Mercoledì 8 marzo 2017 alle ore 18,30 nella libreria Trebisonda di Torino (via Sant’Anselmo 22) ci sarà la prima presentazione pubblica del libro Primavera breve. Viaggio tra i labili confini di Israele e Palestina, Monitor edizioni. Con l’autore, Francesco Migliaccio, dialogheranno Francesco Pallante, costituzionalista dell’Università di Torino e Cosimo Caridi, giornalista del Fatto Quotidiano. Nei prossimi giorni pubblicheremo tre estratti dal libro.
Tre lettere da Primavera breve
#3. Chi sono i coloni?
A Goffredo, 29 giugno
Caro Goffredo, ora vivo in una colonia israeliana in West Bank, a ridosso della valle del Giordano. Giungere qui, ad Hamra, è stata una scelta radicale, moralmente discutibile, eppure m’è parsa necessaria. Entrare in una colonia per raggiungere il fondo delle contraddizioni. Tutt’intorno, da qui fino al fiume, è terra sotto il controllo di Israele.
Lavoro cinque ore al giorno e in cambio ho un letto e tutti i beni di consumo che desidero, non vivo in famiglia ma con altri volontari americani. Nel villaggio non ci sono negozi, né locali pubblici, solo piccole case familiari con giardino, e una piazza con sala comune e sinagoga. Tutti qui vivono chiusi in casa – per il caldo? per atavico timore? – e io stesso non sono mai stato invitato nella casa di Eyal o in quella di Ran, i due agricoltori che ci ospitano. Abbiamo un appartamento, a volte Eyal e Ran bussano alla porta carichi di buste della spesa. Alla mattina ci svegliamo prima delle sei e andiamo nei campi. A volte mi prendo cura della vigna e degli ulivi fuori dal villaggio, altre volte raggiungiamo la piantagione di datteri lungo il Giordano.
Prima di descrivere la piantagione vorrei raccontarti ancora delle persone che vivono qui. Ran è un ingegnere civile, un aschenazita, ed è lui ad avere avviato l’attività principale: la coltivazione di datteri biologici. Ha un secondo mestiere: Ran è ispettore edile e controlla la tenuta delle case in costruzione in altri villaggi colonici. Una mattina l’ho accompagnato al lavoro, sono stato in due insediamenti ortodossi in terra palestinese. In ogni cantiere i lavoratori erano arabi, ma il direttore responsabile dei lavori era ebreo. Ran entrava nelle case in costruzione e discuteva pochi minuti con il direttore. Quando salivamo in macchina era solito pulire il cruscotto dalla polvere, passava il dito in ogni scanalatura. Anche Eyal ha un secondo mestiere: lavora per due giorni a settimana a Tel Aviv, credo sia un consulente informatico. Eyal è un ebreo marocchino e sorridendo si considera arabo e ritiene che tutti gli ebrei sefarditi siano al contempo arabi: «Ma questo non devi dirlo perché potresti offenderli».
Chi sono i coloni? Contadini con un secondo lavoro. Uomini disposti all’azzardo pur di avere un pezzo di terra. (Coltivare qui è un rischio, diverse voci in Israele si alzano per chiedere la restituzione della valle del Giordano ai palestinesi). Qui è in gioco l’esistenza delle loro famiglie. Ran vota per Netanyahu perché «è il meno peggio in un mondo di politici truffatori». Eyal – figura più complessa, per me – non vota, non è interessato alla politica. Sorride di tutto, come se niente fosse importante; per lui conta solo il lavoro. Ma non ha un’etica calvinista, piuttosto vive come se tutto fosse un grande gioco. Il suo motto è “possano le tue mani essere sempre impegnate”. Ci ha regalato una maglietta con questa frase. Per lui dormire è noioso, solo il lavoro è coinvolgente. Eyal non si fa domande, tira avanti giorno dopo giorno, tra lavori duri e sorrisi bambineschi. È cresciuto in un kibbutz e, forse, come buona parte degli ebrei del sud, «ebrei-arabi», non ha niente da perdere.
