Sarà proiettato venerdì 28 giugno (ore 21) a Torino, nell’ambito della rassegna “Fuori campo. Documentari tra culture, politica e società”, organizzata dall’Unione Culturale Franco Antonicelli, The First 54 Years: an Abbreviated Manual for Military Occupation. Il film, girato da Avi Mograbi nel 2021, sarà preceduto da un intervento degli attivisti dell’associazione Breaking the silence. L’Unione Culturale si trova in via Cesare Battisti, 4b; l’ingresso è gratuito.
Di seguito riproponiamo un testo scritto da Francesco Migliaccio e pubblicato nel numero 12 de Lo stato delle città. L’articolo riflette sui percorsi di realizzazione e i contenuti di tre film che abbiamo proiettato a Napoli questa primavera nell’ambito della rassegna A FUOCO!, uno dei quali è The First 54 Years.
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Ho un amico in Galilea e una sera abbiamo risalito la collina che sovrasta il suo villaggio. Era preoccupato perché i fichi d’India erano sofferenti: le pale apparivano disfatte e cadenti. C’era un parassita, secondo lui. Diceva che i fichi d’India erano marci come tutto il suo paese, che tutto andava in putrefazione da quelle parti; eppure aveva ordinato chissà dove speciali insetti – forse delle coccinelle – che avrebbero mangiato i parassiti, ripristinando un equilibrio. Era un’iniziativa personale, non aveva chiesto il permesso ad alcuno e d’altra parte ha sempre detestato le istituzioni: è stato cacciato da diverse scuole superiori per le sue intemperanze e ha ottenuto anche un’esenzione alla leva militare. Non so come è andata a finire con i parassiti, ma ricordo che al crepuscolo mi mostrò un filare di fichi d’India e mi sussurrò: «I palestinesi avevano l’abitudine di circondare i loro villaggi con i fichi d’India, per tenere lontane le bestie. Se vedi filari come questo, forse ti trovi vicino alle macerie di un villaggio palestinese». Sapevamo entrambi che poco oltre, sotto i pini e tra le ortiche, riposavano le macerie di Saffuriya, villaggio abbandonato a forza nel 1948.
Tantura è un film di Alon Schwarz del 2022 e deve il suo nome a un altro villaggio palestinese della Galilea. Tantura era un florido insediamento costiero, poco più a sud di Haifa, e fu attaccato dalla brigata Alexandroni dell’esercito ebraico nel 1948. Il villaggio fu poi raso al suolo e oggi, accanto alle macerie residue, sorge il kibbutz di Nahsolim. Nel 1998 Teddy Katz, uno studente di storia israeliano, ha intervistato decine di testimoni oculari: palestinesi di Tantura e soldati della brigata Alexandroni. Katz interpreta le memorie orali e sostiene che a Tantura ci fu un massacro di abitanti inermi: dopo uno scontro a fuoco i soldati israeliani passarono per le armi decine di persone. L’esito della ricerca fu uno scandalo mediatico e lo studioso fu denunciato per diffamazione dai reduci della brigata. Più di vent’anni dopo Alon Schwarz recupera tutti i nastri delle registrazioni di Katz e intervista di nuovo i soldati superstiti, i palestinesi ancora in vita, storici affiliati al sistema accademico. Le testimonianze più rilevanti e ambigue appartengono ai veterani israeliani.
Schwarz diffonde nel film le dichiarazioni dei soldati rilasciate a Katz a fine secolo. Dice una voce impressa sul nastro: “I ragazzi spararono a loro [ai palestinesi], li colpirono. Ricordo anche chi furono i ragazzi che uccisero. Lui diceva: ‘Scavami un buco’, gli sparava alla testa e lo uccideva”. Un altro testimone: “Guarda, le immagini impresse nella mia memoria, sin da quel giorno, sono gli uomini nel cimitero, alla sera”. Anche i veterani ormai canuti – siamo nei nostri giorni – ascoltano le annose testimonianze conservate nei nastri e le reazioni davanti alla macchina da presa sono diverse: “Senti, ascolto le persone confessare, ma tu pensi che sia la verità?”; “C’era un ragazzo, ora è morto, ed era un selvaggio. Li prese e li uccise nei cortili”; “Non ci fu alcun omicidio”; “Io non so cosa dire. Io non ricordo, forse lo vidi, ma non ricordo. Noi non eravamo così. Sparare in testa con un parabellum, è esattamente quello che facevano i nazisti. Non ci credo”; “Non è mai accaduto. Non è mai accaduto”; “Non dico niente a nessuno su questo. A nessuno, nemmeno a mia moglie. Che cosa dovrei dirle? Che ero un assassino?”. Assisto a uno scavo nella stratigrafia della memoria e dell’oblio: le voci si contraddicono, la coscienza rimuove e reticenze affiorano.
