Si è svolta sabato scorso a Napoli una lunga e affollata assemblea nel cortile di Santa Fede Liberata. Oltre alle relazioni programmate, molte persone hanno preso la parola per condividere informazioni, riflessioni e stati d’animo. È stata un’occasione importante, in cui la ricostruzione dei passaggi che ci hanno portato in questa situazione di guerra al dissenso e alla complessità ha prevalso sulle proposte orientate al futuro, sui modi per fronteggiare uniti l’inverno che ci aspetta. È quindi urgente dare un seguito e una operatività a questa tappa iniziale. Perché se è stato possibile incontrarsi e darsi forza per ripartire, è soprattutto grazie a chi ha avuto il coraggio e la lucidità di tenere aperte le porte, di cercare l’altro e di non farsi schiacciare dall’ondata autoritaria che ha travolto (quasi) tutto in questo anno e mezzo.
Adesso riaprono le scuole. Riaprono nello stato, penoso, di sempre. E con nuovi diktat e imposizioni a gravare su adulti e bambini, mentre le minacce sempre all’orizzonte serviranno a tenere alto lo stato di tensione e di soggezione. Se a Napoli e in altre aree urbane della Campania è rimasto un embrione di intelligenza e di resistenza al delirio securitario, uno spazio di sopravvivenza, fisica e mentale, per bambini e ragazzi sotto assedio della propaganda e della paura, questo si deve alla costanza di piccoli gruppi di genitori, insegnanti e studenti che hanno dato battaglia fin dall’inizio di questa escalation. Nell’articolo che segue, uscito nell’aprile 2021 sul numero 6 de Lo stato delle città, a cura di Luca Rossomando, diamo voce ad alcuni di loro.
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Non sarà facile smaltire tutta la rabbia accumulata in quest’anno; lo schifo per l’arroganza e la manipolazione; la pena per la stupidità, la paranoia e la paura. Non era scontato – e in molti siamo ancora lontani dall’esserci riusciti – trasformare i nostri elementari, privati esercizi di resistenza in atti costruttivi, collettivi, politici. Eppure qualcuno, tra quelli sottoposti agli arbitri peggiori, ha trovato la forza per farlo. Qui interroghiamo (e rendiamo omaggio a) un piccolo gruppo di persone, tra quelle che a Napoli fin dall’aprile 2020 hanno manifestato dissenso verso le misure più idiote e vessatorie decise dai governi locali e nazionali durante l’emergenza, in particolare quelle che hanno colpito più duramente bambini e adolescenti. Lo hanno fatto apertamente, limpidamente, senza compromessi, ed è stato di pochi, almeno fino alla fine di ottobre, quando i tumulti davanti alla regione Campania hanno incoraggiato esplosioni simili in tutta Italia, che poi, in assenza di direzione politica, sono state rapidamente assorbite.
Si riportano qui le risposte di sette persone, sulle nove interpellate, che pure se non hanno agito sempre insieme nei mesi trascorsi, sono riconducibili a uno stesso ambito, quello che ha chiesto fin dalla primavera scorsa la riapertura delle scuole e degli spazi pubblici senza se e senza ma. Le risposte sono arrivate negli ultimi giorni di marzo 2021, poco prima che il governo decidesse di riaprire le scuole fino alla prima media anche in zona rossa.
Le scuole campane finora sono state tenute chiuse per l’intero anno scolastico, a parte una breve riapertura di qualche settimana tra gennaio e febbraio dovuta a una sentenza del Tar. Il malcontento verso questa decisione ha coinvolto migliaia di persone di tutti i ceti sociali, solo in poche però sono scese in strada per chiedere di tenerle aperte. Puoi raccontare il percorso e le motivazioni che ti hanno portato in piazza?
Adriano: «Nella prima metà del 2020 mi sono trovato per mesi a esercitare una supplenza di fatto nell’insegnamento di mia figlia e mio figlio (studenti della primaria), con molto dispendio di energia, fisica e mentale. Se nella prima fase emergenziale mi è sembrato che didattica a distanza e supporto genitoriale fossero una soluzione praticabile, con l’avvio del nuovo anno scolastico mi è stato chiaro che dismettere questo ruolo di supplenza fosse non solo possibile, ma sano e necessario. I genitori non sono docenti (almeno non dei loro figli) e le case non sono aule. Ho avvertito anche l’esigenza di far uscire i bambini da quella cappa di angoscia e demotivazione che un uso scriteriato della Dad ha comportato. E credo che anche per loro scendere in piazza sia stato utile a capire l’importanza di protestare per far valere un diritto negato».
