Dal n.56 /novembre – dicembre di Napoli Monitor
Penso ai volti, alle situazioni, al disordine. Ai bidelli, come Pasquale che non vedeva l’ora di andare in pensione. Oppure penso a Stefano, che alla fine del laboratorio s’è portato a casa il giornale pur di completarlo, dopodiché ha ricomprato pastelli e pennarelli perché qualcuno li aveva spezzati. Ora che è passato del tempo, mi ritrovo a scrivere vivendo a due passi da alcuni di quelli che ho incontrato dentro la scuola e che adesso incontro fuori. Mi affaccio alla finestra, li sento scherzare. Esco di casa, li vedo. Frequentano il marciapiede di fronte al mio appartamento, stazionano fuori al bar di un tale che si chiama Pablo e che di prima mattina sta già tutto accelerato. Fumano sul lungomare o sulla spiaggia, giù alla rena. Stefano ha l’aria da ragazzo maturo nonostante i suoi diciassette anni. Una sera l’ho incontrato fuori al posto in cui lavora e mi sono fermato a salutarlo. Tutto scorre. C’è poco da fare Andrè. Il lavoro, il patentino, la scuola guida. Ho speso trecento euro per aggiustare il motorino e lo stesso giorno me l’hanno sequestrato i carabinieri. A scuola sempre le solite scemità, io mi faccio i cazzi miei, faccio bordello ma almeno mi controllo. Peluso ha provocato un povero dio d’insegnante e quello l’ha fatto sospendere.
Ha tatuato un crocifisso sul braccio e porta degli occhiali da sole graduati a goccia che gli conferiscono autorevolezza. Ha un fisico massiccio, va a scuola la mattina e lavora come commesso al mercatino il pomeriggio, dal lunedì alla domenica. Dice che viene dalla Croce del lagno e che da là non si vuole muovere. Al massimo San Giorgio, Portici, il Granatello. Non oltre, anzi sì, ma con il coltello in tasca per precauzione. Me lo mostrò un giorno nel bagno di scuola, fece finta di accoltellarmi e reagii d’istinto, tirando indietro la pancia. Marcello guardava la scena e rideva: «S’è cacato sotto!». Chiesi di farmi vedere il coltello, adesso l’impugnavo. Guardai Marcello che rideva e finsi di accoltellarlo. Reagì alla mia stessa maniera. Adesso ero io che ridevo.
La città da questa prospettiva è un pensiero distante, hai poca voglia di percorrerla fin lì, in quello che chiamano il centro. Quasi provi fastidio quando vai verso il Vomero per fare lezioni private a un figlio di buona famiglia. Da quella strada del Petraio c’è un bel panorama, si vede anche il depuratore di San Giovanni, Vigliena. È lontano. Misuro la distanza ma è impossibile. Il pensiero resta distante. Torni prima di cena e il corso di San Giovanni è affollato, pieno di gente che si attarda in mezzo alla strada. I giovani se ne stanno fuori ai centri scommesse oppure nella piazza del Municipio, nello Sperone. I motorini e le moto di grossa cilindrata s’insinuano tra le auto nel traffico, sorpassano l’autobus, il tram, i camion, ma si devono fermare quando una macchina in doppia fila blocca ogni passaggio; a quel punto partono insulti, clacson, minacce e bestemmie.
Inizi a familiarizzare con il tabaccaio fuori al portone, il signore che porta a spasso il cane la sera sempre allo stesso orario, il fruttivendolo, la signora del minimarket, l’edicolante, il barbiere, il gommista. La pizzeria e i suoi avventori abitudinari. Sono entrato varie volte in quella di Assunta, una signora corpulenta sulla sessantina, che porta un gran borsello nero con i soldi nella tasca di un mantesino rosso adornato di fiorellini. Cammina faticosamente tra i tavoli, dà il resto. Alle spalle del pizzaiolo, un uomo silenzioso con dei grandi baffi neri, è appeso un gagliardetto della Sangiovannese, anno millenovecentottantanove, e poi la foto della formazione del Napoli di Maradona. In sala il televisore resta sempre acceso e due uomini anziani che ho rivisto ogni volta che ci sono tornato si contendono il telecomando. C’è anche un vecchio juke box con le canzoni di James Brown, Renato Zero, i Mattia Bazar. Ne è ho parlato con la figlia di Assunta, una sera in cui volevo sentirmi ancora più a mio agio e ridurre la distanza, dopo che la figlia aveva assecondato la sua curiosità domandandomi a bruciapelo: «Voi non siete di queste parti».
«Sono di passaggio, abito nel palazzo di Cesare, lo conoscete?»
«Il professore? Nientedimeno… e certo che lo conosco».
«Funziona quel juke box?»
