Sanremo arriva una volta l’anno, come l’influenza. Allo stesso modo di quella patologia stagionale si diffonde con andamento epidemico ed è estremamente difficile da scansare.
Partiamo dalle basi, quegli elementi fondamentali senza i quali non ci sarebbe Sanremo. I sintomi, insomma. Carlo Conti c’è. È vero, non è uno scherzo. Egli incarna, avvolto da una giacca ricavata da un divano degli anni Trenta, l’enfasi. Carlo Conti più che un uomo è un punto esclamativo senza frase, utilizza l’enfasi come chiave di lettura del mondo. Sulla commemorazione di Tenco la sua batteria di esclamativi è inarrivabile.
Conquistati dall’Aglianico, si può anche provare tenerezza per questa sfida titanica, tesa a regalare lustrini anche alle cose più misere e prive di fascino, presentandole come eventi e persone fantastiche. Meravigliose. Uniche. Indimenticabili. Ricoperto di cerone (come faranno i colletti inamidati delle sue bianche camicie a rimanere immacolati?) egli è un teatrante dell’ovvio che è, poi, elemento imprescindibile della macchina sanremesca. In questo senso Maria De Filippi è un elemento di rottura. Fuori dalla tradizione classica della manifestazione rappresenta la vittoria della televisione privata su quella pubblica, maciullata a colpi di Grande Fratello e Uomini e Donne, che imperano laddove un tempo compariva anche una tv di spessore.
Maria lo ricorda poco nelle movenze, questo potere derivante dalla vittoria di una guerra lunga e inesorabile, che ha decretato molto più che la supremazia su una fetta enorme di profitti. Il monopolio culturale di una tv commerciale che ha riempito i palinsesti di gente comune, principianti, talenti sepolti nella folla delle città. Tutto a costo zero e con profitti enormi. Forse lo ricorda nella voce scartavetrata chi è che comanda qui, con una pattuglia di cantanti scoperti a costo zero nella fucina di Amici.
C’è la noia, pure. E non c’è Sanremo senza una severa dose di ipertrofia delle gonadi. La noia di melodie strascicate che non reinterpretano la melodia classica italiana, la scimmiottano trascinando un’eredità pur nobile dentro una caldaia dove tutto si squaglia e il mondo è un insieme di punti esclamativi e meraviglie confezionate e di pessimo gusto. Fuori dal quadro Carmen Consoli e Tiziano Ferro, in un’accoppiata d’insolita qualità che pur nel “downtempo” che poco concede al ritmo dell’ideologia sanremese sono effettivamente di un altro pianeta. E il pezzo è pure gradevole, giocato sulle originali tecniche di canto che fanno da sempre il marchio di fabbrica di tutti e due.
Meraviglioso. Unico. Indimenticabile. Fantastico. Immortale. Spunta Al Bano. Egli esiste. È vivo. Guarda il pubblico con lo sguardo feroce e canta un’elegia alla noia come non se ne sentivano da tempo. Ci vogliono due minuti buoni prima di ascoltare il suo “do” di petto che è come un marron glacé: invitante come idea, stucchevole come sapore. Solo che stasera Al ha la raucedine e insolitamente per lui, che abbiamo visto camminare sul filo sottile della rottura di corda vocale come un funambolo, trascina le ultime battute del brano con straziante fatica.
Vedere Al in questo stato induce innumerevoli considerazioni. Perché un uomo così decide di cantare ancora? Chi glielo fa fare? La sua voce l’abbiamo conosciuta e apprezzata, il suo occhiale a faro di Giulietta è impresso nella nostra memoria di bambini, quando accompagnandosi a una bonissima Romina Power correva fra prati cosparsi di siringhe a ugola sciolta. Produce vino, l’età si fa sentire, ci sarà pure qualche sciatica, un trigliceride di questi che aggredisce l’icona del canto italico che ha denunciato Michael Jackson per plagio. E allora perché continuare? Vanitas vanitatum et omnia vanitas. È l’Ecclesiaste a darci una risposta mentre sul video si avvicenda di tutto. Una sconosciuta e bellissima Elodie, dalla cantera dell’ineffabile De Filippi a un enigmatico Ermal Meta che si esibisce in Vietato morire. Provate a dargli torto.
L’intermezzo comico è affidato a un Crozza che, come sempre, si esibisce in quella sua comicità morbida che graffia come l’unghietta di un gattino. Certo, il già debole artiglio è ulteriormente anestetizzato dall’effetto Sanremo, quel preciso indirizzo artistico che annega qualsiasi forma di espressione in un lago di melassa, e che è sicuramente un alibi che potremmo utilizzare anche per l’accoppiata Albanese/Cortellesi, impegnata nella classica marchettona pubblicitaria, annacquata nel senso di ottundimento generale che rende innocui anche due attori come loro, potenzialmente virulenti.
Un altro elemento su cui riflettere è il fatto che, per la prima volta, scopriamo che Samu dei Subsonica riesce a cantare con un solo microfono. La sua voce esiste veramente, e privata degli effetti dell’elettronica si scioglie in un poppettino anemico e palloso su atmosfere cool come il cappellino che indossa. Samuele canta Vedrai dopo aver affermato che la vera scuola di musica sono stati i Festival alla tv e non si può non avvertire un brivido di freddo. Per fortuna c’è Ron, a riportarci nel mondo reale, sfoggiando insieme a una canzone improponibile un ciuffo color carota che sembra una marmotta appollaiata sulla zella. Se d’impeto capitasse, sempre sotto effetto del vino, di ripescare dalla cantina una vecchia VHS di Banana Republic si noterebbe subito il miracolo di un uomo che è riuscito a invertire la rotta dell’alopecia, sfoggiando più capelli oggi che nel 1979. Intanto dal piano superiore un tonfo secco, probabilmente il vecchio signor Amedeo è caduto sotto i colpi di Al Bano, addormentato come in una magia dalla sua voce bisognosa di Aerosol.
Arriva Ricky Martin, e con lui questa terribile voglia di trasformare sempre tutto in una festa sudamericana che in realtà è solo l’epifania di quanto la nostra idea di Sudamerica a uso delle masse sia orrenda. Il Sudamerica non c’entra niente e il bellissimo Ricky è troppo. Il tragitto verso il letto è lungo e irto di fantasmi. Toto Cutugno e Anna Oxa, Fausto Leali che sgrana la voce su un Ti lascerò da brividi, inseguito da Christian che anni prima di Maradona aveva portato con orgoglio la zazzera riccia. Un esercito di zombie capitanati da Mino Reitano che sputa due dei suoi enormi canini sull’acuto di Avevo un cuore che ti amava tanto come in un Walking Dead del modernariato canoro. Ma è solo l’Aglianico. L’unica cosa da fare dopo tante emozioni è dormire, affidarsi a Morfeo dopo che una puntata del genere ha abbattuto qualsiasi progetto di prestazione erotica dallo spiccato dinamismo e non resta che infilarsi nel fodero, sperando in un domani migliore. (antonio bove)
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