I nostri vicini di casa sono tailandesi. In Israele i tailandesi hanno un permesso di lavoro di cinque anni, poi devono andare via. Sono forza-lavoro a basso costo, negli ultimi anni hanno sostituto gli arabi nelle campagne. In questo sistema tutti, tranne gli arabi, sembrano trarre un guadagno: i coltivatori israeliani hanno alle loro dipendenze lavoratori estranei alle tensioni che s’originano dal conflitto, il costo del lavoro è più basso, i tailandesi ricevono uno stipendio che assicura una degna vita alle loro famiglie in Asia. Mi chiedo in che modo un lavoratore di un altro universo possa organizzarsi in terra di Israele. E come può chiedere diritti per sé e per gli altri se non parla l’ebraico, se è destinato a lasciare il paese. Ora tutte le campagne di Israele sono gremite di lavoratori d’oriente. Mi gira la testa a pensare al lavoro in tempo di globalizzazione, alla gestione di questi flussi di uomini che vivono migrazioni temporanee. L’altra sera sentivo una conversazione in tailandese e mi chiedevo che cosa mai un lavoratore tailandese possa sapere del conflitto, cosa pensa quando incontra un arabo, come vede noi occidentali che lavoriamo senza un salario.
Insieme a me ci sono studenti universitari, ma anche uomini e donne più maturi. Sono quasi tutti americani (degli Stati Uniti), e cristiani e bianchi e vicini alle ragioni di Israele. Fin dai miei giorni a Gerusalemme interrogo le cause di questa stretta connessione tra cristiani protestanti e l’ebraismo israeliano. Mi sento distante da loro e non nascondo la mia visione sul conflitto, sebbene io non sia acuto e aspro come vorrei. Ho un ottimo rapporto con una ragazza che sfugge a questa mia descrizione: è nera di Harlem, lavora a Istanbul come insegnante di inglese e manda parte del salario ai familiari. Lei, come me, è consapevole di lavorare gratuitamente in un territorio conteso; è una persona interessata alle cose e non è qui per aderire alla causa di Israele.
Io ho donato energie e ore di lavoro non retribuite a una colonia. Per cosa? Per vedere da vicino, per comprendere? Per sentire che si sta stringendo un vago rapporto d’amicizia con Eyal, nonostante tutto? Questo mio viaggio genera disorientamenti, ma oggi mi sento anche impotente e un poco desolato; e ora provo a spiegarti perché.
La piantagione di datteri sfiora il corso stretto e fangoso del Giordano. Ogni pianta ha bisogno di cinquecento litri d’acqua ogni due giorni, ci sono più di duecento piante e il sistema d’irrigazione è collegato direttamente al fiume. Quando taglio i rami secchi di palma, quando controllo le condizioni degli irrigatori, posso alzare gli occhi sulle colline di fronte e vedere gli avamposti dell’esercito giordano. Ogni mattina, un chilometro prima della piantagione, attraversiamo una barriera alta due metri. Eyal telefona all’esercito per avvertire del nostro passaggio, io scendo dal pick-up e apro il pesante lucchetto. Si tratta di un altro confine tra Israele e la Giordania, una recinzione che attraversa tutto il West Bank in direzione sud-nord. Un altro muro controllato da soldati e contadini israeliani. Io credo che le cause materiali della barriera non siano difensive; credo che, come sempre, la difesa e la sicurezza siano giustificazioni ingannevoli.
Il recinto serve per governare l’area più fertile di questo territorio. Israele controlla militarmente una cintura di terra – la pianura occidentale del Giordano – senza permettere l’accesso ai palestinesi, ovvero ai proprietari fino al 1967. Così i coloni hanno in gestione – ogni contratto dura quarantanove anni – un’area agricola ricca d’acqua.
