Sarebbe bello poter scrivere, “ecco, è così, le parole d’ordine erano queste, le persone mi hanno detto quest’altro, gli slogan, i colori, le musiche, erano così e colà”. Magari. Dei “convogli della libertà” francesi, delle manifestazioni di ieri, al risveglio, trattengo solo un’inquietudine vaga, un disorientamento pressoché totale, che si evolve in una specie di rabbia sorda.
Venerdì sera hanno cominciato ad arrivare a Parigi i “convogli della libertà”, mutuati da quelli canadesi, e ieri è stata giornata di manifestazioni, con varie partenze, differenti atmosfere a seconda del luogo dove uno si trovasse. I due blocchi più importanti erano a Place d’Italie e sugli Champs Elysées, e io sono andato a Place d’Italie. Sugli Champs, la cosa è rapidamente evoluta in una giornata di scontri e lacrimogeni, cosa che non mi sembrava propizia a farsi un’idea chiara sul fenomeno (non che ci sia riuscito, peraltro).
In contemporanea, c’era un’altra manifestazione, indetta dal Comité Adama, per protestare contro l’ennesima manipolazione giudiziaria della giustizia francese nel processo dei gendarmi accusati di avere ucciso Adama Traoré. Dopo ci torniamo.
Place d’Italie è una gigantesca piazza rotonda, con al centro un parchetto circondato da un marciapiede. Un paio di migliaia di persone si stringono concentriche mentre il traffico abituale sfreccia al loro fianco. Prime impressioni: gilet gialli, come nel 2018-19. Gruppetti venuti in macchina, con sopra gli adesivi del convoi. Un tizio vestito come Cristo, coi capelli rosa e un saio marrone, porta una croce con su scritto “le peuple roule vers la liberté” (rouler, vuol dire andare in macchina da qualche parte). Quella sensazione di cyberpunk tratta dal fumetto di Ellis e Robertson, Transmetropolitan, quando vedo signori/e di mezz’età andare in giro coi selfie-stick e un nugolo di cavi e batterie tenuti insieme da scotch da pacchi, blaterando le ultime notizie sui live dei vari social network. «Gilets Jaunes, quel est votre métier? Ahu! Ahu! Ahu!».
Pian piano l’assembramento s’ingrossa, la polizia blocca il traffico e noto che c’è una differenza sostanziale con le manifestazioni no-pass. Non ci sono i tradizionalisti cattolici. Non ci sono gli slogan scanditi a gran voce sul futuro dei bambini e altre menate. Molti cori contro Macron, i grandi classici dei gilet gialli: «Ti veniamo a cercare», «Macron ci fa la guerra / con la sua polizia…».
Il corteo prende forma con lentezza, s’insinua verso un’uscita dalla piazza, subito bloccata dalla polizia, e volano i primi lacrimogeni. C’è il sole. Un tizio un po’ ubriaco e vestito di nero corre come un forsennato, brandendo un telefono come fosse un trattato politico: «In diretta dagli Champs Elysées!», urla, seguito da una cinquantina di uomini altrettanto nerovestiti. Vorrebbe andare fino a là, qualcuno prova a spiegargli che è dall’altra parte della città.
Sospinta di qua e di là dai lacrimogeni verso l’unica uscita lasciata libera dalla polizia, la folla fa il giro della piazza. Un tizio lancia insulti razzisti contro un poliziotto dalle fattezze asiatiche. Finalmente il corteo prende forma, incanalandosi verso la Senna, marcato a uomo dai gendarmi che, tutto sommato, sembrano piuttosto tranquilli – d’altronde siamo in piena campagna elettorale (si vota il 10 e il 24 aprile).
Un gruppo di compagni/e prende la testa del corteo con un bello striscione molto street, con su scritto “flambée des prix / flambée de la colère” (potrebbe tradursi come “esplosione dei prezzi, esplosione della collera”). Ritmano uno slogan: «Quand il faut y aller / les gilets jaunes sont là», quando c’è da “andare”, nel senso di rimboccarsi le maniche, i gilet gialli sono presenti. Segno sul quaderno: “Andare, ma dove?”. La folla risponde: «Résistance, liberté!». Segno: «Inquietante».
Sono sempre più disorientato. Le rivendicazioni sul carovita, sulla democrazia, sulla giustizia sociale e fiscale, che avevano costituito l’anima dei gilet gialli nel 2018-19, non è che siano proprio assenti, ma sono chiaramente in subordine rispetto al prendersela con Macron e con il pass vaccinale. Scritte contro i vaccini sono presenti un po’ ovunque: «Il vaccino è un veleno mortale! Salviamo i bambini!», urla un anziano da un megafono, in direzione dei perplessi avventori che si godono il sole ai tavolini di un bar. «Perroquets, svegliatevi!».
