Dal 12 al 15 ottobre si è tenuto a Milano il Congresso mondiale per la giustizia climatica. Durante quattro giorni di seminari, assemblee, plenarie e socialità, più di duecento delegati da circa trenta paesi – attivisti e attiviste, rappresentanti di movimenti, intellettuali, artiste, contadine, lavoratori, curandere, sindacalisti e studenti – hanno discusso, cospirato, litigato e interrogato le strategie e le tattiche per sovvertire lo stato di cose presenti verso la giustizia climatica e sociale. Grazie allo sforzo dei movimenti e dei centri sociali milanesi – Ultima Generazione, Ecologia Politica Milano, XR Milano, Piano Terra/Off Topic, Comitato Acqua Milano e Leoncavallo, tra gli altri – che hanno organizzato modalità e spazi, logistica, traduzioni, vitto e alloggio, Milano è diventata la tolda di un galeone nel sibilare di venti contrari, sulla quale una ciurma determinata ha inteso schiudere orizzonti più limpidi della catastrofe che è già qui.
Lo scopo principale del Congresso si racchiudeva nel tentativo di consolidare il coordinamento tra movimenti e gruppi affini ma diversi, le cui lotte e vertenze rientrano nel vasto campo politico della giustizia climatica. Sul piano pratico, per gli organizzatori, ispirati dalla Seconda Internazionale di fine Ottocento, il Congresso aveva tre obiettivi: federare i movimenti presenti nella Prima Internazionale Climatica; designare una giornata di azioni coordinate a livello planetario; e creare una struttura stabile su scala globale di solidarietà e supporto – legale e materiale – agli attivisti perseguitati e arrestati.
Quattro giorni non potevano bastare per esaurire le discussioni su obiettivi tanto ambiziosi. Fino agli ultimi momenti della interminabile plenaria finale, era palpabile la tensione tra il tentativo di elaborare un’organizzazione solida e delle parole d’ordine condivise, e la necessità di mantenere aperte la spontaneità e creatività delle azioni e delle mobilitazioni. Su tutto pressava un’urgenza: l’assottigliarsi del tempo utile per evitare il riscaldamento globale oltre la soglia di temperatura di 1.5C, un limite indicativo del livello di cambiamento climatico antropogenico che renderebbe inabitabili vaste zone della Terra oltre a moltiplicare gli eventi estremi, con il portato di destabilizzazione sociale e politica che ne conseguirebbe.
È una temporalità infausta quella che intreccia la crisi climatica alle sfide politiche: da un lato, non c’è tempo, bisogna decarbonizzare al più presto, un fallimento nel contenere il riscaldamento rischia di pregiudicare il futuro, soprattutto per i più vulnerabili; dall’altro, occorre tempo per crescere in un largo movimento popolare così da mobilitare la forza sociale necessaria a costituire una contro-egemonia, a conseguire vittorie politiche intermedie, a materializzare delle alternative percorribili al sistema che si intende abbattere.
La diversa enfasi posta su questi due elementi strutturanti il campo del conflitto ha caratterizzato gli interventi dei portavoce provenienti dal Nord e dal Sud globali.
I gruppi afferenti alla galassia di movimenti di azione diretta e disobbedienza civile non intendono restare a guardare mentre il mondo brucia. Sono loro che promuovono una proliferazione dei blocchi, continui e possibilmente permanenti, aggiustando magari il tiro – dal blocco delle città, ai blocchi alle infrastrutture fossili, alla circolazione delle merci e agli eventi delle élite –, ma senza fermarsi. I gruppi del network A22, in Italia e altrove, puntano a organizzare forme di resistenza più piena e costante, che disturbino ogni giorno il fluire della “normalità”. Gli Ende Gelande tedeschi, ormai veterani della disobbedienza civile di massa, persistono nel blocco diretto di infrastrutture, prima il carbone, ora il gas, l’agricoltura industriale e l’industria dell’auto. In Uganda, gli attivisti contro EACOP (un gasdotto di 1.443 chilometri dall’Uganda alla Tanzania) intervengono sul terreno e nelle sedi legali per fermare il lungo gasdotto. La consapevolezza che si fa strada è che sia necessario l’attacco ai profitti per colpire il potere economico così da influenzare il potere politico.
Ma coloro che sono coinvolti nell’azione diretta denunciano anche l’inasprirsi della repressione da parte dei governi, la demonizzazione e persecuzione che li colpisce nei media e sulle strade. La repressione potrebbe agire da miccia per suscitare empatia, alimentare l’indignazione sociale e il coinvolgimento di più persone, o almeno qualcuno così crede. Tuttavia non è scontato. Inoltre, i processi, le multe, le minacce, l’inquadramento come “terroristi” e “crimine organizzato”, e in molti casi la galera, fiaccano gli individui che ne sono coinvolti, anche quando la resistenza è ammantata di eroismo.
Dagli stessi gruppi emerge anche la necessità di allacciarsi alle vertenze locali e di unire la lotta per la giustizia climatica alle rivendicazioni legate ai bisogni sociali. I vari rami dei Fridays For Future hanno iniziato a intervenire in vertenze specifiche, come le questioni del reddito, della casa e della gentrificazione. Uno dei gruppi più radicati nel contesto dove operano, gli attivisti di Defend Atlanta Forest – Stop Cop City, dagli Stati Uniti, ha sottolineato l’importanza di creare connessioni nei luoghi che si difendono. E di non proiettare le visioni politiche del movimento climatico – ancora troppo bianco e occidentale – sul mondo intero, ma di guardare invece alle lotte in corso per l’autonomia dovunque avvengano e supportarle. La diversità resta cruciale. La linea guida comune è la resistenza contro le strutture e i meccanismi di controllo coloniali che incardinano il sistema capitalista e sottendono la logica del suo precipitare sui territori.