Tristana: «Io mi sono mossa per un bisogno fortissimo di riprendere a vivere, di vivere anche in presenza di una pandemia. Mi sono trovata in casa tra la Dad mia (sono insegnante di sostegno alle scuole superiori) e quella di mia figlia (quinta elementare). Private entrambe della scuola e cioè di una delle principali fonti di relazione, scambio, interazione ma anche della sana distanza tra madre e figlia almeno per alcune ore al giorno. Costrette per ore davanti a un monitor. Una cosa che già ad aprile scorso mi appariva inaccettabile. […] Sono stata mossa dalla rabbia per l’ingiustizia terribile subita da mia figlia, una bambina di dieci anni che abbiamo tenuto faticosamente lontano da computer e cellulari per preservarne la sfera creativa, relazionale, corporea, che poi finisce davanti a uno schermo per ore per un anno intero per obbligo scolastico. Ingiustizia perché le scuole elementari erano chiuse solo in Campania. Non avrei potuto fare altro che lottare per lei e per me che come insegnante vedo negato nella didattica a distanza il senso del mio lavoro. Credo che sarei impazzita se non avessi canalizzato la mia rabbia nella lotta politica insieme ad altri».
Allegra: «Ad aprile del 2020 eravamo da poco entrati in questa nuova dimensione di pandemia, le restrizioni molto rigide non contemplavano la possibilità per bambini e ragazzi di poter uscire per strada o nei parchi. Le scuole erano state chiuse da quasi un mese, e molte non avevano ancora improntato la didattica a distanza. In una città dove si vive gran parte della vita sociale in mezzo alla via, la chiusura è risultata pesante e difficile da accettare. Così per me e un piccolo gruppo di amiche e conoscenti è iniziato un percorso di confronto e critica attiva verso decisioni che ci si schiantavano addosso come macigni. A noi donne e ai nostri figli. Io sono una lavoratrice precaria, intermittente del comparto cultura e spettacolo, e ovviamente mi sono ritrovata con progetti fermi e senza lavoro. Ho iniziato a interessarmi alle questioni legate alla scuola in città quando mio figlio maggiore andava all’asilo, e da allora ho portato avanti molte battaglie: il tempo pieno che non esiste quasi, la mensa che non parte mai, la volontà di partecipare alla revisione dei capitolati milionari a scapito di una qualità pessima del cibo, gli edifici cadenti che da anni non vengono sistemati.
«Iniziamo dunque a sentirci in poche. Siamo nervose, vogliamo vederci e confrontarci. Decidiamo di organizzare delle azioni di richiamo sulla condizione in cui i minori stavano vivendo, come reclusi, senza diritti e senza scuola. Prepariamo delle sagome di cartone che rappresentano bambini che fanno domande e chiedono di uscire e loro, i bambini, hanno partecipato sempre alle attività. All’inizio ho organizzato un gruppetto a Bagnoli, un gruppo di prossimità tra scuola dei miei figli e attivismo che faccio nel quartiere. Le prime azioni erano dimostrative, a volte non ci incontravamo nemmeno. Ognuno scendeva e attaccava sagome o manifesti, li fotografava e tornava a casa. Anche in questa nuova situazione sconosciuta e misteriosa dove è stata forte, soprattutto all’inizio, la sensazione di pericolo, il contagio che aleggia, sentivo in modo ancora più forte la necessità di uscire e manifestare, anche sola all’inizio, contro le misure di restrizione della libertà personale utilizzate come unica strategia da mettere in atto».
Carla: «Tanti genitori di oggi hanno partecipato a esperienze di militanza ai tempi di Officina 99 e del contro Global forum del 2001, per cui scendere in piazza fa parte della formazione politica di questa generazione; è quindi stato naturale rivendicare il diritto della scuola in presenza partendo dalla presenza stessa sul territorio. Scendere in piazza contrastava proprio quella virtualizzazione dei corpi e della socialità contro cui si protestava. Tanti altri si sono schierati ma in piazza non sono scesi perché i social e il web, al pari della Dad, fanno da deterrente alla vita reale, partecipata con il corpo, nella reale agorà e non (solo) in quella virtuale».
Carlo: «Il primo motore di tutte le iniziative che ho svolto è stato sicuramente il bisogno, la necessità. Ho una figlia di sei anni che quest’anno ha iniziato la primaria, e immaginare che per lei la scuola possa significare schermo, distanza, mascherina, alienazione e non relazione è qualcosa che mi sta dilaniando dentro. Quindi ho deciso di mobilitarmi, in collettivo, per pretendere umanità, buon senso e giustizia».
Karine: «Già la primavera scorsa sia come mamma sia come insegnante di scuola elementare ho notato fin da subito il disagio dei bimbi. E anche il mio! Quindi sono scesa in piazza proprio come reazione di pancia, immediata in mezzo al silenzio generale. Pensavo di essere l’unica a pensarla così, poi siamo state due, poi una quindicina».
