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In Turchia la scadenza elettorale si avvicina inesorabilmente. Il silenzio elettorale che precede il voto, in vigore dal 20 al 29 marzo, sembra essere stato male interpretato dal capo del governo Recep Tayyip Erdoğan, che da giovedì sera ha imposto la chiusura di Twitter. La decisione, presa dal Tib, l’ente nazionale turco per le telecomunicazioni, e poi resa nota in una conferenza stampa dal primo ministro, pare sia giustificata da una sentenza del tribunale che in realtà imponeva solo la chiusura di alcuni account. In tutto il paese, che ha appreso la notizia proprio con un tweet, si è sollevata un’ondata di proteste che ha invaso i social network e non solo. Intanto, il divieto è stato abilmente scavalcato grazie al ricorso di altri dns situati fuori dal paese o ulteriori escamotage tecnici, tanto che nel giro di poche ore la maggioranza degli oltre dodici milioni di utenti in Turchia hanno continuato a twittare, denunciando con nuovi hashtag l’ultima mossa di Erdoğan. L’ordine degli avvocati ha presentato un esposto, denunciando la chiusura come violazione della convenzione europea dei diritti umani. Anche il presidente della Repubblica turca Abdullah Gül ha preso le distanze dichiarando, proprio con un cinguettio, che il divieto è inaccettabile, mentre la procura di Istanbul ha comunicato ufficialmente di non aver emesso una sentenza simile.
Nel discorso di Erdoğan pronunciato nella città di Bursa in occasione del suo tour elettorale, il capo del governo ha dichiarato che Twitter sarà eliminato alla radice, e che non darà peso a qualsivoglia giudizio della comunità internazionale: «Vedranno la forza dello stato turco!», ha concluso. Ritorna con insistenza oramai in ogni proclama e dichiarazione la retorica nazionalista di cui l’Akp, il partito al governo, si fa portatore. Una retorica complottista che vede il paese minacciato da un nemico esterno – oramai con lunghe propaggini nel paese – che può contare sulle sue sole forze per difendersi e riemergere più forte di prima. Un discorso nazionalista – basato sul mito della guerra di indipendenza – che in realtà non ha mai abbandonato una parte della politica turca e che in passato è stata anche ampiamente utilizzata dal partito all’opposizione. Oggi viene ripresa e riadattata alle nuove circostanze da un partito che, dopo aver immaginato un successo inesorabile e costellato di vittorie almeno fino al centenario della fondazione della Repubblica nel 2023, ora appare impegnato in una continua caccia all’untore per difendersi da accuse infamanti e dalla crisi di un modello, fino a un anno fa rampante e vincente.
“La nazione non si piegherà, la Turchia non sarà sconfitta” è, infatti, anche lo slogan utilizzato nel video di propaganda elettorale vietato dalla Commissione nazionale dei servizi elettorali turchi (YSK) per un uso improprio e a fini politici della bandiera turca. Il video, della durata di tre minuti, è un breve filmato dai toni di un kolossal americano in cui la voce fuori campo di Erdoğan, che recita passi dell’inno repubblicano, chiama la popolazione in una missione nazionale: tenere alta la bandiera, che un non meglio identificato uomo vestito di nero con i guanti di pelle, ha cercato di far ammainare rompendo un grosso ingranaggio posto alla base dell’albero. La folla brulicante e fiera riuscirà a far sventolare di nuovo la mezzaluna e la stella. Una nazione che risorge, insomma. Ma anche oramai un’ossessione dichiarata per il nemico e un sentimento di paura su cui fare leva.