Sono vicino alle ragioni del mio senso di desolazione. La cura delle palme richiede forza-lavoro non specializzata, ogni giorno. Dove reperirla, se le riserve di lavoratori palestinesi non sono disponibili? La recinzione della pianura fluviale, immagino, incrementa il costo del lavoro. Ci sono due soluzioni: i tailandesi; i volontari. I primi sono pagati dal villaggio, vivono silenziosi in case essenziali e raggiungono i campi dei coltivatori. Ogni mattina, vicino alla recinzione che porta al Giordano, vedo un furgone carico di tailandesi. E poi ci siamo noi occidentali, noi lavoratori di mezza giornata. Il nostro contributo è fondamentale, il prezzo contenuto. L’appartamento dove viviamo sarebbe disabitato, le buste di viveri che ci portano rappresentano l’unica voce di spesa.
Eyal continua a dirci: «Venite qui ad agosto, è la stagione della raccolta, abbiamo bisogno di voi. L’anno scorso abbiamo ospitato dieci volontari». Perché i volontari lavorano gratuitamente? Una forza intensa nutre i loro gesti: aiutare Israele. Il valore simbolico di un’esperienza è la moneta che ripaga gli sforzi. Questa energia ideologica è analoga a quella che sosteneva i giovani occidentali nell’ostello palestinese di Ramallah, là dove ho lavorato per un mese. Lavoravamo gratuitamente in nome della causa palestinese. Questa guerra decennale ha creato identità forti, ha scatenato energie simboliche che ora sono tradotte in forza-lavoro volontaria. Finalmente mi appare la connessione materiale tra ideologia e sfruttamento.
Scrivo nel giardino pubblico di Hamra e la ragazza americana è venuta a raccontarmi la sua ultima scoperta: qui vivono anche migranti sudanesi, impiegati nei campi. Rileggo questa lettera. Ora capisco che ho tentato di descrivere le relazioni affascinanti e disperanti tra identità, investimenti simbolici e condizioni di lavoro. Ora mi sembra che in gioco non ci siano solo le ragioni di noi occidentali. Avverto tensioni latenti tra ebraismo aschenazita, ebraismo sefardita, élite di governo, contadini israeliani, palestinesi che vivono poco lontano da qui, lavoratori migranti, volontari occidentali, beduini stanziali ormai in queste terre. Mi sembra che tutti siamo come stritolati. Non ci sono i buoni e i cattivi, ci sono rapporti di forza che ci legano. Le ingiustizie non si trovano nell’essenza degli individui, ma nei modi con cui si rapportano. Io a stento riesco a intravedere questi rapporti, e non ho idea di come poter agire. Al momento so solo di essere immerso nelle contraddizioni, consapevole di togliere ancora una volta il lavoro ai palestinesi, ai tailandesi, ai migranti africani, ad altri ebrei israeliani.
#2. La manifestazione
A Claudio e Silvia, 27 maggio
Dovete sapere che mi trovo a Ramallah e lavoro in un ostello. Poiché i proprietari posseggono un pezzo di terra a Bil’in, alcuni giorni lavoro in campagna e sfuggo ai bagni da lavare, agli ospiti da accogliere. Bil’in è un villaggio con vie strette, una moschea con due minareti, uno antico e uno nuovo, e un supermercato che vende bibite, sacchetti di cetrioli sotto aceto e panini per contadini di passaggio. Ci sono anche dei piccoli spacci di alimentari con verdure nelle cassette, due sale da biliardo frequentate dai giovani del paese e un cortile ombreggiato sotto una tenda blu. Questo cortile è un bar improvvisato: gli uomini stano seduti in due file, l’una di fronte all’altra, e hanno gli occhi fermi di serietà. Un ragazzo, forse il figlio del padrone di casa, passa di sedia in sedia con un thermos del caffè e un cestino di datteri. Vi ho incontrato uomini segnati da rughe in giacche che paiono consumate dal sole.
