 21 settembre scorso. Si tratta della scritta impressa sulle cartucce di lacrimogeni piovuti sulla marcia pacifica del 18 novembre e che ha portato centinaia di cittadini di Zarzis verso l’adiacente isola di Djerba.
Dopo un mese e mezzo di proteste che hanno portato all’occupazione del porto commerciale di Zarzis il 7 novembre, un incontro con il ministro degli interni era finalmente previsto per giovedì 17. Lo sforzo di arrivare nella regione del sud era facilitato dal fatto che a Djerba, il 18 e 19 novembre, si teneva il Summit della Francofonia a cui hanno partecipato vari esponenti di stato mondiali tra cui il presidente francese Macron. La mattina del 17 novembre, senza preavviso, il ministro degli interni non era all’appuntamento.
«Prima dell’incontro avevamo posto la condizione che il ministro arrivasse con dei dati rilevanti circa la spiegazione della scomparsa dei corpi e che vi fosse la proposta di una commissione ministeriale sulla questione di Zarzis», spiega Ali Kniss, abitante di Zarzis. La marcia pacifica, dalla vasta e varia partecipazione, è stata lanciata in questo contesto. Ben prima dell’arrivo al punto dichiarato, però, gli agenti antisommossa provenienti dalla capitale hanno iniziato a caricare e lanciare una quantità di lacrimogeni mai vista prima. Gli scontri e le cariche si sono estesi fin dentro la città e per tutto il pomeriggio; i tentativi di ricompattarsi per manifestare sono stati stroncati da piogge di lacrimogeni tirati ad altezza uomo e con cariche di blindati sui manifestanti. Scene di solito riconducibili alle proteste nei quartieri popolari di Tunisi.
«Sono arrivati a Zarzis con le brigate più aggressive della Tunisia – dicono alcuni liceali –, noi lanciavamo delle pietre e loro rispondevano col gas anche nelle case dei quartieri. A un negoziante bloccato nella sua boutique lo hanno tartassato di botte, ci sono le foto dei segni lasciati sul suo corpo». Emblematiche sono le immagini dei lacrimogeni nella scuola elementare 2 Mars e dell’ospedalizzazione di abitanti di tutte le età. Ma l’aggressività degli antisommossa di Tunisi è solo la parte attiva di una violenza che, sebbene passivamente, attraversa Zarzis da circa due mesi. I giorni successivi allo sciopero del 18 ottobre e in seguito alle dichiarazioni del guardiano del cimitero, il tribunale di prima istanza di Medenine ha aperto un’indagine e ordinato la riapertura di venti tombe al Jardin d’Afrique; proprio qui, infatti, il 27 settembre erano stati seppelliti senza esame del Dna i corpi di tre delle diciassette persone scomparse. Nel giro di pochi giorni le operazioni di riesumazione si bloccano così come la comunicazione dei risultati dei test del Dna. Bisogna aspettare l’ennesima iniziativa delle famiglie per riprendere le esumazioni e scoprire i corpi di altri giovani tunisini interrati senza Dna.
Le bugie, i depistaggi e il silenzio sono presenti già da settembre, quando i pescatori ricercavano i corpi in mare. Il 26 settembre, infatti, le operazioni sono state interrotte in seguito alla dichiarazione ufficiale della presenza delle diciotto persone (che in realtà erano diciassette ma non lo si sapeva ancora) in Libia. Il coinvolgimento della Guardia marina nazionale nell’incidente del 21 settembre è la vera ipotesi portata avanti da famiglie e attivisti; il sospetto è che l’incidente sia stato provocato e che il sistema del seppellimento di corpi senza Dna sia funzionale alla pratica del controllo delle frontiere a tutti i costi. «Da una piccola cosa siamo arrivati a scoprire tutto questo, dai dispersi in mare siamo arrivati al cimitero e ai corpi interrati senza Dna. Chi l’avrebbe mai detto… Ogni passo ci portava altrove e ogni cosa che abbiamo toccato era marcia». È la riflessione di una familiare dei dispersi. Le mobilitazioni di Zarzis, infatti, continuano a evidenziare una zona grigia il cui perno è il funzionamento del cimitero del Jardin d’Afrique. Cimitero che in realtà è un “progetto” di un’associazione basata in Francia (mai registrata in Tunisia). Nel “cimitero” i corpi recuperati in mare venivano sepolti senza test del Dna e, secondo le dichiarazioni del guardiano, più corpi sono stati seppelliti nella stessa fossa. Insieme al Jardin d’Afrique, in questa zona grigia agiscono anche gli uffici della Municipalità, i dottori dell’ospedale di Zarzis responsabili dei referti medici dei corpi trovati in mare, gli uffici della delegazione responsabili dell’approvazione dei referti e dell’autorizzazione all’interramento. Durante il mese di ottobre, infatti, le famiglie denunciano un inspiegabile trasferimento di corpi tra ospedali e a volte l’operazione non risulta nei registri, come nel caso dell’ospedale di Zarzis. L’ipotesi è che le attività del Jardin d’Afrique e degli ospedali fossero funzionali a confutare la tracciabilità dei corpi.
