Qualche giorno fa, a Nisida, dove ha sede il carcere minorile, si sono riuniti per firmare un Patto educativo per Napoli la ministra dell’interno Lamorgese, il ministro dell’istruzione Bianchi, l’assessore regionale all’istruzione Fortini, il sindaco di Napoli Manfredi, il prefetto Palomba, l’arcivescovo Battaglia, il portavoce del Forum Terzo Settore Gaudino e il presidente dell’impresa sociale “Con i bambini”, Rossi Doria. Si è parlato di “rivoluzione”, di “resilienza”, di “nuova pagina di storia”, di “cultura del Noi”, e di tante altre amenità.
A livello nazionale i fondi a disposizione sono 1,5 miliardi, da stanziare in tre tranche. La prima, destinata alla scuola secondaria di primo e secondo grado (12-18 anni), mette a disposizione 500 milioni. Di questi, 41,1 milioni di euro saranno assegnati a 217 scuole nell’area metropolitana di Napoli (di cui 78 nel comune di Napoli per 14,8 milioni). Ogni scuola avrà a disposizione una media di circa 180 mila euro. I finanziamenti saranno destinati direttamente agli istituti scolastici sulla base di criteri quali il tasso di dispersione, il contesto socio-economico e il numero degli studenti.
Pubblichiamo un articolo scritto da Salvatore Pirozzi per Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, un libro collettivo curato da Luca Rossomando per le edizioni Monitor nel 2016.
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Vorrei fare un elogio all’evasione scolastica e perorarne la necessità. Non sono uno statistico, qualche volta le uso, le statistiche, ma confesso che non fanno per me. Non conosco i dati precisi a supporto di quello che vorrei dire, ma ho respirato tanto di quell’aria scolastica che penso di poterne parlare con cognizioni, comunque, di causa. Vorrei parlare, pertanto, di aria e non di numeri.
L’INNOVAZIONE COME ETICHETTA
Lo dico subito: l’aria che respiro è quella di un’istituzione morta, che non ce la fa più, che non riesce a entrare in contatto con la necessità di una sua re-istituzionalizzazione. Perché né l’apprendimento, la sua necessità e il diritto a esso, è morto, né lo è la necessità di istituzioni che lo rendano possibile o lo sostengano; è l’istituzione “scuola”, per come è configurata, che defunge. E il paradosso è che comunque nella scuola si producono esperienze importanti, si muovono fino all’eroismo, e al narcisismo, energie umane e professionali. Anticipo quanto proverò a dire: tutto questo movimento (spesso bernsteiniano: il movimento è tutto, il fine è nulla) resta prigioniero del suo paradosso: le azioni hanno successo quando “tradiscono” gli assetti del paradigma scolastico, se ne allontanano, ne sperimentano altri; soltanto che non si può dire o non si può riflettere su questo fenomeno vitale, le cose vanno nominate sempre con la stessa nomenclatura e incorniciate sempre nelle stesse retoriche, e avallate dagli imprimatur degli scriba. Le visioni che animano queste pratiche restano senza parola, immediatamente tradotte nelle frasi fatte di retori, esperti e politici di professione; professionisti, appunto, del “nuovo”.
E in effetti, nel frattempo, la scuola sembra essere una delle istituzioni più aperte, o che più dovrebbero aprirsi, del mondo contemporaneo. Deve aprirsi al lavoro, al territorio, al mercato, al futuro, all’interculturalità, al mondo digitale, ai nuovi saperi, alla parità, alla cittadinanza (qualche volta anche attiva), all’aggiornamento professionale, al nuovo e al buono. All’inclusione, soprattutto. Ho dimenticato molte cose, lo so.
Progetti e finanziamenti, parole anche alate, indagini giornali e parlamenti parlano di scuola e ognuno a modo suo ne perora l’innovazione. Eppure, se vi aggirate nei suoi corridoi, della scuola, se osservate i suoi alunni o chiacchierate con i docenti, se, soprattutto, intervisti te stesso, che per anni e anni hai provato a “innovare”, “aprire”, “includere”, sei costretto a confessarti: la scuola è ancora tra i mondi istituzionali più chiusi. Anche qui un paradosso: sono gli innovatori che contribuiscono a chiudere questo mondo. Un mondo di esperti, che ripetono il mantra dell’innovazione, della modernizzazione, della democratizzazione quasi mai argomentato, ma come un’etichetta che segnali l’appartenenza di tutti allo stesso partito del nuovo, come un segno di riconoscimento che faciliti i discorsi sul vestito dell’imperatore e impedisca di vederne la nudità.