L’organizzazione del montaggio di Tantura non è neutra sebbene raccolga voci discordanti: secondo le interpretazioni di Katz e del regista il massacro avvenne. Eppure non credo che il film intenda affermare una verità storica definitiva. Dichiara un reduce che non crede al massacro: “Quando occupavamo un posto, i trattori lo radevano al suolo. Lo radevano al suolo. Nulla rimaneva del villaggio. Perché? Non volevano permettere ad alcuno di tornare, o di lasciare qualche traccia del posto”. Gli eventi di Tantura – per quanto incerta sia l’intensità del loro orrore – s’inscrivono in una strategia politica complessiva e strumentale: la trasformazione coatta dei palestinesi in profughi senza terra. Il film, prima di affermare una verità, s’impegna a decostruire il mito di un esercito israeliano sensibile ai valori morali, rispettoso dei diritti umani, supporto militare d’una democrazia. Dalle voci dei nastri e dei testimoni ripresi ritrovo allora una genealogia della morale, ovvero un rovesciamento etico d’ogni sogno coloniale occidentale.
The Law in These Parts è un film di Ra’anan Alexandrowicz del 2011 e affronta un periodo successivo: l’occupazione militare dei territori palestinesi dopo la Guerra dei sei giorni. In uno studio cinematografico sono intervistati anziani esponenti del corpo legale israeliano un tempo affiliati all’esercito. Furono loro, a partire dal 1967, a definire le regole da applicare ai territori conquistati: la legge marziale era il fondamento della legalità a Gaza e in West Bank. Un generale di brigata e consulente legale dell’esercito afferma che la nuova legge doveva occuparsi di ogni aspetto della vita sotto occupazione, comprendendo anche “la responsabilità fiscale, i servizi postali, le telecomunicazioni, le assicurazioni dei veicoli, la responsabilità verso terzi”. I testimoni menzionano l’origine della distinzione tra terrorista e combattente regolare; raccontano di come gli insediamenti dei coloni sono stati legittimati grazie all’impiego di una vecchia legge ottomana sulle terre inutilizzate; mostrano il rapporto tra repressione dell’intifada e nascita della detenzione amministrativa. The Law in These Parts è un’anamnesi del diritto che vige ancora oggi nei territori occupati.
Il regista chiede a un legale dell’esercito impegnato sul campo negli anni Settanta perché creare centinaia di nuove leggi e non applicare direttamente le norme israeliane. La risposta è illuminante: “Se si applica la legge israeliana, si implicano alcuni aspetti indesiderabili. Uno di questi, per esempio, è la volontà di annettere la regione. In secondo luogo, si è automaticamente obbligati a garantire la cittadinanza a tutta la popolazione”. L’annessione e la cittadinanza concessa a chiunque abiti tra il mare e il fiume Giordano sarebbe la prima condizione per la nascita di uno stato unico e sancirebbe di conseguenza la fine del sionismo come progetto politico. La voce del regista sovverte la presunzione democratica di Israele quando chiede a un maggiore perché, da procuratore militare, non si occupava dei reati commessi dai coloni: “Perché il tribunale militare è stato creato per prendersi cura della popolazione occupata e di nessun altro. [Si occupava di] quelli che vivono sotto occupazione; gli ebrei non erano sotto occupazione. Questa è la distinzione tra le due popolazioni”.
