Quest’anno si prospetta un autunno molto caldo per gli atenei italiani. Dopo il blocco della didattica a luglio, la sospensione degli esami e delle sedute di laurea, la protesta dei ricercatori continua e si cominciano a sentire le prime conseguenze dello sciopero di una categoria senza la quale molti corsi rischiano di non partire in molte università. A Napoli la situazione non è migliore, anzi.
Bruno Catalanotti è ricercatore della facoltà di Farmacia della Federico II, uno dei primi atenei ad aver comunicato lo slittamento dell’inizio dei corsi di almeno due settimane. La riforma dell’università, firmata dal ministro Gelmini e approvata dal Senato, viene presentata come portatrice di maggiore efficienza, risparmio e qualità. Ma Bruno, e come lui tutti quelli contrari alla riforma, non la vede così: «La riforma mette tutto il potere nelle mani del rettore. Nella gestione universitaria ci sono degli organi di controllo: il Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione, entrambi composti da rappresentanze elette dalle varie componenti dell’università, dai professori agli studenti. Con la riforma, le rappresentanze saranno presenti solo nel Senato, che rimarrà elettivo ma avrà un ruolo ridimensionato, di semplice “consulenza”, mentre il CdA sarà nominato dal rettore e dovrà accogliere minimo il quaranta per cento di elementi extra-universitari, come politici o imprese che vogliono investire. Altra questione fondamentale è il diritto allo studio. Non ci sono più borse di studio ma prestiti bancari; non viene sostenuto il bisogno, ma solo il merito». E c’è poi il lato umano, non meno trascurabile: «fare ricerca è un lavoro di passione, ma se non ci sono stimoli, se non c’è indipendenza, se la Gelmini ci considera fannulloni e ci paga come tali, diventa frustrante, cominci a chiederti se ne vale la pena e anche la passione comincia a vacillare».
Bruno, chimico farmaceutico, è diventato ricercatore a trentasei anni,dopo dodici anni di precariato. È stato nel tempo dottorando, post-doc, assegnista di ricerca, ha avuto contratti co.co.co. e contratti a quarantacinque giorni. «Ma solo per otto, nove mesi non sono stato pagato – dice sorridendo – sono uno dei più fortunati». Adesso lavora in collaborazione con un gruppo di medicina a un progetto di ricerca su nuovi farmaci per il cancro. «Lavoro quasi tutte le notti. Preferisco lavorare da solo, per essere più autonomo. Ho poche spese di consumo. Lo studio e il computer all’università vengono invece da un finanziamento europeo, ma i computer grafici li compro usati dagli Stati Uniti. I soldi statali sono pochi e di solito sono assegnati ai gruppi più grossi, dove però non c’è autonomia. I privati invece non danno soldi finché non c’è un risultato. In effetti, avrei bisogno di molto più tempo per le mie ricerche».
Lo stipendio di un ricercatore attualmente va dai milletrecento ai duemila euro mensili. È il trenta per cento in meno della media europea. Questa situazione è la stessa in tutta Italia, eppure gli italiani competono con inglesi e francesi nella ricerca. «Non abbiamo nulla da invidiare a nessuno – continua Bruno – ma un ricercatore italiano non avrà pensione. Entra a trenta, trentacinque anni, dopo aver fatto un percorso obbligato, va in pensione a sessantacinque, con venticinque, trenta anni di contributi, che non bastano per avere la pensione perché il minimo utile è di trentacinque anni».
C’è poi il Fondo di Finanziamento Ordinario ( FFO), che viene ridotto di anno in anno; di questo una quota (da quest’anno il dieci per cento) viene assegnata alle università su base premiale. «Se questo “premio” si basasse sulla qualità – dice Bruno – potrebbe anche andare bene. Ma gli indicatori di “merito” utilizzati sono connessi alle capacità produttive, per esempio il numero di laureati che trovano subito lavoro, o alla capacità di recuperare fondi. Questo è andato a sfavore delle università meridionali, perché dalle nostre parti c’è meno lavoro. Eppure la qualità c’è. Il campo chimico, medico, biologico, sono buoni. Ma Napoli ha perso lo stesso circa cinque milioni di euro nel 2010 e nel 2011 dovrebbe perderne altri diciotto».