Nelle scuole si è andato costruendo un piccolo esercito di innovatori, un vero e proprio piccolo ceto politico che la governa, quasi una lobby dei Pon. Un ceto che si autoriproduce, affilia e ostracizza rispetto ai suoi equilibri, che è diventato esperto delle parole giuste e delle piattaforme in cui vengono immessi i dati delle varie rendicontazioni attraverso le quali si dimostra non solo la correttezza amministrativa, ma si giustificano, con numeri e dati, i successi delle varie azioni. Come è da molti statistici dimostrato, c’è un effetto perverso in questo meccanismo, quello che viene chiamato “effetto retroattivo”: i dati diventano progressivamente congruenti con le voci e le tassonomie previste per la valutazione, e il gioco è fatto, viene ricostruita una realtà che combaci con le previsioni.
Non è vero che le scuole non hanno risorse, ne sono spesso inondate. Decine di progetti veicolano forme surrettizie di integrazione salariale, straordinari sotto mentite spoglie, posizioni di potere spacciate spesso per eroica dedizione alla causa. Gli orari di lavoro si dilatano, il tempo per riflettere e studiare, sperimentare e confrontarsi svanisce. La verifica della congruenza tra la super-dedizione e i risultati attesi è evitata. L’italica forma del sussidio a pioggia e del manuale Cencelli impera. La stessa virtuosa intenzione di aprire la scuola al territorio, invece che creare nuovi reami, rinforza i vecchi poteri; l’autonomia scolastica diventa anarchia feudale, ogni signore distribuisce benefici in cambio di omaggio, si elargiscono i fondi alle associazioni, che dovrebbero portare nuovo sapere, in cambio di fedeltà e allineamento. La scuola si apre al territorio inglobandolo nel proprio immobilismo; allargarsi, sempre in nome del nuovo, significa annettere.
COSA È L’EVASIONE?
Ecco, questo imperativo dell’apertura e dell’innovazione spesso produce conservazione. Un campo esemplare è la lotta all’evasione scolastica. Senza innovazione, si dice e si finanzia, la scuola non riesce a impedire che studenti escano o che chi è fuori entri o rientri.
Molto spesso nella vita, nel lavoro ci troviamo in situazioni di impasse, vicino a un fallimento, e speriamo di risolvere queste situazioni con l’uso della forza. Una forza oppositiva contro chi o che cosa di volta in volta sentiamo come nemici, causa delle nostre frustrazioni, dei nostri fallimenti. M’è sempre venuta in mente l’immagine di una porta che non si apre, e noi, dall’altro lato, spingiamo per aprirla. Qualche volta si scassa, molte volte resta chiusa. Allora cambiamo qualcosa, proviamo ad aggiungere ancora più forza per andare “contro” ciò che sembra ostacolarci. A me capita ancora di fare così, anche se una volta capii qual era l’atteggiamento più efficace: la porta si apriva nell’altro verso, nel verso opposto a quello che pensavo fosse il verso giusto. Bastava aprire e lasciare entrare, e, o, uscire anche noi in un’altra direzione. Non c’erano nemici peggiori che le nostre convinzioni e le nostre ostinazioni sul “verso giusto”.
Così è per la lotta contro l’evasione scolastica. La scuola spinge la porta per tenerla ferma, contro chi vuole evadere, perché là fuori c’è il male e la scuola ha per missione il bene e non il male. Il male deve essere emendato e infine incluso nella comunità del bene. Cosa c’è di più buono e giusto dell’inclusione di tutti in una scuola bene comune? Chi evade deve entrare o tornare nel vaso. Oppure spingiamo chi non vuole entrare verso quella porta, verso quel discrimine di civiltà che è la soglia della scuola “per tutti”. Un’operazione democratica, quindi.
Ma cos’è l’evasione?
In napoletano, il vaso si chiama anche “testa”. E, anche per chi, come me, non ha il pollice verde, si sa che spesso quella evasione ha dentro di sé un’ipotesi di salvezza; e invece vai con anticrittogamici, potature, abbandono delle piante al loro destino in attesa di diventare rifiuto non riciclabile.