«No, i pezzi di ricambio costano troppo».
Quella sera stessa, per pagare una pizza cacciai una banconota da cinquanta, quello che guadagno in una settimana di lezioni private. La figlia di Assunta la guardò come se avessi cacciato un’arma da fuoco. Ci fu un momento di disagio, la osservò nervosa, la studiò. Se la passarono da figlia a madre per assicurarsi che non fosse falsa. A San Giovanni è consuetudine fare attenzione con maggiore zelo alle banconote.
Già che ci siamo, penso che si possa parlare anche di Antonio. Ma non si può parlare di Antonio senza accennare al gruppo di cui faceva parte: Fabio, per esempio, con la vocazione per il cabaret, introverso e goliardico allo stesso tempo. Un giullare. Ho visto un video di un suo spettacolo nel centro sociale di Carmela a via Ferrante Imparato, una sorta di oratorio frequentato da quelli che vivono a Pazzigno e nei rioni limitrofi. L’ho visto mentre ero su un’isola sperduta della Grecia che adesso sogno di notte in tutta la sua meraviglia. Chissà come reagirebbero i ragazzi al fascino di quell’isola in fondo al Mediterraneo al calar del sole. Comunque, la gente intorno mi avrà preso per pazzo quel giorno, mentre ridevo senza ritegno alle battute che faceva Fabio nel suo spettacolo. Davanti a una folta platea, in uno sketch fa la parte dell’alunno diciassettenne che frequenta ancora la prima. La professoressa chiede ai suoi compagni di classe: tu cosa vuoi fare da grande? L’ingegnere. E tu? Il medico. E tu? Il calciatore… Fabio, e tu cosa vorresti fare da grande?
«Prussurè si è possibbile a siconda!».
E poi penso a Enzo, Massimino, Salvatore, Alfonso, Enrico, Giovanni, Francesco, Angelo, Cristian, il pugile che si allena nella palestra di De Leva a Ponticelli – sedici anni, un peso massimo. Una classe di soli ragazzi in uno storico istituto professionale ormai alla deriva, non lontano dalle antiche officine di Pietrarsa. Ognuno ha partecipato a suo modo all’attività – c’era da realizzare “artigianalmente” un giornale –, ognuno ha dato il suo contributo. Ma senza Antonio non saremmo andati da nessuna parte.
Antonio l’ho conosciuto dopo i primi tre incontri in quella classe perché era stato assente. Aveva addosso la tuta del Milan. Eravamo ancora alla fase di elaborazione dei testi, che poi sarebbero stati selezionati e inseriti nelle pagine insieme al titolo, l’occhiello e le immagini. Quel giorno i ragazzi dovevano descrivere ciò che li circondava attraverso i sensi, solo che non dovevano scriverlo ognuno su un foglio (non ne avrebbero avuto voglia) ma dovevano dirmelo e io l’avrei scritto alla lavagna mentre il docente ricopiava tutto su un quaderno. In seguito avrebbero dovuto inserire il risultato di quell’esercizio su una pagina del giornale dal titolo: “Crescere nei quartieri”. Qualcuno di loro avrebbe dovuto dettarlo, qualcun altro ricopiarlo di suo pugno, avrebbero commesso errori di ortografia da correggere, o forse no, gli errori sarebbero rimasti tali, come i refusi che si trovano nelle riviste e nei quotidiani.
Antonio interveniva alzando la voce, dicendo parolacce, esternando frasi ambigue che ricopiavo più o meno così come venivano dette, cercando di aggiustare la sintassi, traducendo dal dialetto, coinvolgendo gli altri nel miglioramento di ciò che volevano esprimere. Ognuno disse la sua, e se in un primo momento si stupivano quando vedevano che non avevo problemi a ricopiare tutto ciò che dicevano, dopo un po’ iniziarono a prendere la cosa sul serio e il testo alla lavagna uscì lungo: Io vedo i mostri! Una bella ragazza! Io vedo tante cose tranne i soldi! Io sento… sento a mamma nelle orecchie! Io sento puzza di fogna! Io tocco il pallone, io mi faccio una grattata… io tocco il ferro, io tocco la maniglia! Dei contenuti se ne discuteva, il che alimentava la voglia di competere con chi la diceva più grossa. Da quei primi indizi era possibile intravedere il mondo al quale apparteneva Antonio, il suo immaginario condizionato dall’ambiente in cui era nato, vale a dire il Bronx, due lunghe schiere di palazzine una di fronte all’altra. Un dente davanti spaccato, i capelli corti, vestiti sportivi, lo sguardo aggressivo di sfida, serio, il viso magro dai tratti spigolosi. Esprimeva austerità, fastidio, inquietudine. Recitava la sua parte. Diciassette anni, era la seconda volta che ripeteva la prima. In quell’incontro notai la sua volontà di provocare, di mettere alla prova, d’inquadrarmi. Qualcosa in lui scalpitava con forza. Una rabbia incontenibile, un odio implacabile, qualcosa di irriducibile. Dal silenzio di Antonio si percepiva sofferenza, ma forse non era così, era anche indifferenza beffarda, diniego e rifiuto. E ne aveva il diritto, perché se fuori scuola le cose andavano da sempre in un certo modo, dentro non poteva essere altrimenti, e quel professore “civilizzato” che aveva di fronte difficilmente sarebbe stato capace di fargli cambiare idea.