Ananda: «Essere presenti in piazza e per le strade in tutto questo periodo è stata per me la forma più valida per esprimere il dissenso verso la politica di confinamento dei corpi che stiamo subendo e opporsi alla forzata digitalizzazione delle nostre vite e relazioni. È stata una necessità sentita fin da prima che si cominciasse a parlare di scuola. Fin dal marzo scorso, gli atti amministrativi emessi a livello nazionale per gestire la pandemia hanno mostrato le loro incongruenze e superficialità. Parlo da genitore single, che fin dal primo momento ha visto in quelle disposizioni l’impossibilità di poter continuare a vivere nel rispetto della legalità. La scelta era tra agire illegalmente e rischiare come singolo, e qui le alternative erano uscire di casa lasciando mia figlia da sola venendo meno ai miei doveri genitoriali o portare mia figlia con me e venire meno alle prescrizioni per cui un solo membro del nucleo familiare poteva uscire di casa. Ho deciso per la seconda opzione e mi sono unita ad altre persone trasformando questo gesto da azione individuale in azione politica. Per chiedere l’apertura delle scuole siamo scesi in piazza, in continuità con quanto fatto in precedenza, a partire da aprile scorso».
Ci sono stati dei cambiamenti nel corso di quest’anno nella composizione sociale di chi scendeva in piazza, nelle parole d’ordine, nei modi di organizzare le proteste?
Adriano: «Il gruppo di cui faccio parte vedeva all’inizio anche la partecipazione di alcuni iscritti ai sindacati di base e di qualche vecchia conoscenza dell’attivismo napoletano. Con la ripresa dell’anno scolastico è stato subito chiaro che gli obiettivi e le istanze andavano divergendo. Alcuni insegnanti non hanno visto nella riapertura delle scuole la priorità. Stesso dicasi per i due o tre militanti di lungo corso con cui avevamo iniziato a muoverci in primavera. Scuole aperte, ma… prima nuove assunzioni, prima messa in sicurezza edilizia, prima raddoppio dei trasporti, prima stabilizzazione dei precari… Insomma, apriamo le scuole, certo, ma prima facciamo il Socialismo, e facciamolo da casa, perché è più sicuro. Per noi, all’inverso, tenere le scuole aperte era l’unica base possibile per iniziare trattative, sia a livello locale che nazionale, e manifestare in piazza era l’unico strumento possibile per ottenere esattamente le stesse cose: stabilizzazioni, trasporti, edilizia scolastica. Allo stato, le cose, purtroppo, ci stanno dando ragione: nessuna stabilizzazione in vista, nessun aumento dei trasporti all’orizzonte, non un centesimo investito nell’edilizia scolastica e… scuole chiuse».
Allegra: «All’inizio della scorsa primavera eravamo Tana libera tutti, poi ognuna di noi ha coinvolto altre persone. Si è creato un circuito che si è riunito online per diversi mesi. Ci siamo nominati “Scuola e bambini nell’emergenza Covid”, abbiamo aperto una pagina su Fb, la chat del gruppo contava una cinquantina di partecipanti. Prima dell’estate abbiamo scritto un documento che abbiamo inviato alle istituzioni locali e alle scuole cittadine e della provincia. A settembre si sarebbe dovuti tornare a scuola in condizioni diverse, uscendo dagli edifici, facendo didattica all’aperto, nei musei, nei parchi, nelle piazze; chiedevamo, come dal titolo del documento, “Spazio ai bambini”. […] A settembre in Campania ci sono state le elezioni regionali e la riapertura è slittata. […] Il governatore rieletto decide di chiudere le scuole dal 16 ottobre a data da destinarsi. Qui iniziano una serie di scazzi nel gruppo. Chi è insegnante ha paura di contagiarsi in classe; comincia a essere utilizzata in maniera sempre più frequente e ambigua la parola “sicurezza”. Decidiamo di presidiare la Regione, ma non tutti sono d’accordo nel chiedere la riapertura immediata delle scuole. Vogliono prima che vengano potenziati i mezzi pubblici e la sanità di base, che vengano fatti tamponi a tutti gli studenti di ogni ordine e grado. Nel gruppo “Scuola e Bambini” sono entrati diversi sindacalisti del Cobas, ci sono insegnanti che chiedono tutele e non vogliono tornare in presenza. Affrontiamo le questioni in assemblea, non si riesce a trovare una sintesi e ci dividiamo».
