Oggi siamo al dodicesimo giorno delle proteste del Gezi Park. Sono passate quasi due settimane da quando sono iniziate le manifestazioni contro la demolizione del parco. La situazione evolve di ora in ora ed è difficile fare previsioni. Le congetture, invece, abbondano e contribuiscono a creare un sottile e permanente stato di agitazione, che solo in parte alcuni riescono a esorcizzare nel clima di festa che si è instaurato nel parco. Il Gezi Park è diventato un enorme spazio di condivisione: centinaia di tende, numerosi stand di organizzazioni politiche e associazioni, bar e mense popolari, infermerie. In ogni angolo e a ogni ora si organizzano iniziative, dibattiti, workshop, così come inevitabilmente si improvvisano concerti e performance.
Da ieri direttamente dal parco trasmettono anche una radio e una webtv, che si affiancano ai social network nello sforzo enorme di far girare notizie, informazioni, commenti che i media turchi si ostinano a non diffondere. Per quanto i Redhak – gli hacker attivisti turchi – siano comparsi più volte in televisione un paio di giorni fa, e la Cnntürk abbia invitato a un dibattito alcuni rappresentanti dell’organizzazione alla base delle proteste, non si tratta che di casi isolati che fungono più come servizio alla società dello spettacolo che alla funzione di informazione pubblica.
Le notizie degli scontri violenti che continuano a Ankara e nel quartiere di Gazi a Istanbul sono sporadiche, quasi inesistenti. La stampa oggi non ne fa il minimo cenno. Le scuse delle autorità e l’ammissione di aver fatto ricorso a un uso eccessivo della violenza appaiono più come un tentativo formale di salvare l’apparenza democratica che un’effettiva apertura nei confronti dei manifestanti. Qualche giorno fa una delegazione della piattaforma “Solidarietà Taksim” ha incontrato Bülent Arınç, il portavoce del governo, a cui ha presentato le proprie richieste: il GeziPark deve restare un parco; dimissioni del prefetto, del questore e di tutti i responsabili della violenza; divieto di utilizzare i gas; rilascio immediato degli arrestati; fine dei divieti di riunione e manifestazione nei luoghi pubblici. Da queste richieste il movimento non vuole cedere di un passo.
Nel frattempo, in alcune dichiarazioni pubbliche di esponenti del governo, è ritornato a aleggiare il progetto delle caserme ottomane e la demolizione dell’AKM (Atatürk Kültür Merkezi), il centro culturale Atatürk, l’edificio oggi ricoperto di striscioni, al posto del quale andrebbe ricostruita una nuova opera. E non solo: ieri il deputato Akp Hüseyin Çelik ha anche difeso l’uso del termine çapulcu (leggi ciapulgiu) da parte di Erdogan: chi lancia molotov, pietre non è che un saccheggiatore, un provocatore, non si può che chiamare così, ha detto il presidente. «Ciò che è successo nei giorni fa non è molto dissimile da quanto è accaduto a Londra nel 2011», ha continuato Çelik. Il tentativo di isolare le persone che hanno risposto alla repressione della polizia resistendo sulle barricate e subendo i gas CS, quelli al peperoncino e gli idranti, non riesce a guadagnare consenso all’interno del movimento. Nonostante l’enorme diversità che attraversa i gruppi presenti nel parco, tutti riconoscono che se la piazza è stata riconquistata e se esiste da oltre una settimana uno spazio libero dalla polizia è solo grazie a quanti si sono battuti in prima fila nella difesa dalla polizia. I “ragazzi delle barricate” e gli ultras del Besiktas hanno contribuito in modo determinante a sgomberare Taksim e il Gezi Park dalla polizia. Ora attorno ci sono decine e decine di barricate, costruite e rinforzate man mano. Così per la prima volta non si vede polizia in giro, nemmeno sull’Istiklal Caddesi e si sono ritrovate vecchie abitudini che erano andate perse a causa dei vari divieti subentrati negli ultimissimi anni. Fuori ai bar e ai caffè sono ricomparsi i tavolini, messi al bando l’anno scorso, durante il Ramadan. Di certo si respira un’aria diversa.
Il senso dell’umorismo ha invaso le strade e la rete, migliaia di graffiti fanno a gara di ironia, così come i video, i fotomontaggi, le canzoni composte in questi giorni. È come se una grossa diga costruita per contenere tutto ciò avesse ceduto all’improvviso. Si è riuscito a superare il terribile sistema di contenimento dettato da una paura diffusa, talvolta inconscia e inconsapevole. E di colpo come una valanga è emerso un forte senso di liberazione.
Oggi, in piazza Taksim c’erano centinaia di migliaia di persone e nessuno avrebbe mai potuto immaginare nemmeno lontanamente che un giorno in Turchia gruppi diversi potessero stare insieme, fianco a fianco, urlando apertamente all’unisono gli stessi slogan: “Non è che l’inizio, la lotta continua”, “Viva la fratellanza dei popoli”, “Tutti insieme contro il fascismo”. Non è chiaro a nessuno come questa solidarietà e questa vicinanza possano evolvere su un piano politico, come difficili sono le previsioni per i prossimi giorni. Il premier Erdogan nei discorsi che lascia durante i suoi spostamenti, prima in Nord Africa e oggi nel sud della Turchia, non fa che incitare gli animi senza accogliere i suggerimenti che arrivano anche dall’Europa, riguardo il dare ascolto ai manifestanti. Si resta in attesa, respingendo per quanto è possibile gli scenari peggiori, che pur vengono in mente considerata la storia del paese. Cala la notte sul Gezi Park ma i microfoni restano aperti. (lea nocera)
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