Quando gli israeliani costruirono il muro, espropriarono le terre della campagna a ovest di Bil’in. Ottennero il controllo di un’intera valle. I contadini palestinesi coltivavano ortaggi sul versante più fertile, ulivi su quello roccioso. Per nove anni, ogni venerdì, ci sono state manifestazioni a cui hanno preso parte gli abitanti e gli attivisti internazionali. Due anni fa gli israeliani hanno arretrato il muro fino al fondo valle, liberando il versante degli ulivi. Molti ulivi, mi dicono, sono stati sradicati. Quali siano le cause di questa riconquista territoriale – forse le manifestazioni, forse le pressioni internazionali, forse ragioni più celate – io ancora non so.
Mi sveglio alle sei e mezza per andare a coltivare un brano di terra che fino a due anni fa era irraggiungibile ai palestinesi. I proprietari dell’ostello hanno deciso di realizzare un orto biologico e già crescono filari di pomodori, cipolle, cavoli toscani, insalata, peperoni. Io ho il compito di dissodare il terreno e aprire nuovi letti adatti alle melanzane, alle carote e al basilico dell’avvenire. Si tratta di un lavoro molto duro perché devo combattere con un suolo pietroso. Nel campo ci sono ancora quattro piante d’ulivo.
Ogni mattina davanti a me vedo il muro recente, costruito più in basso, e vedo la colonia di Modin Illit poco oltre: un assembramento di palazzi squadrati in costruzione. Il rumore secco e cristallino del mio tridente contro le pietre del sottomondo si mescola alla dolce musica di un gelataio vagante che richiama i figli dei coloni.
Il venerdì sono andato alla manifestazione contro l’occupazione. Era l’una, forse le due. Ci siamo riuniti nel piccolo ufficio di un’associazione politica palestinese, antro scuro dove un manifesto recitava: “We will stay in our lands as the roots of olive trees”. Quando ci siamo incamminati per la campagna, l’esercito aveva già valicato il muro e si era posizionato al bivio sopra un cocuzzolo. Il campo di pomodori e cavoli si trovava alle spalle dello schieramento israeliano. Ho chiesto quale fosse l’obiettivo della manifestazione.«Raggiungere il muro», mi hanno risposto.
Immaginate un sentiero tra gli ulivi che sale su una collina, soldati e camionette in alto. La colonia non si vede perché sorge nella valle là dietro. Il cielo era d’un blu ronzante. Un drone volava sopra di noi, un bambino ha tirato una pietra e il moscone ha scartato. «Ma come si può superare un posto di blocco militare?», mi sono chiesto tastando la pelle rugosa del limone che avevo nella sacca. Eravamo trenta manifestanti, più due o tre individui con la giacchetta della Press. Un mio amico palestinese avvolto da una bandiera aveva una maschera antigas in mano. Ci precedeva un uomo in tradizionale abito bianco lungo fino ai piedi, mentre alcuni ragazzi, bambini e storici attivisti andavano avanti e indietro.
Sette, otto occidentali eravamo, quasi tutti dalla delegazione dell’ostello. Un francese eccitato saltava qua e là in testa alla fila. C’erano anche cinque israeliani. Erano in testa al gruppetto e brandivano al vento drappi rossoneri. «Siamo anarchici, anche tu sei anarchico?». Ho detto che non sapevo bene, ma ho letto La Boètie. «Non importa». L’uomo più fiero tra gli anarchici indossava una maschera da sommozzatore e puntava la bandiera contro il posto di blocco. Nel caldo del meriggio mi sono innamorato di un’anarchica bionda israeliana. Ma non c’è tempo, gli israeliani intimano l’alt. Io mi fermo a osservare gli ulivi. Perché, mi chiedo, così tanti rami sono secchi? A Zippori ho imparato a trovare gli snodi dove sono depositate le larve. Forse è la stessa causa? Fischia il cielo, esplosioni in giro, fumo; anarchici, palestinesi e occidentali in fuga. Un lacrimogeno rimbalza a fianco a me lanciando una grande fiammata.
