La prigione di Oukacha è a due passi dal mare, in piena area urbana di Casablanca. Ain Sbaa, l’enorme quartiere che fa da cuscinetto tra l’area industriale del porto e le prime spiagge, ha subito massicce demolizioni e trasferimenti di popolazione negli ultimi mesi, per preparare l’avvento dell’Alta Velocità e dei grossi investimenti sul litorale. Ma la prigione rimane lì, a testimoniare la continuità del potere politico. Ogni settimana da un anno venivano in pellegrinaggio dal Nord i familiari dei detenuti dell’Hirak, il movimento popolare del Riff iniziato nel 2016. Venerdì scorso la Corte d’appello ha confermato le durissime condanne per gli attivisti, che erano già in carcere preventivo da un anno. Nonostante le proteste, gli scioperi della fame e le petizioni internazionali, tutti e cinquantatré gli imputati sono stati condannati a pene che vanno da uno a venti anni di carcere, sempre per delitti di opinione. Lo stesso giorno sono stati portati via da Casablanca e trasferiti in sei penitenziari diversi sparsi per il Nord, tra Tangeri, Tetouan, Fez, Meknes e Nador. Meno di una decina sono stati portati ad Al Hoceima, cuore delle proteste, dov’è più facile per le famiglie visitarli. Il più conosciuto di loro, Nasser Zefzafi, si è cucito le labbra in segno di protesta, presto seguito da alcuni altri.
È un periodo di involuzione politica in Marocco. Le proteste del 20 febbraio 2011 sembrano un ricordo, soffocate dalla cooptazione e dall’accomodamento di molti militanti, nonché dalla repressione politica. La separazione dei poteri, l’illusione di un ruolo autonomo per il parlamento eletto, sono sempre più lontane, ingoiate da un autoritarismo sempre meno guidato da una visione politica a lungo raggio. A settembre scorso, dalle sue vacanze alle Seychelles, il re ha annunciato la reintroduzione della leva obbligatoria. Presentata come strumento per combattere la disoccupazione giovanile e la dispersione scolastica, sarà estesa fino ai venticinque anni, donne comprese, e chi studia potrà essere chiamato fino ai quarant’anni. Parlamento e primo ministro, inizialmente sorpresi dall’annuncio, hanno però già approvato la legge, alzando le mani di fronte a chi detiene davvero il potere nel paese. In una stessa figura, quella del monarca, confluiscono il potere politico e quello economico, con la proprietà del più grosso gruppo finanziario del paese, nonché la qualifica religiosa di comandante dei credenti, che rende le critiche passibili di essere considerate addirittura blasfeme. «Non è stato eletto da noi uomini, che possiamo sbagliare; è stato messo lì proprio da dio», mi ha confermato ieri un signore, in una bottega del centro storico di Casablanca.
La repressione è forse effetto della volontà di tenere insieme delle classi dirigenti senza alcun progetto comune. Ne sono oggetto i protagonisti di rivendicazioni prettamente corporative, come i giovani insegnanti che protestano contro la precarietà indotta dal nuovo contratto nazionale, caricati con i cannoni d’acqua, ma anche chi cerca di aprire spazi di dibattito politico. Lunedì 15 aprile il tribunale ha confermato la chiusura dell’associazione culturale Racines, attiva in tutto il paese, i cui attivisti avevano ospitato sulla loro pagina YouTube una serie di video organizzati da giornalisti e operatori culturali, che si permettevano di rivolgersi al re informalmente per criticare alcune scelte politiche. Il ministero dell’Interno li ha accusati di attentato alla religione e ha proceduto subito allo scioglimento dell’associazione; il giorno dopo uno di loro, il giornalista Omar Radi è stato convocato dalla polizia che gli ha chiesto “spiegazioni” per uno dei suoi tweet. Sono precedenti inquietanti, soprattutto perché influenzano tutto l’associazionismo e la stampa. Nella crisi dell’attività giornalistica indipendente, anche voci leggermente più aperte, come la rivista liberale Tel Quel, hanno sempre più remore a dire le cose come stanno.