Noto sul quaderno: “Con naturalezza, con quella aisance che gli era propria qualche anno fa, i gilets jaunes di place d’Italie integrano no-pass e no-vax con le ‘vecchie’ rivendicazioni, senza alcuna timidezza. E io sono a disagio, ché questa aisance rispetto ai discorsi complottisti, questa integrazione discorsiva, mi sembra qui un dato di fatto, talmente ovvia da non essere nemmeno in discussione, da non essere quasi neanche interessante, ebbene questo mi mette a disagio, ho paura di chiedere, di sapere cosa c’è, oggi, sotto al gilet…”.
Il corteo ogni tanto si blocca, fermato dalla polizia. A intervalli regolari volano lacrimogeni, la polizia riguadagna qualche metro, il corteo si ferma in una nuvola di gas, poi riprende il suo deambulare. In testa, subito dietro a quelli che tengono lo striscione, c’è una fila di compagni che non conosco, ma che portano segni distintivi che mi sono più familiari: spillette, magliette, sciarpe con i simboli della sinistra rivoluzionaria, qualunque essa sia. Hanno delle percussioni e cercano di ritmare gli slogan, ve n’è uno con un tamburo, un altro con delle campane e così via. Sono terribilmente fuori ritmo.
Quando giriamo sul ponte davanti alla Bibliothèque Nationale de France, un amico mi raggiunge e decidiamo di dirigerci verso un’altra manifestazione, quella indetta dal Comité Adama, a quest’ora ormai in chiusura a Chatelet, al di là del fiume.
Non saprei bene riassumere l’importanza simbolica e politica della lotta per la giustizia della famiglia Adama Traoré, ucciso dalla polizia a Beaumont-sur-Oise, nella banlieue parigina, nel 2016. La battaglia è portata sopratutto dalle solide spalle della sorella, Assa. Da un fatto famigliare e di cronaca, ne hanno fatto un grande fatto politico, cambiando per sempre la percezione della violenza, razzista e assassina, della polizia in Francia. Oggi denunciano l’ennesima manovra insabbiatrice della giustizia francese, che sta producendo una perizia per giustificare un’improbabile malattia cardiovascolare del ragazzo assassinato dagli agenti.
Giungiamo alla fine della manifestazione, proprio mentre dal camion sta parlando Assa Traoré. Come sempre emana un carisma magnetico, le parole toccano la piazza in posti rari, le persone ascoltano in silenzio. «Dobbiamo marciare, perché i nostri bambini siano fieri di noi – dice Assa dal camioncino –. I nostri bambini devono poter dire, tra dieci, vent’anni, che abbiamo marciato per loro. […] Voglio che nel futuro, tra molti anni, si dica che questo movimento, che ha cambiato lo stato di cose, è stato il movimento che porta il nome del mio fratellino. Adama non tornerà più, ma il suo nome sarà simbolo di libertà, d’uguaglianza, e se potremo uscire tranquilli nei nostri quartieri popolari, senza farci ammazzare dalla polizia, sarà anche grazie a lui».
Dopo di lei, prendono la parola un gruppetto di ragazze, le hijabeuses, un collettivo di calciatrici a cui lo stato vorrebbe imporre di giocare senza velo; poi Babar, l’eminenza del Dal, Droit au logement, il collettivo che da decenni occupa alloggi per i senza casa; poi il fratello di Wissam El-Yamni, camionista ucciso dalla polizia il 31 dicembre 2011, e sono più dieci anni che il processo è ancora aperto: «Siamo noi che diciamo la verità », dice il fratello, semplicemente, e questa frase lapidaria la segno nel quaderno. Qui non mi sento più disorientato.
Il primo dicembre 2018, quando ancora non si sapeva bene cosa fossero questi gilet gialli, insieme all’Action Antifasciste Paris Banlieue e alla Plateforme d’Enquête Militante, il Comité Adama aveva chiamato a fondersi nel movimento, a partecipare, a “non lasciare il terreno all’estrema destra”, a fare “alleanza contro il regime di Macron che distrugge le nostre vite”, giacché “anche noi, abitanti dei quartieri popolari, lavoriamo spesso nei settori più precari per salari da fame”.
Tornando dai cortei, insieme al mio amico, mi chiedo cosa mai sarà successo in questi tre anni. Il gilet giallo, da simbolo di rivolta e terrore del borghese, mi sembra oggi stinto, e credo che questi convogli, tra qualche giorno, ce li saremo già dimenticati. (filippo ortona)
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