Mamma mia come scotta questa sabbia. Io che ho sempre pensato che la sabbia scura di Ostia fosse la più bella del mondo e che proprio tutto quel ferro determinasse abbronzature che neanche alle Maldive, ancora non mi capacito come possa bruciare tanto anche altrove. E qui a Riace brucia eccome. Il sole è alto da un bel po’. Non ti sorge mica alle spalle qui il sole, è onesto – non come a Ostia, che lo vai a vedere aspettando che spunti dal mare e poi invece ti sale da dietro, come nel film di Nanni Moretti.
Brucia tutti questo sole. I volontari dei Mondiali antirazzisti, i giocatori, le giocatrici, i bianchi, i neri, i ragazzi di Innsbruck che sbuffano. A Riace loro non erano mai venuti. Alle edizioni di Casalecchio prima e Bosco Albergati dopo, sono andati molte volte, ma una trasferta fino in Calabria forse non se la immaginavano così faticosa. Non che le loro facce rosse siano poi tanto diverse da quelle dei palermitani che vengono da Ballarò, o da quelle di un gruppetto di romani che portano una maglietta, Lazionet, “Refugees welcome. No one is illegal”. È dura la vita del tifoso della Lazio antirazzista, che cerca di contrastare il monopolio della tifoseria fascista organizzata. Stefano, uno dei fondatori del gruppo, se la prende con i suoi amici romanisti di sinistra, che finiscono per favorire una versione limitata e limitante della tifoseria laziale.
Si scambiano scherzando sguardi torvi con gli austriaci, si inscenano rivalità che non ci sono – almeno qui, ai mondiali antirazzisti di Riace. Quando nacquero, ormai più di vent’anni fa, l’emergenza sociale era quella della violenza negli stadi. Si voleva mostrare che lo sport, e il calcio in particolare, potessero trasmettere valori positivi, che frequentare una curva non volesse dire essere un balordo, e che i livelli di violenza che si stavano raggiungendo fuori e dentro gli stadi potevano essere fermati. Da allora i legami sociali si sono sfilacciati ulteriormente, il tasso di violenza è cresciuto, ma si è concentrato verso lo straniero.
Sarà dura giocare su questa sabbia. Meno male che c’è il mare, a due passi dalle porte che hanno montato stamattina presto. E di fronte a questo mare le squadre che sono riuscite a qualificarsi si contenderanno la vittoria finale di questa edizione, in cui tutto il carrozzone colorato è sceso dall’Emilia fino in Calabria, a Riace. Non un posto qualunque. «Abbiamo provato a portare proprio qui la nostra solidarietà – dice Carlo Balestri, uno degli ispiratori di questa iniziativa –. Era arrivato il momento di lasciare la nostra sede naturale e andare incontro alle tante realtà che negli anni sono venute su in Emilia, e restituirgli tutto il nostro sostegno, e anche un po’ di speranza».
Già. La speranza. Ma lo fermi cosi, con la speranza il razzismo di oggi? Non è forse proprio questo l’errore che è stato commesso, dalle associazioni, dagli antirazzisti, dalla società civile? Immaginare che il razzismo che covava, che si spostava lentamente, abbandonando i suoi classici riferimenti – i meridionali, i terroni, e poi gli zingari, per scivolare verso i neri, gli africani, gli stranieri – fosse un problema essenzialmente educativo, pedagogico, sovrastrutturale? Penso all’antropologo italo-argentino Miguel Mellino, che da alcuni anni porta avanti una ricerca complicata, cercando di infilarsi in una vera e propria strettoia, quella accademica e mediatica, che pochissimo spazio ha lasciato a chi cercava di mostrare il legame indissolubile tra il razzismo, lo sfruttamento e il sistema capitalistico.
Iniziano i rigori. Dopo tre giorni di partite, solo tiri in porta, come da piccoli sulla spiaggia. Che è proprio dove ci troviamo. Meglio evitare che proprio all’ultimo momento l’adrenalina giochi brutti scherzi e anche chi partecipa ai mondiali si lasci trascinare dal germe della competizione, rovinando e rovinandosi la festa. Il sole ormai è perpendicolare. Come ai mondiali americani. Quelli delle partite all’ora di pranzo per soddisfare gli sponsor. Maradona positivo all’antidoping. E Baggio che tira il rigore alle stelle nella prima finale conclusasi proprio così, ai rigori. Come oggi qui, a Riace, venticinque anni dopo.