In Italia ci sono ventiquattromila ricercatori – su un totale di sessantamila docenti – che portano avanti il quaranta per cento dei corsi anche se sono assunti solo per fare ricerca. Di questi, diecimila hanno dato indisponibilità a tenere le lezioni, decidendo di fare solo quello cui sono tenuti, ovvero la ricerca. «A Napoli l’adesione dei professori alla protesta è scarsa – continua Bruno. – I precari, docenti con contratti a tempo determinato, sono assenti perché troppo ricattabili. Più del sessanta per cento dei ricercatori invece ha già dato l’indisponibilità a sostenere le lezioni nelle facoltà di Agraria, Architettura, Sociologia, Scienze MFN, Medicina, Ingegneria, e negli ultimi giorni si è aggiunta anche Lettere e Filosofia. A Biotecnologie i ricercatori hanno accettato di tenere i corsi solo a pagamento, mentre a Veterinaria hanno accettato un solo corso lasciandone scoperti più di sessanta. A Ingegneria il venticinque per cento circa dei corsi sono scoperti, di cui molti fondamentali. A Scienze e ad Agraria per cominciare le lezioni accorperanno molti corsi simili, causando sovraffollamento e disagi».
Sono cinque anni che la situazione dei ricercatori è in questo stato. Con la riforma del “3+2” sono aumentati i corsi di laurea ma diminuiti i professori, con un maggiore bisogno di ricercatori che li sostituiscano. Già con la riforma Moratti era cominciato un movimento ”embrionale” dei ricercatori che ha trovato il suo apice solo adesso. «Da luglio il governo ha accelerato sulla legge – dice Bruno – e a ottobre non si sa cosa succederà. Se anche dovesse cadere il governo, la situazione non migliorerebbe. C’è un vuoto normativo che determina il blocco dei concorsi, dalla Moratti a oggi ce ne sono stati solo tremila in tutta Italia. Se si aggiungono anche i tagli di Tremonti, praticamente il precariato è assicurato fino ai quarantacinque anni». Le pressioni per far rientrare la protesta sono state molte, non ultima quella del rettore dell’Alma Mater di Bologna, che ha minacciato di sostituire i ricercatori che aderivano al blocco dei corsi fondamentali con i docenti a contratto, ma la risposta è stata l’adesione dei ricercatori di altre tre facoltà al movimento. «Questo dà forza – conclude Bruno – ed è forse l’unica notizia buona di settembre».
La situazione per il momento non sembra migliorare. I ricercatori continueranno con la loro protesta, cercando di intraprendere anche un percorso comune con gli studenti. Il 17 settembre c’è stata la seconda assemblea nazionale della “Rete29Aprile”, il movimento nato spontaneamente da una mailing list che ha portato all’assemblea tenuta appunto il 29 aprile a Milano. Questa rete porta avanti dettagliate proposte di riforma dell’università, consultabili sul sito, dichiarandosi inoltre “pienamente disponibile a collaborare con il governo, il parlamento e con tutti coloro che hanno a cuore l’università pubblica per migliorare il presente DdL”.
I prossimi giorni saranno cruciali per le sorti del DdL che, in attesa di lettura alla Camera, ha subito un’accelerata su pressione di Confindustria e della Conferenza dei Rettori, i soli che ci guadagnano dalla dismissione dell’università pubblica e dall’accentramento dei poteri. Il 13 ottobre a Napoli ci sarà un’assemblea dei ricercatori insieme agli studenti, che sembra stiano ricominciando a muoversi dopo un periodo di assenza nella protesta. Mentre il 14, data in cui era previsto l’inizio della discussione della legge alla Camera, ci sarà un presidio davanti a Montecitorio. Intanto, domani venerdì 8 ottobre alle 14,30 è stato organizzato un presidio al rettorato della Federico II durante lo svolgimento del Senato Accademico. (sara di bianco)
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