Ho capito, gli alberi non sono abitati dalle larve. Ogni venerdì gli israeliani si piazzano lassù, gli attivisti avanzano, i soldati sparano nello stesso punto, qualche ramo s’affumica. Ho corso anch’io nonostante un fuoco nei polmoni e la sensazione di essere incatenato al suolo. Ho spezzato il limone e l’ho passato a un’americana, ho immerso il naso nella polpa. Ci siamo riparati dietro una casa e un’anarchica – non la donna della mia vita – ci ha portato una polverina da inalare per respirare meglio. Credo che la manifestazione sia durata cinque minuti. «Come si dice surreale in inglese?», ho chiesto al francese. Pacche di sostegno cameratesco intorno a me. «A mio avviso qualcosa non va», mi sono detto in silenzio. Un uomo mi ha offerto una sigaretta, un altro poco dopo ne ha allungata una seconda. Sempre ho accettato, pare brutto rifiutare. Ho pensato che Bil’in è il paese dei fumi.
Non volevo perdermi nei miei soliti pensieri e chiedermi dove sono gli abitanti di Bil’in, e perché noi “internazionali” siamo così eccitati, e come erano le manifestazioni in passato, e cosa è successo negli ultimi tempi. Soprattutto ho respinto la tentazione di leggere tutto da antropologo dei vecchi tempi, come se la manifestazione fosse un rituale tra due fazioni o tribù. Basta pensieri, il drone sospirava sopra di noi, il sole scaldava le nostre nuche arcuate. Sono andato dal sommozzatore anarchico giudeo a parlare di politica. Sembra che il partito comunista israeliano sia “sionista soft”, ma pur sempre sionista. Loro, gli anarchici, non sono per nulla sionisti e rigettano la soluzione a due stati. Ho annuito, un po’ perché ero d’accordo e un po’ perché la ragazza bionda in gonna di jeans con un piercing sul labbro e gli occhi azzurri ci stava ascoltando.
Ha ricambiato il mio sguardo, io stavo giusto per chiedere:«Sei anche tu israeliana?», o una domanda altrettanto futile. Ma mi è mancato il coraggio e gli anarchici sono scomparsi dietro a un angolo. La bandiera rossonera è stato l’ultimo segno della loro presenza a svanire.
Ho abbandonato tutto e sono andato a passeggio per Bil’in. Aria come se fosse domenica in un paesino del sud. Su un muro di una palazzina appare un ulivo imponente, radici contorte affondano nel terreno. Un uomo a torso nudo e con la kufiya è abbracciato all’albero e i suoi piedi si confondono con le radici. Da lontano mi è sembrato che anche l’albero ricambiasse amorevole l’abbraccio. Tuttavia la schiena del ragazzo non è avvolta da rami, ma da catene. Mi è parso un disegno in vibrazione, un’inquietante contraddizione interna rompe i simboli e li fa scorrere via liberi.
* * *
#1. Identità sfuggenti
Ad Antonella, 20 aprile
Adesso trovo un poco di tempo per scriverti. Non molto, perché domani la sveglia suona alle sei: andrò con Ilan a raccogliere pietre nella valle qui sotto, detriti che milioni di anni fa erano immersi nel fondo del mare. Dobbiamo costruire un muro a secco.
Sono in un villaggio agricolo ebreo, un moshav, in una regione araba. Nazareth, qui vicino, accoglie arabi, cristiani e musulmani, ma anche i paesi intorno hanno minareti che svettano in mezzo a case costruite alla rinfusa. Mi trovo in un’enclave ebraica in territorio arabo-israeliano. L’altra sera festeggiavamo lo Shabbat in giardino, c’erano le candele accese, i canti delle donne, il pane salato per ricordare le sofferenze. Ma al tramonto ho sentito lontano l’invito alla preghiera del muezzin.