Passò del tempo prima che lo rivedessi, e già mi sembrò diverso da come mi era apparso all’inizio. Stavolta Antonio se ne stava seduto tranquillo, calmo, senza urlare, senza dire parolacce, senza fare lo spavaldo. Chiesi il suo aiuto per lavorare al giornale e lui reagì badando ai fatti e non alle parole. Gli diedi dei periodici con immagini da ritagliare, ma preferì disegnare di suo pugno quelle stesse immagini, ricopiandole, dopo averne scelte alcune e scartate altre, apprezzandone la bellezza, valutandole di volta in volta. Si ritrovò con tutto il materiale necessario sul banco, e si mise con la schiena curva sul foglio a disegnare concentrato. Un’illustrazione trovata su un vecchio numero di Monitor decise di portarla a suo zio per farsela tatuare. Antonio aveva talento, si applicava, e non ci volle molto a farlo diventare il grafico del giornale della I C. Ritagliava e incollava le immagini, sceglieva i disegni da ricopiare, colorava i titoli, dettava la linea agli altri che lo ascoltavano. Impostò da solo tutta la prima pagina, dopo che Fabio aveva scelto il nome della testata: “Capatosta”; disegnò le lettere, l’indice e via dicendo, ma non scrisse niente. Preferiva il disegno. Lavorò assiduamente per un paio di settimane.
Poi fu sospeso. Non venne a scuola, e fin quando non sarebbe venuto la sua sospensione non sarebbe stata scontata. Ma lui non si faceva vedere. Chiedevo in giro e nessuno mi sapeva dare informazioni esatte. Passò altro tempo, sentii parlare di lui nel corso di una riunione da un’educatrice. Antonio le chiese di portargli le “Cronache di Napoli” perché doveva leggere un articolo che riguardava un suo zio arrestato. Una mattina finalmente lo ritrovai in classe e ne fui felice. Gli chiesi come stava, mi rispose con un cenno e ci mettemmo subito a lavorare, sempre nel solito caos gestibile della I C, quel bordello goliardico che poi esplodeva nell’ultima mezzora seminando il panico per i corridoi dell’istituto.
Una volta, verso la fine dell’anno, Antonio non aveva voglia di far niente. Ormai mi ero adeguato al suo carattere altalenante. Il giornale portava i segni della sua mano, delle sue idee stilistiche, delle sue scelte. Del suo odio. Mi avvicinai dicendogli che bisognava svolgere un ultimo compito e lui si rifiutò, ma quando vide la pagina di un periodico con l’immagine di un uomo dietro le sbarre, cominciò a ritagliarla e a incollare parola dopo parola le frasi del titolo sul giornale di classe. Uscì una sorta di pagina dedicata “a tutti i detenuti di Napoli, per una presta libertà”.
Qualche settimana dopo la fine della scuola mi dissero che Antonio era stato bocciato. Un giorno mi mandò un messaggio: Fra è stat bell fa o giurnal ku te grazie di tutto. Ma Antonio non aveva ricevuto la copia che gli spettava e ci organizzammo per incontrarci fuori al suo rione, quello in cui continuerà inesorabilmente a crescere. Quando lo vidi, mi sembrò di avere a che fare con un’altra persona, un’altra ancora: era timido, imbarazzato come un bambino, tutta la sua spavalderia era scomparsa. Mi disse della bocciatura, non avevo niente da dirgli, così restammo in silenzio e prima di salutarlo gli diedi la copia originale del giornale che aveva realizzato insieme ai compagni.
A settembre, quando lo richiamai, mi disse che voleva iscriversi, che c’era da aspettare la decisione del consiglio di classe in merito alla sua richiesta. Ma il consiglio di classe ha deciso di respingere l’iscrizione. Antonio è stato considerato come “un elemento di disturbo”. L’ho rivisto pochi giorni fa sul motorino, mi ha dato un passaggio. Gli ho chiesto cosa farà ora che l’hanno tagliato fuori dalla scuola. Ha risposto con un’alzata di spalle. (andrea bottalico)
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