Con l’aggravarsi della crisi economica e con l’arrivo di massicci investimenti soprattutto dal Golfo, la monarchia ha scelto la doppia via di megalomania e repressione per mantenere un controllo assoluto sul paese. Investimenti miliardari sfigurano città e campagne, fin nelle zone più desolate del Sud, urbanizzate all’inverosimile. Nelle città si affastella l’“architettura di oggetti singolari”, dal nuovo teatro di Casablanca alla futura Torre Mohamed VI di Rabat, che sarà l’edificio più alto del continente. Poche briciole di questi miliardi raggiungono le periferie urbane e le campagne, dove si continua a portare l’acqua con i secchi e a mangiare dalla spazzatura. Il sistema educativo è tra i peggiori del mondo: il Marocco è il 129° di 187 paesi, ed è sceso di quattro punti dal 2013. Gli ospedali sono devastati, e per un’urgenza si può aspettare un anno. In molte regioni si arriva ancora solo in 4×4, mentre il TGV porta da Casablanca a Tangeri in due ore. Le riforme che mirano a informatizzare e individualizzare le relazioni dei cittadini con lo stato non sempre riescono a ridurre il potere dei podestà locali, i moqaddem, che spesso seguono ancora il proprio arbitrio nel regolare l’accesso alle risorse da parte della popolazione più povera. Il Rif, la zona delle proteste dell’Hirak, è stato militarizzato, e la presenza costante della polizia armata sul territorio ricorda implicitamente la guerra che il monarca precedente, Hassan II, scatenò contro la regione: migliaia di morti e bombardamenti dei villaggi negli anni Cinquanta, di nuovo nel 1984 spari sulla folla ad Al Hoceima.
Le discontinuità servono soprattutto a nascondere le continuità. I cosiddetti “anni di piombo” sono terminati e sin dal suo avvento al trono nel 1999 il figlio Mohammed VI ha inaugurato un percorso di “verità e riconciliazione”, con risarcimenti monetari e simbolici alle famiglie e ai territori colpiti dalla violenza del padre. Cultura e festival sono diventati strumenti di promozione territoriale e di creazione di nuovi canali tra il potere politico e le comunità. Ma la geografia stessa imposta dal regime al paese rende manifesto che la via del padre è ancora quella dominante, combinando la repressione autoritaria con l’edificazione mastodontica di simboli del regime. Lo mostrano per esempio le città: la sproporzionata moschea di Casablanca, che ha sostituito le antiche piscine municipali sull’oceano, fu un’opera di Hassan II, che obbligò tutti i sudditi del regno a donare dai propri risparmi per finanziarla; ma è il figlio che sta sventrando la medina per connetterla ai quartieri eleganti con un grande boulevard, l’Avenue Royale. Gli sfrattati sono buttati in mezzo alla campagna, accanto ai cimiteri; gli acquirenti delle nuove ville o appartamenti vista mare della Marina o di Ain Sbaa non incontreranno gli abitanti dei quartieri demoliti per fare spazio ai nuovi cantieri. Quando intervisto gli sfrattati, molti concludono ogni intervista con «viva il Re»: Ash el malik. Solo a microfono spento dicono cosa pensano.
A ottobre scorso il rapper marocchino Barry ha pubblicato una canzone intitolata proprio Ash el malik. Il ritornello dice:“Come faccio a dire viva il re, se la gente vive come le bestie?”. Mi vengono in mente le sue parole mentre parlo con un attivista dell’associazione Racines, appena sciolta. Siamo in un bar di fronte al tribunale che ha vanificato decenni di lavoro volontario, e al tavolino dietro di noi c’è un poliziotto in borghese, che li ha seguiti fino a lì e che si intrattiene con il cellulare. Cosa farete ora, chiedo all’attivista, volete fondare una nuova associazione? «Sì», mi risponde ridendo: sa che il ministero che dovrà approvarla è lo stesso che li ha fatti sciogliere. «Avevamo pensato di chiamarla Ash el malik». (stefano portelli)
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