Ma adiacente a questa zona grigia, gli eventi degli ultimi due mesi circoscrivono un vero e proprio buco nero in cui l’attore principale è la Guardia marina nazionale. Cosa è successo la sera del 21 settembre? Quali zone di mare controllavano quella sera le motovedette della Guardia marina? Come sono state condotte le operazioni di ricerca? Le indagini iniziate il 20 ottobre dal Tribunale di prima istanza di Medenine si sono insabbiate già alla prima settimana ricevendo il rifiuto della Guardia marina ad accedere ai registri. Tutti questi elementi rafforzano l’ipotesi di un coinvolgimento attivo delle forze di sicurezza nell’incidente del 21 settembre scorso.
L’ipotesi di un incidente causato da una motovedetta della Guardia marina o dell’esercito, si basa sulla pratica reale del controllo delle frontiere e sulla memoria sociale di Zarzis. Nel 2011, infatti, il peschereccio Rais Ali con più di centoventi persone a bordo venne speronato dalla Horra 302, una motovedetta militare, causando la morte e la scomparsa di varie persone. Tra queste vi era Abdallah, diciassette anni di Zarzis, il cui corpo non è mai stato ritrovato nonostante gli sforzi del padre, Farouk Belhiba. Il caso di Horra 302 resta il più emblematico grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, ma non mancano casi di cui sappiamo meno e di cui sono testimonianza i video condivisi sulle reti sociali; il più recente di poche settimane fa, in cui tre bambini hanno perso la vita. Arrestare a tutti i costi l’harraga, l’emigrazione senza documenti, è una pratica di lunga data alla quale partecipano – in modi diversi – anche la guardia costiera libica, maltese e italiana e che gode di una certa impunità a causa della difficoltà di ottenere prove. In questo senso, Zarzis 18/18 (lo slogan con cui i manifestanti chiedono la verità, il ritrovamento e la sepoltura di tutti i diciotto corpi, ndr) è anche una lotta contro la difficoltà di indagare le operazioni della guardia costiera e l’impunità in cui queste si sviluppano.
In occasione del primo sciopero generale del 18 ottobre scorso, Chamseddine Bourrasine, presidente dell’associazione dei pescatori, ha sottolineato che l’obiettivo delle mobilitazioni non è la protesta o lo scontro, ma la verità: «Oggi domandiamo di fare luce sulle circostanze di questo crimine e di attribuire le responsabilità di tutte le persone implicate. C’è bisogno di far tornare l’ordine e la legge. O la legge vale solo per i poveri?»
La negligenza degli ultimi mesi e l’opacità delle istituzioni evidenziano come la legge sia finalizzata al controllo piuttosto che alla garanzia di diritti. Inoltre, l’importanza data al summit di Djerba, a soli cinquanta km dal porto commerciale di Zarzis, conferma il rifiuto della classe politica nei confronti dell’importanza della migrazione per la maggioranza della popolazione tunisina. Con le parole di Ali Kniss: «Festival e celebrazioni ufficiali da una parte e famiglie che cercano i corpi dei propri cari dall’altra. Il summit di Djerba è l’ennesima dimostrazione che non c’è nessuna volontà di cambiare il rapporto di dipendenza tra i paesi del sud e del nord».
Le proteste di Zarzis, chiedendo verità, si contrappongono alla forma reale assunta dalle politiche sul territorio e per le quali le responsabilità di organismi internazionali (Croce Rossa, associazioni, Nazioni Unite, Unione europea), nazionali (Italia, Francia), statali e locali si incastrano come ingranaggi diversi di uno stesso meccanismo. Nei giorni successivi al Summit della Francofonia, il presidente Kais Saied ha invitato il sit-in di famiglie pescatori e attivisti ad avere pazienza rassicurando che la verità presto esploderà. La sera di domenica 20 novembre viene annunciato ufficialmente che la Brigata al-Houyna investigherà sulle vicende di Zarzis. Il dossier passa da una brigata di investigazione regionale a una direttamente legata all’ufficio presidenziale. Un passo in avanti rispetto al rischio di collusione tra diverse istituzioni regionali. Il 24 novembre il presidente Saied, in un incontro con il ministro degli interni e il responsabile della sicurezza nazionale, ribadisce la sua attenzione per la questione Zarzis. Ciononostante continuano le denunce di famiglie e attivisti nel denunciare le interferenze tra inquirenti e uffici della Guardia marina nazionale; la mobilitazione delle famiglie resta l’unica garanzia alla richiesta di verità e al rischio di collusione tra istituzioni. (felice rosa)
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