I ricordi in The Law in These Parts hanno una natura pragmatica e consapevole, fredda e determinata. Alexandrowicz, per misurarsi con essi, deve eccellere in rigore. Sin dall’inizio il regista mostra la costruzione della scena che accoglie gli intervistati: assisto alle battute preparatorie, ai gesti prima del ciack. Se la legge sotto occupazione è arbitrio legalizzato, anche l’atto del cineasta è un potere autonomo che risponde solo a sé stesso. Oded Pesensson è un avvocato e dopo la prima intifada era colonnello e giudice militare. Afferma che durante le sentenze gli imputati non potevano conoscere i capi d’accusa se non attraverso sintesi e “parafrasi” prive di dettagli. Le informazioni su di loro erano raccolte dai servizi segreti e le accuse dovevano essere generiche per non esporre i delatori. Così i prigionieri erano condannati senza conoscere i particolari dei reati a loro imputati. Commenta il regista: “L’intervista con l’avvocato Pesensson è durata almeno tre ore. Mi ha detto molte più cose. […] Si potrebbe dire, usando le sue parole, che lo spettatore sta soltanto ascoltando una ‘parafrasi’ della mia intervista con lui, dal momento che io ho deciso quali parti mostrare, e quali eliminare. Lo spettatore non può chiedere all’avvocato Pesensson cosa pensa di come ho manipolato la sua intervista”. Anche l’autore del film è un inquisitore, ma la sua opera sfata il potere di ogni linguaggio: è una feconda differenza tra l’azione dello stato e quella del cineasta.
Breaking the silence è un’organizzazione non governativa israeliana e si dedica alla raccolta di testimonianze e memorie di soldati impegnati nei territori occupati: costituisce così un archivio orale su soprusi, violazioni, pratiche violente dell’esercito israeliano. Avi Mograbi è regista di cinema e membro fondatore di Breaking the silence: il suo film del 2021 The First 54 Years: An Abbreviated Manual for Military Occupation raccoglie decine di racconti orali di soldati che hanno servito nei territori occupati dagli anni Settanta ai nostri giorni. I testimoni scuotono le braccia ricordando le botte inflitte con i manganelli, rievocano le violente pratiche routinarie dell’occupazione, citano piccoli e significativi episodi di arbitrio. Mograbi ordina le testimonianze per redigere un breve manuale audiovisivo utile a una ferma gestione di un’occupazione militare.
Emergono pratiche militari informali e codificate. Lo “scuotimento” è una tecnica impiegata negli interrogatori: “[Un agente dei servizi] ha tenuto la testa [di un prigioniero] contro la sua spalla, regolarmente ogni dieci secondi. Dopo, avevo un amico che era medico e gli ho chiesto di questo. Mi ha detto che c’è un fluido che circonda il cervello. E quando la testa è scossa regolarmente ogni pochi secondi per molto tempo, per un’ora, il cervello entra in uno stato di confusione. Il cervello perde il controllo. Poi, hanno iniziato a colpirlo e prenderlo di nuovo a pugni. E ha iniziato ad avere convulsioni…”.
La “mappatura”, invece, “è quando scegli una strada, alcune case o un quartiere, e tutte le truppe, tutte le squadre, vanno di casa in casa, di piano in piano, porta a porta”. Si traccia uno schizzo della abitazione e si raccolgono informazioni sugli abitanti. Spesso la “mappatura” avviene di notte e ha lo scopo di disturbare, infrangere le abitudini, esibire un potere pervasivo.
“Accertare un’uccisione”, secondo un testimone, è una procedura conosciuta in tutto l’esercito. Alla fine di un combattimento si esplora il territorio conquistato: “Se vedi un nemico, qualcuno che è stato ferito durante la tua invasione o attacco, gli lasci un proiettile in testa”. Il film è spietato e l’articolazione della violenza è definita con un tale disincanto da non permettere un’assoluzione tramite la confessione.
I tre film, grazie alle storie orali di soldati impegnati in guerre e operazioni militari, istituiscono una decostruzione della storia di Israele dalle origini al nostro secolo. Le modalità sono diverse: lo scrutinio di una memoria rimossa smantella l’ordine morale dello stato (Tantura); l’esposizione di una memoria consapevole smantella l’istituzione oggettiva delle leggi e delle immagini, mostrando la loro origine manipolatoria (The Law in These Parts); la collezione di memorie confessate costruisce un archivio di violenze che smantella la possibilità di una redenzione individuale (The First 54 Years). Nel saggio Sulla diversità della storia orale, Alessandro Portelli scrive che “le fonti orali sono […] condizione non sufficiente ma necessaria per la storia delle classi non egemoni; sono forse meno essenziali per la storia dei gruppi dominanti che, ritenendo il controllo della scrittura, hanno affidato a questa gran parte della memoria che intendevano conservare”.
In questo percorso nel cinema israeliano assisto a un rovesciamento straordinario: la storia orale del gruppo dominante è uno smontaggio spietato del complessivo processo di istituzione d’un peculiare potere statale. È allora possibile una controstoria orale che procede per dissimili strategie di smantellamento: così la voce del gruppo dominante erode il fondamento del suo potere. (francesco migliaccio)
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