Sono le due del mattino del 5 aprile quando arriva l’allarme dal parco Don Bosco: i carabinieri stanno inseguendo Gio, un giovane studente che presidia il parco di notte. Numerose persone accorrono in suo aiuto, ma i carabinieri riescono a placcare il ragazzo, colpirlo due volte con il taser e accecarlo con spray al peperoncino. Gio perde conoscenza. Una medica presente sul posto cerca d’intervenire in suo soccorso, ma non la fanno passare. Alla fine Gio viene portato in caserma, dove attenderà ore prima di essere portato in tribunale per il processo per direttissima: le accuse sono furto aggravato, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Di fronte al tribunale si radunano alcune centinaia di persone che si fermano a manifestare in sostegno del diciannovenne fino a quando non viene liberato nel pomeriggio, una volta cadute le aggravanti e rinviata la prima udienza. Che si tratti di un tentativo d’intimidazione alla protesta a cui il giovane studente aderisce è chiaro a chiunque la sostenga. Due giorni prima Gio aveva partecipato alla resistenza al tentato sgombero del parco occupato, e quella sera stessa, nel corso di un’intervista, il questore Sbordone rende noto che non si aspettava un’opposizione così forte e decisa, aggiungendo una considerazione che, nella sua banalità, risulta illuminante: se la resistenza non fosse stata di tale veemenza, secondo Sbordone, la protesta sarebbe stata legittima. Una logica emblematica del processo di addomesticamento di qualunque dissidenza che da anni trova terreno fertile nel prospero capoluogo emiliano.
Due giorni prima, il 3 aprile, un centinaio di poliziotti, carabinieri e altre forze dell’ordine si era presentato al parco in assetto antisommossa per espellere quelle che, dalle prime luci dell’alba, erano poco più che lo stesso numero di persone pronte a difendere il presidio. Quella mattina lo strano amalgama di resistenti, composto da abitanti del quartiere, giovani e qualche membro di collettivi ecologisti, aveva reso la situazione difficilmente governabile, agendo nelle modalità più disparate: stendendosi per terra di fronte alla polizia, serrandosi a cordone per bloccarne l’avanzata o appostandosi sugli alberi. Insieme alle forze dell’ordine si erano presentati anche gli operai della ditta incaricata di disboscare, i quali, muovendosi di concerto con la celere che avanzava dentro al parco a suon di manganelli, erano riusciti a transennare l’area guadagnata. La gente intanto era accorsa sempre più numerosa per sostenere l’opposizione. A metà mattina la situazione era in stallo: alcuni attivisti erano riusciti a porsi all’interno dell’area recintata bloccando il taglio degli alberi e la polizia aveva deciso di non procedere oltre; evidentemente, la resistenza inattesa non era così facile da reprimere in un lembo di terra incuneato tra i palazzi del quartiere baluardo del partito democratico, durante lo svolgimento delle lezioni nelle scuole elementari e medie che affacciano sul parco. Nelle ore successive la tensione si era sciolta in uno strano immobilismo, condito da momenti di goliardia improvvisata davanti alle file della polizia e barzellette sui carabinieri raccontate al megafono dalle casette sugli alberi, mentre sul cantiere sventolava la bandiera No Passante. Ma nel primo pomeriggio gli operai spazientiti volevano riprendere i lavori, spingendo le forze dell’ordine a liberare il cantiere. Tra le urla della gente, che si spostava a ondate da un lato all’altro dell’area transennata, con i cordoni di polizia che si muovevano sincronicamente senza risparmiare le manganellate, gli operai avevano cominciato ad abbattere alberi sani e adulti come fossero fiammiferi. Tutto sembrava presagire che le cose si sarebbero concluse con l’ennesima sconfitta, ma l’imprevedibilità dell’amalgama resistente stava per rivelarsi di nuovo. Il lato ovest dell’area degli abbattimenti, contiguo a un’altra area di cantiere (per la costruzione della futura linea del tram), era rimasto indifeso dalla celere, consentendo ai manifestanti di fare breccia nelle reti, e dando così il via all’entrata in massa nel cantiere di dozzine di persone. Agli operai non restava altro che interrompere i lavori e uscire con i mezzi dal cantiere, dettando la ritirata anche della celere e della digos.