Nella e-vasione dei ragazzi c’è qualcosa che dovrebbe insegnare anche a noi adulti professionisti a evadere dalla scuola, anche alla scuola a evadere da se stessa. Verso cosa evadono i ragazzi? Quali bisogni, quali saperi si sviluppano là fuori? (è chiaro che si producono anche perdizioni, ma combatterle riportando i dispersi in un luogo sperimentato come fallito non è una buona strategia). La scuola, palese ambiente patogeno per migliaia di ragazze e ragazzi, vorrebbe salvarli riportandoli dentro, ripresentando se stessa abbellita da incipriature retoriche, prediche, enunciazioni di principi. Spazi, tempi, modi didattici, relazioni, gerarchie di saperi restano rigidamente simili a se stessi; perfino il computer, se entra, entra inserito nelle rigide strutture delle forme di apprendimento. Le altre esperienze di apprendimento che pur vengono programmate sono riconosciute soltanto se riportabili nel curricolo e nelle forme di valutazione disciplinari. Ai docenti e agli educatori di queste altre esperienze – dall’arte allo sport, alle botteghe artigiane, alle visite di istruzione – è inibito l’accesso al feticcio dei consigli di classe; la valutazione è monopolio dei docenti, tutto il resto è mero intrattieno, pariamento, serve solo a tenere i ragazzi difficili lontani dall’aula e dalla scuola, ma non dalle bocciature.
Eppure basterebbe qualche progetto Robertino (“Va’, jesce, tuocc’ ‘e femmene, o i maschi”), e aprire quella porta che ci si affanna a tenere chiusa per capire cosa c’è fuori dal vaso, cosa c’è nell’evasione. Chi – preso dal dovere della cura – si lasciasse andare alla curiosità, esplorerebbe soprattutto se stesso, parlo degli adulti; renderebbe finalmente deboli i legami relazionali con i ragazzi, sperimenterebbe nuove posture, domande e non risposte, ascolto e non prediche, osservazione sui valori dei ragazzi e sulle forme di apprendimento e di valutazione, parlerebbe con altri adulti professionisti, starebbe un po’ in silenzio, in devoto rispetto alla necessaria epochè che l’esterno, l’apertura, il nuovo comportano. E chi lo facesse, degli adulti dico, scoprirebbe che anche lui sta evadendo dai parametri soliti, quelli della chiusura, del consolidato; sperimenterebbe finalmente quegli attesi imprevisti di cui pur hanno parlato fior di pedagoghi, l’attesa e l’incertezza. Evadere significherebbe farsi accogliere dai ragazzi, dal loro mondo e dalle loro culture. In quell’evasione l’adulto scoprirebbe l’importanza delle regole, dell’autorità e della disciplina (così diverse dalla noia e dall’angoscia) necessarie all’apprendimento. Capirebbe come il dilagare dell’impunità, spacciata per libertà e praticata in primis dagli adulti, non è neanche lontana parente della libertà, che presuppone limiti e forme e autorità.
L’accoglienza è confinata ai primi giorni di scuola, sorrisi e pacche sulle spalle, poi la voce passa alle note sul registro e ai voti e alle lettere a casa. Quali sono le modalità più diffuse dell’accoglienza di questa massa di recalcitranti giovanotti? Come avviene che modalità nuove confermano modalità antiche della stigmatizzazione? Scrivono Watzlawick, Beavin e Jackson ne La pragmatica della comunicazione umana: “Scegliamo in modo del tutto arbitrario di cominciare il nostro discorso con questa ipotesi: la persona P dà la definizione di sé a O. Può farlo in diversi modi ma […] il prototipo della sua comunicazione sarà: ecco come mi vedo”.
