“L’animale da palcoscenico serve a incarnare i desideri del pubblico […], realizza i suoi desideri più nascosti. […]Ridere piangere emozionarsi sorprendersi godere abbandonarsi liberarsi sconfinare purificarsi. Godere emozionarsi abbandonarsi meravigliarsi essere felici perdersi guardarsi dentro farsi accompagnare credere che tutto sia possibile”.
Ci sono spettacoli in cui occorre partire dalla fine. La fine, in questo caso, è un fascio di luce verde cobalto che, improvvisamente, squarcia il fondale sinistro della scena: come un’epifania lunare di emozione e silenzio. La fine è una serie lunga di applausi emozionati, in una Sala Assoli piena come non succedeva da un po’. Sul palco, i resti della singolare battaglia che si è appena consumata: un odore di terra bagnata e vino che disegna cerchi concentrici e imperfetti sul palco; piume, argilla, un grande specchio steso al centro del proscenio, acqua torbida, foglie e rametti. Una strana creatura ci ha condotto fin qui, muovendo passi pieni di grazia e bellezza, con gli occhi azzurri spalancati a stanarci, e il corpo consapevole, libero, vibrante: alla fine di questa visione si arriva inermi, svuotati e felici.
È un viaggio di sfondamento e riconoscimento dei confini del sé che passa per diverse dimensioni esistenziali; si parte dal palco ma si arriva gradualmente alla platea; si parte dall’“altro” ma si arriva a se stessi, in un’oscillazione continua. “L’animale da palcoscenico” scava per noi, dentro di noi e dentro di sé, manipolando, come l’argilla in scena, quel grumo di sentimenti, la materia vitale e scabrosa che – in casi sempre più rari – trova nel teatro il (non) luogo ideale dove venire indagata e talvolta espulsa.
Ed è proprio “l’animalità” il punto di partenza e di arrivo di questo percorso. Alessandra Fabbri, danzatrice, coreografa e unica protagonista, ci accoglie con la storia di una coppia di pappagallini, separati dall’improvvisa scomparsa del maschio. Il corpo elastico assume pose e riproduce persino i versi dei volatili, lo studio dell’etologia diventa una lente d’ingrandimento per recuperare quella bestialità istintuale che abbiamo ormai perso e che questo lavoro ci invita a recuperare, come strumento di purificatoria salvazione, perché altrimenti proprio non vale la pena di stare al mondo. Non mancano riferimenti diretti al teatro danza e alla danza moderna, come l’immagine incarnata di Marta Graham ebbra e disperata, in una danza inarrestabile e traboccante su se stessa. Ed è costante il riferimento meta teatrale alla dimensione dell’esibizione artistica, che ritorna in una serie di registrazioni audio in sottofondo, stralci d’interviste o monologhi della stessa Fabbri e del regista Davide Iodice sul tema del teatro e dell’attore-animale, che costituiscono la drammaturgia su cui sono stati costruiti i movimenti e le coreografie. Quel corpo nudo diventa lo specchio di noi che guardiamo: siamo noi a spogliarci, gradualmente liberi. Così, quando la strana creatura sfonda definitivamente la quarta parete e ci studia uno a uno, prima di scegliere qualcuno da portare sul palco, il rito è ormai compiuto: siamo pronti, disponibili a farci invadere, trasportare.
Lo spettacolo, che ha debuttato due anni fa, è tornato in Sala Assoli in occasione del trentennale dello storico spazio a vico Lungo Teatro Nuovo, luogo cui sia la Fabbri (ferrarese d’adozione partenopea, iniziò a lavorare a Napoli con Martone, questo è il terzo lavoro con Iodice) che Iodice (in passato co-direttore artistico del Teatro Nuovo) sono legati. Il calendario procede con una lunga serie di appuntamenti che ridanno linfa a uno degli spazi teatrali più importanti della città che negli ultimi due anni era caduto abbastanza in disuso. (francesca saturnino)
Mangiare e bere. Letame e morte.
drammaturgia, spazio scenico, luci e regia: Davide Iodice
coreografia: Alessandra Fabbri e Davide Iodice
produzione: Start/Interno 5
costumi: Enzo Pirozzi
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