L’esito del 3 aprile ha sorpreso tutti. Ma a sorprendere è anche tutto il percorso intrapreso dal comitato Besta che ha acceso la protesta e della comunità resistente che la sostiene. È il luglio del 2023 quando il comitato prende forma dalla volontà di alcuni abitanti del quartiere San Donato, dove il parco Don Bosco, l’ultimo piccolo polmone verde di un quartiere fieristico quasi completamente edificato, è messo a rischio da un progetto del Comune che prevede l’abbattimento di oltre sessanta alberi al suo interno (non trentuno, come dichiara erroneamente il Comune) per fare spazio alla ricostruzione più “green” delle scuole Besta, il complesso scolastico che esiste a fianco. La mobilitazione comincia con raccolte firme, studio del lavoro dei tecnici comunali, sensibilizzazione, incontri di quartiere, e anche un (vano) incontro con gli assessori. Nel corso dell’autunno si uniscono sempre più persone provenienti dall’area di protesta diffusa che ormai da qualche anno sta montando contro vari progetti di ristrutturazione urbana – il più importante di questi è probabilmente l’allargamento di autostrada e tangenziale di Bologna, il cosiddetto Passante di Mezzo – e da più o meno vecchie esperienze di lotta cittadina. Tuttavia, per mesi ogni azione intrapresa dal comitato non riesce a essere incisiva nel fermare il progetto. A segnare la svolta sarà l’azione di risposta diretta del 29 gennaio, giorno previsto per l’inizio dei lavori di posa delle reti di recinzione dell’area del parco interessata dal taglio degli alberi. Quella mattina gli operai erano arrivati per installare le reti sotto l’occhio vigile della municipale e una piccola folla di manifestanti aveva cominciato a protestare rumorosamente, con alcune persone che si erano incatenate agli alberi. Nella confusione generale, “una folata di vento” ha improvvisamente abbattuto le reti già installate, fermando i lavori e costringendo operai e agenti ad andarsene. È da allora che resiste il presidio al parco Don Bosco: con le reti del cantiere sventato sono state costruite un capanno al centro del parco e delle barricate per impedire l’eventuale accesso dei mezzi operai o delle forze dell’ordine, e insieme alle strutture di difesa a terra sono sorte anche le casette sugli alberi; una pratica di resistenza talmente inedita per la città e le persone che la abitano da diventare il punto di forza dell’occupazione.
A Bologna la vita politica si svolge su binari paralleli che quasi sempre non s’incontrano: il “movimento” più giovanile, il più delle volte orientato al centro città e animato da studenti fuorisede, o comunque da persone che vengono da fuori Bologna; e una popolazione mediamente più adulta, e bolognese da più tempo, che abita i quartieri fuori dal centro e costituisce un corpo elettorale attivo che interessa agli amministratori. Ovviamente, a questo quadro semplificato andrebbero aggiunti molti dettagli, ma l’elemento saliente è la separazione di (almeno) due sfere del discorso pubblico – quello mediatizzato, e quello dei dispositivi di governo – che scorrono parallele. Come elemento preliminare a ogni riflessione sul parco Don Bosco c’è un punto che dovrebbe essere al centro dell’attenzione: l’amministrazione del territorio entra in crisi quando le sfere del discorso pubblico si bucano e, quindi, quando i riferimenti simbolici che regolano la vita cittadina cominciano a girare a vuoto. Se non si affronta questo nodo, se non si smontano i discorsi dell’avversario, e invece ci si muove come d’abitudine in una logica molare, della costruzione progressiva di masse mobilitate o coalizioni dal basso, ci si scontra inevitabilmente contro una repressione ben strutturata, finendo al limite per giocare a posteriori la parte delle vittime. In conseguenza di una strana alchimia, al parco Don Bosco, a pochi passi dal centro di Bologna, è stata vissuta una situazione tale che molti riferimenti simbolici potessero smettere di funzionare. E quindi una mobilitazione piccola, molto situata, ha cominciato a esprimere una creatività davvero pericolosa per il governo del territorio.
Il parco Don Bosco è oggi questa miscela ingestibile: una rivendicazione specifica, che permette di fare anche una scelta di vita e non soltanto di portare una critica teorica; ma, allo stesso tempo, una rivendicazione impossibile da separare, intrattabile come uno dei tanti “temi” cittadini, perché la questione degli spazi verdi suggerisce una complicità che non ha bisogno di assemblee politiche. Sono le sensibilità che si sintonizzano; e i gesti, le raccolte firme, i volantinaggi, le transenne divelte o la costruzione di casette sugli alberi non servono più a “informare” o “creare coscienza”, ma a costruire un polo d’attrazione per lo sguardo. Il punto non è l’alternativa urbana da costruire, ma la potenzialità alternativa che è già qui e può essere liberata.
“L’edificio più ‘green’ è quello che è già in piedi”, lo slogan della protesta, condensa perfettamente queste sensibilità e la visione delle persone che la agitano. Sin dall’inizio il comitato si è settato sulla posizione ferma e irremovibile del NO: no a possibili compromessi, no a future compensazioni ambientali, no a qualsiasi progetto o proposta che non prenda in considerazione la ristrutturazione delle scuole e la salvaguardia del parco. L’amministrazione comunale non ha mai considerato il progetto alternativo di efficientamento degli edifici e di salvaguardia delle biodiversità: ancora oggi, dopo quattro mesi di presidio e l’escalation di violenza tra il 3 e il 5 aprile, che ha spinto il sindaco Lepore a sospendere i lavori e condurre tavoli di discussione tecnica con il comitato, e nonostante la città si stia sempre più mobilitando contro questo agire politico – sui giornali si parla di “effetto Besta” con la nascita di nuovi comitati contro altri progetti di “riqualificazione” –, Lepore continua a sostenere che i lavori di realizzazione del progetto già approvato debbano riprendere quanto prima, poiché “ormai” l’appalto è stato assegnato. La solita canzone. Ma la novità, nella città che si definisce la “più progressista” d’Italia, la stanno costruendo le persone mobilitate intorno alla protesta del comitato Besta, che con la loro visione non uniforme, ma fortemente sensibile, intendono tutelare tutto il vivente, umano e non, senza più accettare di addomesticare il proprio dissenso a forme di pacificazione sociale che, senza mezzi termini, si rivelano nient’altro che tossiche e nocive. Forse, la Tumor Valley sta implodendo. (gilda e mattia)
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