Ritrovo i ricordi e un discorso di Adama, mio amico. Sono passati quattro anni. Ho deciso di pubblicarli adesso, all’inizio di una nuova stagione di raccolta della frutta a Saluzzo, nella provincia di Cuneo. Resta la convinzione che poco o nulla sia cambiato da allora.
È il luglio del 2018. Adama è a Torino solo per qualche giorno, prima di riprendere il lavoro nell’azienda di Saluzzo. A Saluzzo, piccola città tra Torino e Cuneo, è iniziata la raccolta delle pesche. In genere Adama viene a Torino per il permesso di soggiorno o altre questioni amministrative, trova un posto per dormire nelle palazzine occupate dell’Ex-Moi, dove vivono molti suoi connazionali del Mali, poi torna nella baraccopoli effimera di Saluzzo per un lavoro stagionale che dura fino a fine ottobre o inizio novembre.
Parte della frutta presente sulle tavole d’Italia e d’Europa arriva da oltre cinquemila aziende agricole del saluzzese, sparse in una trentina di comuni per una superficie di frutteto pari a oltre undicimila ettari. Vengono prodotte mele, pesche, kiwi, albicocche, susine, ciliegie e piccoli frutti quali mirtilli, fragole, lamponi, ribes. La presenza dei braccianti nella città di Saluzzo è visibile dal 2009, quando molti lavoratori si accampano in strada o dentro vagoni abbandonati nella stazione dismessa. È una presenza tollerata dalle istituzioni e facilitata da diversi settori della società civile, dalle organizzazioni cattoliche presenti sul territorio al Comitato antirazzista che garantisce una sensibilità umanitaria senza mai affrontare la questione politica del bisogno di una casa. Qui non si è mai discusso su chi, e come, dovrebbe farsi carico della sistemazione abitativa di lavoratori mal pagati e persone in attesa di lavoro a chiamata.
Nel 2012 i braccianti stagionali hanno costruito una baraccopoli presso il Foro Boario, una grande struttura usata per ospitare le fiere del bestiame e le mostre della meccanica agricola. Il Foro si trova ai margini della città, a pochi passi dalla discarica comunale (chiamata “isola ecologica”). Qui le persone che lavorano da maggio a novembre nella raccolta della frutta sono costrette a dormire per terra, sull’asfalto, o vivono in baracche auto-costruite in attesa della chiamata dei padroni sul telefonino. Non ci sono servizi igienici e neppure un rubinetto per l’acqua. Una parte di disoccupati in attesa risulta essenziale per i momenti di picco della raccolta. Ogni anno sono circa un migliaio i braccianti occupati in grigio o in nero perché i contratti di lavoro non esistono o vengono sempre segnate un numero inferiore di giornate lavorate.
Partono in bicicletta all’alba. Si pedala tra i comuni di Lagnasco, Manta, Moretta, Costigliole Saluzzo, Verzuolo, Piasco, per andare a raccogliere la frutta per ore, spesso senza pause e senza acqua, oppure si pedala in cerca di un ingaggio. A volte i lavoratori hanno incidenti lungo le strade provinciali, vengono investiti o finiscono fuori strada perché urtati da macchine e camion o, per timore di essere investiti, cadono nei fossi, si feriscono e non possono lavorare per giorni. Lavorano per grandi aziende locali, colossi dell’agroindustria che smerciano tonnellate di frutta in tutto il mondo grazie a enormi strutture di conservazione che hanno capacità frigo di decine di migliaia di tonnellate e permettono di conservare il prodotto per l’intera stagione. Chi viaggia per le campagne del saluzzese può notare queste strutture enormi e costose, i campi immensi di frutta, centinaia di uomini africani messi al lavoro.
Dal 2013 la baraccopoli nei pressi del Foro Boario viene battezzata dai suoi abitanti “Guantanamò”. Le istituzioni invece nominano questo posto “campeggio solidale” e la Caritas, altre associazioni cattoliche e il comune di Saluzzo finanziano progetti che vengono definiti “di accoglienza”. Ancora non esiste un luogo stabile dove si possa dormire e avere servizi minimi. L’amministrazione e gli abitanti di Saluzzo temono che ai braccianti possa venire in mente di fermarsi oltre il dovuto, oltre la stagione della raccolta – meglio se spariscono immediatamente, senza mostrarsi fino all’anno successivo. Alla sera gli abitanti tornano nelle baracche, la mattina si ricomincia, e a fine stagione il campo viene sgomberato e le baracche distrutte e rimosse dalla forza pubblica.