Per Climaximo, dal Portogallo, non basta, c’è bisogno di un piano. Aperto, in divenire, non esente da improvvisazione, ma necessariamente condiviso e strutturato. Bisogna coordinarsi a livello internazionale: il capitalismo è una forza globale, per questo solo un movimento globale può avere qualche possibilità. Il piano strategico dovrebbe essere su larga scala. Non solo blocchi continui e permanenti, ma anche una “grande storia”, un’utopia del futuro, opposta a quello della destra eco-fascista, integrando l’antifascismo pienamente entro il movimento per la giustizia climatica.
A premere sulla necessità di pianificazione e organizzazione sono anche quei movimenti che arrivano al clima da altre genealogie politiche e più in generale dai modi di vita alternativi. Gli afferenti alle reti eco-socialiste invitano a lavorare sul tessuto sociale, per far aumentare la partecipazione nelle organizzazioni esistenti e per crearne di nuove. Al fine di cambiare le relazioni di potere, affermano, l’azione politica va indirizzata verso i bisogni sociali, unendosi ai movimenti dei lavoratori e a quelli territoriali.
Tra i movimenti legati al lavoro, i più lucidi e pragmatici al Congresso sono stati i rappresentanti del Collettivo di fabbrica Gkn Firenze. Dopo aver risposto al licenziamento con l’occupazione, creando un movimento e una forma di azionariato popolare – “Insorgiamo” – di respiro nazionale e alleato ai movimenti climatici, hanno elaborato un piano alternativo per la fabbrica per produrre pannelli solari e bici-cargo elettriche. Allo stesso tempo, il Collettivo di fabbrica non si vuole fermare a decidere della produzione entro gli stabilimenti, ma vuole agganciarsi alle lotte fuori. Non basta produrre bici-cargo se poi sono utilizzate da lavoratori sfruttati e malpagati. Allo stesso tempo, non è sufficiente produrre pannelli solari per i grandi gruppi industriali, ma va conseguita una democratizzazione delle decisioni energetiche. Per questo la convergenza tra lavoratori e movimenti climatici è necessaria. Per loro, la sostanza della transizione climatica deve essere un piano sociale fondato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
Sul piano rurale, l’esperienza di Mondeggi ha portato al Congresso l’enfasi sull’agroecologia come fonte di produzione non solo di cibo e di cura del territorio, ma anche di nuove forme di appartenenza ecologica, nuove forme di vita e nuovi desideri. L’agroecologia è infatti un impulso a trasformare la scienza, a creare istituzioni alternative, a ripensare le relazioni tra città e spazi rurali. Politicamente ancora debole, ma culturalmente forte, si può immaginare come un modo di vivere coerente con il movimento per la giustizia climatica. Se la costruzione di contro-potere ha bisogno di un movimento vasto, all’azione di disobbedienza civile va accompagnata la creazione di una rigenerazione socio-ecologica. C’è forse bisogno di qualcosa di più della rabbia e della disobbedienza. C’è bisogno di strumenti per moltiplicare politicamente le forme di ripresa del potere da parte di singoli e comunità, riportando al centro anche la questione della terra.
Sottrarsi alla cooperazione forzata con il sistema che combattiamo implica la costruzione di alternative praticabili, per i movimenti e per la società in generale. Un attivismo climatico sacrificale, che fa la cosa giusta al di là delle conseguenze personali e anche se la maggioranza non lo segue o lo combatte, ha delle conseguenze strategiche, tra le quali quella di non condurre alla creazione di larghi movimenti popolari. Invece, organizzandosi intorno ai bisogni sociali – per esempio durante i disastri, o in campagne per isolare meglio le case, o per un sistema di produzione alimentare diverso – si creerebbero spazi per risolvere urgenti problemi e, insieme, per creare un programma di cambiamento politico che contenga risposte a necessità collettive.
Il Congresso può aver fallito nel definire un piano univoco per coloro che si battono per la giustizia climatica e sociale. Ma è stato un formidabile spazio di crescita per tutti i soggetti coinvolti, di avvicinamento ed elaborazione senza le quali la necessaria sinergia dei movimenti resterebbe un miraggio.
Alla fine, restano indicazioni strategiche e tattiche utili a mappare l’eterogeneità dei punti di intervento e delle direttive di azione. Queste includono: la necessità di convergenza tra movimenti; la non cooperazione con il potere; il ruolo centrale di guida dei movimenti del Sud globale; l’azione di disobbedienza civile come strumento per colpire le élite e il potere fossile; la costruzione di solidarietà di classe; l’apertura verso creatività e intersezionalità; l’utilità di canali di comunicazione condivisi; l’imperativo della connessione con movimenti locali e con le zone autonome da difendere; il ruolo dei meccanismi di solidarietà che rispondono alla repressione degli attivisti così come ai bisogni collettivi delle persone. E tutto questo declinato entro l’obiettivo di restare al di sotto di 1.5C di riscaldamento globale – sin prisa pero sin pausa. (salvatore de rosa)
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