Quando vado in giro scruto con attenzione i gesti degli uomini per capire chi sono. Ieri una famiglia araba mi ha fermato lungo la strada che porta al moshav. Avevano steso una tovaglia vicino alla fonte d’acqua per un picnic serale. Mi hanno chiesto in arabo come stavo e ho avuto la prontezza di rispondere: «Hamdulillah». Ho vinto un piattino di pistacchi e mandorle tostate, qualche applauso e tanti auguri di buon proseguimento.
Ad Haifa sono entrato in un negozio di alimentari, volevo comprare tre arance. Al banco un uomo guardava la televisione, una serie doppiata in ebraico con sottotitoli in arabo. Che fare? Ho farfugliato una serie di consonanti con voce dimessa, lasciando intendere un ringraziamento universale con lieve sbilanciamento verso l’arabo.
Prendi, per esempio, il modo per dire “forza, andiamo, spicciamoci”. Yalla. Gli ebrei lo modulano con dolcezza, la vocale fluisce lunga. “Yaaala”. Gli arabi invece mi sembra che usino la “l” come perno di pronuncia. “Yallla”. Una corretta emissione di voce decide l’esito di una possibile intesa.
Ma non credere che io sia un grande esperto, e scaltro. Ho già fatto errori tragici. Per esempio, in inglese – non so perché – ho difficoltà a pronunciare juice. Forse dipende dal fatto che pronuncio troppo spesso jew e jewish. L’altro giorno parlavo con ebrei coltivatori di melograni. Volevo dire che amavo il succo dei loro frutti. Ma mi è uscita una frase così: «Adoro bere ebrei»; o ancora meglio: «Mi piace il succo di ebrei».
Una sera camminavo solo per la periferia di Nazareth tra case in costruzione e calcinacci. Bambini giocavano nella ghiaia dei cantieri e una piccola vipera mi ha sorriso e mi ha detto: «Shalom». Era evidente che fosse araba, nessun ebreo vive là. Ma io ero stanco e ho risposto: «Shalom», come reazione meccanica. Era una trappola. La bambina è corsa in casa e ha urlato in arabo una frase del tipo: «Ha detto shalom, ha detto shalom!». Che può anche significare: là fuori un ebreo cammina solo per la via.
Invece di assumere atteggiamenti da conoscitore delle culture, camaleonte in adattamento, dovrei giocare meglio le carte che mi concede la mia identità. Se alla bambina avessi dato la risposta meno fasulla – «Hello» –, avrei di certo assunto la posizione giusta: non sono ebreo, sono un turista scemo che passa. Sarebbe stata, in quel contesto, la mossa migliore.
Ma come gestire questa oscillazione tra la mia identità e il desiderio di sfuggirne, di essere altro? In una rivendita di cellulari a Nazareth ho conosciuto Selim, l’uomo dietro al banco. Una persona gentile, mi ha dato il suo numero:«Chiamami se hai bisogno di aiuto». Poi ha aggiunto: «Benvenuto a Nazareth». Io ho iniziato a discorrere della città. Ho detto a Selim che Nazareth mi piace. «Un po’ quieta», ha risposto. Cosa voleva intendere con “quieta”? Ho cercato di deviare il discorso: forse la tranquillità di Nazareth nasconde un’eccezione in Israele? Essa è sintomo di una convivenza tra i popoli? «Gerusalemme non è quieta», ho insistito. «No, a Gerusalemme ti puoi divertire, uscire la sera… A Nazareth non c’è nulla da fare». Io volevo discorrere di lui e delle condizioni di vita degli arabi in territorio israeliano. Lui invece voleva parlare di me, giovane europeo in cerca di movimento notturno. Amiamo tutti le lontananze, i bagliori esotici di ciò che non siamo. Siamo andati in cerca dell’altro, con una sintonia tale che non ci siamo incontrati. (francesco migliaccio)
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