Dalla fine di maggio ho parlato spesso con Adama per telefono perché si trovava già a Guantanamò. Mi spiegava la situazione tragica di centinaia di persone, mi inviava i video, realizzava piccoli reportage, foto della vita all’aperto al Foro Boario. Quest’anno il comune di Saluzzo ha aperto all’interno dell’ex caserma Filippi (accanto al Foro) un campo gestito da una cooperativa e dalla Cgil, sorvegliato 24 ore su 24 da polizia, carabinieri, polizia municipale e guardia di finanza. Adama ha provato a dormire nella caserma e mi ha mandato delle foto. Mi ha inviato anche dei messaggi vocali: per lui e i suoi compagni la sensazione è quella di stare in una prigione e preferisce dormire per terra nel viale che porta al Foro Boario. Nella caserma i lavoratori devono dormire in un’unica camerata di 368 posti letto, senza finestre e senza acqua calda. Per entrare in questa struttura i lavoratori devono mostrare un tesserino di riconoscimento numerato. Almeno duecento persone non trovano comunque posto e restano fuori. Spesso in estate ci sono forti piogge e tutti i loro averi si bagnano. I vestiti restano fradici.
Adama viene a farmi visita nei pochi giorni di luglio liberi dalla raccolta. Ha portato con sé un testo scritto da lui e mi ha chiesto di correggerlo: racconta la sua storia di bracciante sfruttato e vuole leggerla nel corso dell’ennesima manifestazione che si terrà il 21 luglio a Cuneo. Il motivo della protesta è molto chiaro: per un altro anno i lavoratori stagionali essenziali per la raccolta della frutta non hanno ricevuto alcuna ospitalità presso le aziende e i padroni per cui lavorano. E restano nel territorio cascine abbandonate, vuoti capannoni dismessi. Adama mi ha chiesto di aiutarlo per sistemare il discorso in italiano da stampare e da leggere durante la manifestazione. Vuole rivolgersi a eventuali giornalisti e alle persone italiane – in bambara, invece, sa perfettamente che cosa dire ai suoi compagni e agli altri braccianti. Un sindacato di base ha organizzato la manifestazione a Cuneo perché il sindaco di Saluzzo vuole che nulla sia mostrato nella sua città. Questo ha innervosito Adama, ma alla fine lui e i suoi compagni parteciperanno lo stesso, loro sono sempre stati auto-organizzati.
«Il mio nome è Adama. Io sono arrivato in Italia il 29 marzo del 2009 a Lampedusa. Poi mi hanno portato in un campo di accoglienza per migranti a Crotone, il campo si chiama campo di Sant’Anna. Io sono stato lì nove mesi per poter fare la commissione. Dopo quel tempo mi hanno mandato via perché la mia richiesta aveva avuto esito negativo. Nel 2009 avevo quindici anni. Quando mi hanno chiesto dove volevo andare, dato che dovevo lasciare il campo per forza, io non sapevo cosa dire. Non conoscevo niente dell’Italia e non avevo imparato l’italiano perché nessuno ci aveva fatto un corso. Ho usato per nove mesi un dizionario.
«Poi ho detto che sarei andato a Rosarno perché tanta gente come me mi aveva detto che lì c’è la campagna e potevo provare a cercare lavoro e trovare i soldi per mangiare. Io non conoscevo nessuno in Italia. A Rosarno sono rimasto circa tre mesi. Lì raccoglievo mandarini e dormivo con altri braccianti africani in una casa abbandonata. Dormivamo per terra. A Rosarno nel 2010 c’erano tanti ragazzi africani che non avevano una casa, né un posto dove andare e lavoravano lì. A Rosarno noi abbiamo sofferto molto. Il lavoro era duro, a volte sotto la pioggia. Ogni cassa di mandarini ci pagavano un euro. Ogni cassa di arance ci pagavano cinquanta centesimi. Molti di noi erano senza documenti e quindi lavoravamo in nero.