Sono mesi oramai che il capo del governo risponde alle accuse e alle contestazioni aggrappandosi nei suoi comizi ai successi economici e alle performance dell’ultimo decennio, numeri su numeri con cui pare voglia ricordare che ogni fallimento dell’Akp sarebbe un fallimento della nuova Turchia nata con la prima vittoria elettorale del partito nel 2002. Una Turchia nuova contro la quale, secondo Erdoğan, si battono accomunati da un unico obiettivo, la lobby della finanza internazionale, gli ex alleati del movimento Fethullah Gülen, nonché le varie anime dei movimenti di contestazione, i cosiddetti vandali (çapulcu) e terroristi. Così in questo scenario la battaglia politica appare sempre più quella di un uomo solo contro tutti. Ogni voce che si solleva in opposizione, per criticare l’autoritarismo, la censura, la corruzione, viene tradotta in un attacco rivolto alla nazione da parte di agenti esterni che si sono infiltrati negli apparati del potere, formando uno “stato nello stato”, uno stato parallelo che agisce minando dall’interno le fondamenta del paese. Per questo motivo nel corso delle ultime settimane, alle famose inchieste si è risposto con una riforma del Consiglio superiore della magistratura e a numerosi trasferimenti e rimozioni dall’incarico disposti nei confronti di procuratori e dirigenti della polizia; alle proteste che riempiono ancora le strade si reagisce con il consueto carico di gas e lacrimogeni, alle dichiarazioni di giornalisti con il loro licenziamento, al correre rapido delle informazioni sui social network con la chiusura di Twitter. Ecco quindi che i divieti si susseguono in un’incessante rincorsa utile a mettere a tacere gli attacchi contro il governo, e se le proibizioni invece si rivolgono al partito, allora “si vieta il divieto” come ha commentato Erdoğan la messa al bando del video di propaganda elettorale dell’Akp.
Quando il capo del governo sostiene che la chiusura, peraltro fallita, del social network «non ha nulla a che vedere con la libertà perché libertà non significa entrare nella privacy di qualcuno» sembra pensare più che alla sicurezza del paese – come sostiene – alla difesa piuttosto di interessi personali. È infatti proprio a partire da un account Twitter che sono state diffuse le intercettazioni telefoniche alla base della megainchiesta per corruzione che ha travolto il governo. Tra queste anche la conversazione a dir poco compromettente tra Erdoğan e suo figlio in cui tentano di organizzare la sparizione di un’ingente somma di denaro.
Quanto alla sicurezza nel paese l’aria di tensione si fa sempre più rarefatta in Turchia. Lo si è percepito anche in occasione del funerale di Berkin Elvan, ragazzino colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno durante gli scontri di Gezi e rimasto in coma per duecentosessantanove giorni. Il 12 marzo una enorme folla si è unita in un interminabile corteo funebre che a molti ha ricordato il corteo che seguì l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink nel 2007, che ancora oggi si ricorda come un momento determinante nella storia delle mobilitazioni della società civile turca. In modo analogo anche il corteo per Berkin Elvan si è trasformato in un’occasione importante per chiedere giustizia, democrazia ed esprimere rabbia nei confronti del governo. Il corteo si è concluso con violenti scontri che impedivano l’accesso a Taksim ma che agitavano anche altri quartieri. Ciò che però è apparso a molti inquietante è stata l’uccisione di un ragazzo, che pare fosse un simpatizzante di un gruppo nazionalista di destra, rivendicata da un’organizzazione di estrema sinistra ritenuta illegale (Dhkp-c). È riemerso subito il ricordo della guerriglia urbana tra fazioni politiche opposte che la Turchia ha già conosciuto in passato e che ha preceduto anni molto oscuri per il paese. E in questo stesso clima che hanno suscitato preoccupazioni anche le recenti scarcerazioni di militari d’alto rango arrestati per il processo Ergenekon (il tentativo di golpe sventato dalla magistratura che ha minato il potere dell’esercito) nonché di uno dei presunti mandanti dell’assassinio di Hrant Dink.
La stabilità del paese di cui l’Akp si faceva un vanto sembra essere sempre più in crisi, e in una condizione di confusione la retorica nazionalista di una nuova “guerra di liberazione” non lascia ben sperare. Le elezioni amministrative del 30 marzo sono il primo test politico dopo gli sconvolgimenti che hanno attraversato il paese, a partire dalle proteste di Gezi fino ai recenti scandali. Per l’Akp che ha sempre costruito una grande retorica sull’importanza dei risultati elettorali sostenendo a più riprese, e nei momenti più difficili e critici delle contestazioni, che la vera democrazia si misura solo nelle urne, il voto amministrativo si rivela un nuovo banco di prova per testare la popolarità propria e del capo del governo, come del resto ha affermato lo stesso Erdoğan. Le previsioni non sono semplici e i sondaggi di opinione sono stati cauti. Certo è che l’Akp è ancora molto popolare in Turchia e oramai è evidente che persino nel caso di perdita di diversi punti percentuale, anche il risultato elettorale si tramuterà in un nuovo argomento per il discorso nazionalista del premier e darà nuovo slancio nella sua lotta ai nemici del paese. (lea nocera – twitter: @lea_nocera)
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