La scuola, di fronte a questo vedersi e volersi far vedere, può rispondere, come in ogni forma della comunicazione umana, in tre maniere: la conferma (anch’io ti vedo come tu ti vedi), che è una forma di rassicurazione che coopera all’accrescimento della consapevolezza di sé; il rifiuto, ma il rifiuto presuppone il riconoscimento, sia pure limitato, di quanto si rifiuta; infine la disconferma (“Se fosse realizzabile non ci sarebbe pena più diabolica di quella di concedere a un individuo la libertà assoluta dei suoi atti in una società in cui nessuno si accorga di lui”, D. Laing). Nel lassismo imperante è proprio la disconferma la modalità più diffusa, ignorare i ragazzi lasciandoli in balia di se stessi e dello stigma come unica chance di identità, come unica merce da offrire. In fin dei conti, il dilagare dello stigma e dei suoi comportamenti che implorano un riconoscimento è, a sua volta, la merce da offrire per avere ancora più soldi. Il dilagare dello stigma è funzionale al dilagare delle risorse e al dilagare degli esperti contro l’evasione.
IN CERCA DI ALTRI PARADIGMI
W l’evasione scolastica, dunque. Spero che l’epoca della tautologia sopporti ancora la forza del paradosso e delle verità non evidenti e non autoreferenziali. Allora ci provo: W l’evasione scolastica. Senza punti esclamativi, nell’epoca del punto esclamativo.
Lavoro in questo campo ufficialmente da quindici anni, nei fatti ci lavoro da quando insegno, cioè una quarantina di anni, anche se non lo sapevo e nessuno me lo diceva. Ma da quindici anni mi hanno dato la patente di lottatore contro l’evasione, e con questa patente pure me ne vado talvolta in giro come esperto, appunto, patentato. Ebbene, è il momento di dirlo: nonostante la patente, io credo di aver lavorato, come tanti, non contro, ma a favore dell’evasione. Perché qualunque cosa che abbia mai avuto un senso, un successo quantunque minimo, è accaduto evadendo dalla scuola. Ora non mi interessano i discorsi sulla Scuola, per cui con la maiuscola attribuiamo alla scuola la facoltà di poter fare qualunque cosa. Mi interessa la scuola come istituzione, ossia quella cosa che ha regole, statuti e procedure entro i quali le cose che si fanno sono proprie o improprie. Né mi interessa l’elegia della libertà e delle creatività, perché queste belle cose hanno diritto di cittadinanza e capacità d’esser messe in campo solo entro i vincoli. Leopardi scrisse l’Infinito non avendo infinite possibilità ma violando, perché le conosceva, le regole del sonetto. Insomma, la scuola ha un suo paradigma e occorre chiedersi se le cose buone, anche quelle sedicenti tali, lo siano entro quel paradigma o se invece avvengono proprio in virtù del fatto che lo tradiscono, ossia che ne evadono.
Orario, organizzazione disciplinare dei saperi, logica progressiva dello svolgimento dei programmi, lezione frontale, struttura del tempo (calendario e orario) e degli spazi (le aule) e delle persone (le classi), valutazione, modalità della relazione, curriculum dei docenti e così via; fateci caso, sono ciò che viene costantemente evaso quando succede qualcosa che funziona. Chiamatele pure, se volete, buone pratiche. E continuate pure a immaginare che possano tornare nel paradigma della scuola normale. Poi, però, chiedetevi se quello di bello, di giusto e di buono che si fa non alluda invece ad altro, forse ad altri, paradigmi istituzionali. E poi guardate i ragazzi e le ragazze che evadono e invece di chiamarli solo incapaci – sofferenti sì, lo sono sofferenti – chiedetevi se muti e inconsapevoli non chiedano per caso altri paradigmi istituzionali per l’apprendimento e per il loro valore.
Cristoforo Colombo che a mazzo trovò l’America, non capì nulla perché sentendo il canto di un augello lo attribuì, quel canto, all’usignolo, unico uccellino che conosceva. Si trattava di ben altro, e che altro. Questo è quello che c’è là fuori e i suoni non abbiamo i nomi per nominarli, perché solo questo possiamo dirci, ciò che non sono: non sono usignoli. Il mondo nuovo ha bisogno di esploratori, non di giudici che già sanno il gioco del dentro/fuori, dell’inclusione e dell’evasione.
Mille laboratori di esperienza fioriscono dentro la scuola, ma sarebbe il caso di riflettere radicalmente cosa c’è, di potenzialmente re-istituzionalizzante, là dentro. Io penso che ci sia l’evasione scolastica. Perciò credo di aver lavorato contro l’evasione. Che cosa c’è là fuori, che cosa c’è qui dentro, che cosa dobbiamo essere noi per far fronte a entrambe le domande?, scriveva Karl Weick.
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