«A Rosarno il 7 gennaio del 2010 c’erano quattro ragazzi come me che camminavano lungo la strada. A un certo punto è arrivata una macchina di mafiosi e loro hanno sparato contro i braccianti. Uno di loro è stato ferito gravemente, un altro è stato ferito alla pancia. Noi allora ci siamo riuniti e abbiamo deciso di fare una manifestazione l’8 gennaio per quello che era successo nella città di Rosarno. Abbiamo riunito insieme tutti i braccianti, sia quelli che dormivano nella città che quelli che stavano fuori, nelle campagne. Abbiamo chiamato tutti: africani, magrebini, tutti gli stranieri che lavoravano nelle campagne. La manifestazione è stata grandissima e mentre camminavamo nella città la gente di lì continuava a trattarci con violenza e razzismo. Ci attaccavano e ci venivano contro con le macchine. Noi ci siamo arrabbiati e ci sono stati tanti scontri.
«Per me quella giornata è stata molto importante perché finalmente con la manifestazione abbiamo potuto dire a tutta Italia e a tutto il mondo quali erano le nostre condizioni di vita e di sfruttamento nelle campagne. Ci trattavano male e ci pagavano pochissimo. Noi vivevamo male e come schiavi. Dopo la polizia ci ha portato via. Alcuni sono stati portati a Bari, come me, altri a Crotone, Lamezia, Gioia Tauro, eccetera. Io a Bari sono stato messo dentro un campo di rifugiati. Non erano case ma erano dei container. Io non volevo stare lì e dopo tre giorni sono scappato e sono andato a Foggia. Degli amici mi avevano detto di andare lì per lavorare in campagna per raccogliere pomodori, uva, olive. A Foggia ho costruito la mia baracca nel Gran Ghetto. Noi viviamo sempre nei ghetti. Noi viviamo nelle periferie delle città.
«A Foggia si viveva male. Non c’era la corrente. L’acqua non era potabile. Il comune portava acqua potabile con i camion. Io ho vissuto lì un anno. Per me la vita era difficile, ero minorenne. Allora sono andato a Roma e ho chiesto asilo per minorenni. Lì sono stato dal 2011 al 2013 e nel centro minorenni mi hanno insegnato l’italiano. Dopo, quando finalmente mi hanno dato il permesso di soggiorno, sono andato di nuovo a cercare un lavoro. Mi hanno detto che a nord si raccoglievano le mele e allora sono partito. Ho pensato di poter trovare la mia fortuna e di poter vivere bene.
«Sono arrivato a Saluzzo la prima volta nel 2014 perché non avevo casa e cercavo un lavoro per poter vivere e affittare una casa per vivere bene. Dal 2014 a oggi le condizioni di lavoro e di vita a Saluzzo non sono cambiate mai. Per me è come stare sempre a Rosarno o a Foggia, nel Gran Ghetto. A Saluzzo abbiamo chiamato il campo di tende dove vivevamo al Foro Boario “Guantanamò” perché vivevamo male ed era come un altro ghetto. Era come stare in un campo di prigionieri. Noi dovevamo solo lavorare e non stare troppo in giro, nel centro di Saluzzo.
«In questi anni a Saluzzo non è mai stato possibile trovare una casa per noi lavoratori ma abbiamo dormito sotto gli alberi o in condizioni difficili. Noi serviamo i padroni ma dobbiamo restare invisibili. Il nostro lavoro è sempre nero o grigio. Io non ho mai avuto una casa in cui poter vivere da quando sono in Italia. Io continuo a spostarmi da un campo all’altro, da una città all’altra. Io non ho mai avuto in Italia un posto dove poter fare la mia vita. Imparare meglio l’italiano, imparare un altro lavoro che non sia bracciante stagionale. Questo non va bene. Questo è solo sfruttamento. A nessuno interessa come viviamo.
«Vogliono solo disoccupati da chiamare quando vogliono. Non ci sono contratti, non vengono segnate le giornate giuste che noi lavoriamo. Non abbiamo un posto dove dormire. La strada, o Guantanamò, o adesso una caserma. Io penso che una tenda è meglio di quella caserma. Chi ora non sta nella caserma dorme per terra sui cartoni. Questo non è giusto perché tutti sanno che la nostra manodopera è essenziale per la raccolta della frutta qui. Noi non possiamo mai fermarci. Noi a volte sentiamo un gran dolore e male alla testa per le condizioni di vita nei campi, per come siamo costretti a vivere. Noi non siamo schiavi. Noi non siamo solo manodopera da sfruttare. Noi siamo persone». (manuela cencetti)
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