Scrive Mellino: “Se appare innegabile che l’attuale congiuntura sovranista ci sta mostrando una crescente politicizzazione del razzismo, con una conseguente razzializzazione della politica e delle questioni sociali, è altrettanto evidente che le pratiche teoriche e politiche antirazziste, anche quelle più radicali, non si stanno rivelando all’altezza della sfida. Anche se concetti come razza, razzializzazione e intersezionalità sono più o meno entrati nel discorso antirazzista, la riflessione sul razzismo in Italia continua a mostrare i suoi limiti storici”. A partire dal lungo dibattito sulla questione meridionale, forse ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. Il risultato è che anche negli ambienti più genuinamente antirazzisti del nostro paese, il razzismo non è mai preso come un fenomeno degno di analisi di per sé, ma sempre come aspetto secondario di una cornice più ampia.
Le parole che scambiamo con la maggior parte dei presenti sembrano confermare le analisi di Mellino. Qui tutti dicono che è necessario fare rete contro questo clima di odio, unire le forze il più possibile. Roberto, per esempio, è venuto da Lamezia Terme con una squadretta di una decina di ragazzi, tra cui Ibrahim, un giovane del Gambia. Lavorano nel quartiere Sanià, che Roberto definisce periferia. «In un territorio che sta cercando di dare accoglienza a tante persone che hanno bisogno – dice –, non potevamo mancare. Qui abbiamo trovato un’aria diversa, difficile da ritrovare nello sport tradizionale, dove raramente si affronta la competizione con il giusto spirito». In Calabria molti paesi si stanno svuotando, per un fenomeno di emigrazione interna che i mezzi di informazione nazionale affrontano molto superficialmente. Il lavoro lì è molto difficile, aggiunge Roberto. «Non ci resta che provare a ricordare a tutti quei contadini che si sono trovati a vivere la condizione di straniero e sfruttato, che non devono dimenticare quello che è successo, e farlo pagare a chi oggi ha più bisogno».
Mancano pochi rigori ormai. E qualche volontario comincia a portarsi avanti con il lavoro smontando le porte che non servono più. Per disputare la finale, infatti, ne basta una. Parlo con Maurizio, casertano, veterano dei mondiali antirazzisti, alla sua settima edizione. La parola che usa di più è umanità. Per lui il problema è quello, l’umanità delle persone. «Portiamo avanti un’idea di accoglienza attraverso lo sport, con il calcio e da quest’anno anche con il basket. Lo sport popolare significa dare la possibilità a tutti di fare sport. Imprenditori e politici mettono una tassa per far giocare i ragazzi, noi invece apriamo le porte a tutti. I risultati si vedono. A Caserta e nelle sue periferie la deriva razzista e fascista che c’è stata altrove, noi non l’abbiamo vissuta. In parte anche grazie alla campagna “We want to play”. In un momento come questo, è necessario tornare a stare per strada e meno dietro alle tastiere».
È l’ora di un bel bagno, liberatore, meritato. Ma c’è ancora il tempo per scambiare qualche parola. Daniela, una delle organizzatrici: «Quando a ottobre è arrivato il primo avviso di garanzia a Mimmo Lucano abbiamo deciso di venire qua perché l’accoglienza pensiamo vada fatta come la proponeva lui. Non possiamo pensare che la Libia sia considerata un porto sicuro. E dall’altra non possiamo negare che qualcosa non abbia funzionato. Ma reprimere e chiudere, come in altri tempi è stato fatto con gli stadi, non può essere la soluzione. Dobbiamo riuscire a coinvolgere le comunità, non possiamo continuare a far gestire il problema a uomini, tendenzialmente bianchi ed europei».
Eppure anche Daniela mette al primo posto tra gli errori l’insufficiente lavoro educativo svolto dalla scuola e dallo sport ufficiale. Il problema anche per lei continua a essere tendenzialmente pedagogico. «Non abbiamo saputo spiegare che il discorso di Salvini si basa su dati falsi e sull’idea che si stia vivendo una emergenza, un’invasione che in realtà non c’è». Vero. Ma basta come analisi? Chissà se ha mai letto Mellino. Ormai siamo quasi finiti in acqua, non glielo posso più chiedere. Magari alla prossima edizione dei Mondiali lo invitiamo a parlare di processi di razzializzazione e di essenzialismo culturale. Magari riusciamo a far riemergere il vero tema rimosso, cioè il colonialismo. Con il quale dovremo prima o poi fare veramente i conti. (giovanni castagno)
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