Carlo: «Inizialmente un gruppo sempre più vasto di persone ha cominciato a incontrarsi per poter richiedere la riapertura delle scuole e il sostegno all’educazione. Nel tempo si sono sviluppate diverse posizioni e parole d’ordine che hanno portato a una spaccatura. Il gruppo Usciamo dagli schermi, di cui faccio parte, fin dall’inizio ha identificato come prima necessità la riapertura delle scuole, per poi, a scuole aperte, continuare la battaglia per il miglioramento delle condizioni strutturali e organizzative. Le frange sindacalizzate, invece, hanno cercato di inserire il discorso fuorviante della “sicurezza” e della ristrutturazione del sistema scuola e dei suoi ambiti collaterali (trasporti-sanità) come pregiudiziale per un’apertura. Questo ha dato man forte al discorso istituzionale di impedire l’apertura delle scuole finché non si raggiungesse un livello di “sicurezza” irragionevole o di prevedere una formula di tracciamento della popolazione scolastica che mina le più fondamentali libertà individuali, oltreché permettere al governo regionale prima, e nazionale poi, di scegliere la via più facile e meno costosa: chiudere le scuole piuttosto che approntare una politica diversa e migliorativa in tema di trasporti e sanità territoriale».
La mobilitazione si è rivelata anche un momento di incontro e di scambio con persone sconosciute o è stata vissuta interamente in un gruppo di affinità preesistente?
Tristana: «Ci è stata affibbiata dai media l’etichetta “mamme no-Dad”. Abbiamo respinto questa definizione e cercato di smontarla, ma essa contiene un fondo di verità. Almeno all’inizio il nucleo trainante del gruppo era formato da alcune madri che facevano parte del comitato genitori della scuola Rocco Jemma che nel 2012 lottarono contro la gestione della mensa dei nidi da parte del comune di Napoli. Ci è venuto spontaneo dopo le prime settimane di pandemia sentirci al telefono […]. Ricordo le prime videochiamate, con le case a soqquadro, esauste dall’essere costrette in casa, in famiglia, mentre c’era gente che riscopriva nel lockdown i piaceri della vita intima. Non abbiamo avuto dubbi, la “nuova normalità” ci è sembrata da subito un problema, non meno della “normalità di prima”.
«La reazione all’“anomalia campana” – ovvero il prolungamento della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado nella sola regione Campania – ci ha poi fatto incontrare alcune donne completamente diverse da noi per provenienza sociale e politica. A partire da novembre abbiamo avuto rapporti con il gruppo Scuole Aperte Campania. Loro avevano concentrato fino a quel momento le loro azioni sul piano legale tramite i ricorsi contro le ordinanze regionali, ma avevano l’esigenza di essere anche in piazza. Abbiamo preparato insieme ad alcune di loro l’iniziativa “Rifugiati didattici” e due blocchi stradali a Napoli, così come altre iniziative a livello regionale in occasione di alcune date lanciate da Priorità alla Scuola. Nonostante le forti differenze, le pratiche ci hanno almeno temporaneamente unite. Uno dei momenti più belli per me è stata la preparazione di cartoni e striscioni nello spazio di Santa Fede Liberata insieme con Marita. In cambio noi le abbiamo promesso di scendere in piazza l’indomani vestite eleganti. Promessa mantenuta».
Ananda: «Le uscite in gruppi di affinità sono state molto creative e hanno portato in piazza anche persone che normalmente non rispondono alle consuete chiamate di gruppi politici più o meno consolidati. Si sono andate via via strutturando in un periodo di totale assenza di forme di dissenso nello spazio pubblico e hanno attirato l’attenzione non solo dei media ma anche di pezzi dei movimenti antagonisti che si erano trasferiti nello spazio virtuale oppure erano rimasti attivi nella cordata di solidarietà dei pacchi alimentari, in linea con quanto accadeva in molte città italiane. […] Fin da subito ciò che ha caratterizzato le nostre proteste è stata la presenza dei bambini. […] Un’altra caratteristica è stata la continuità: da aprile scorso abbiamo organizzato una media di due mobilitazioni al mese e almeno una alla settimana nell’ultimo periodo, tutte occasioni di incontro tra persone conosciute e non, connotate dalla voglia di essere insieme, a partire da una formazione fluida che fino a ottobre scorso non ha sentito nessuna esigenza di definirsi con un nome ma ha sempre molto lavorato sui contenuti e su forme creative di stare insieme, adulti e bambini».
Karine: «Nuove conoscenze bellissime. Fare e soprattutto lottare insieme, vivere i dubbi, la rabbia, gli insulti, le rimesse in discussione. Un grande modo di creare legami di amicizia».
La richiesta di riaprire le scuole si è estesa ad altre città della regione. Che rapporti avete instaurato nel tempo con queste realtà, e con altri gruppi affini a livello nazionale, in particolare Priorità alla Scuola?
Adriano: «All’inizio si è tentato di costituire una rete campana, ma le incrinature che hanno attraversato il gruppo napoletano si sono riproposte altrove. PaS, poi, ha guardato dall’alto (della loro scuola ancora in presenza) l’anomalia campana, almeno fino a che non si sono chiuse le scuole anche sopra la linea gotica. Solo dopo aver sbattuto la faccia contro la violenza securitaria della chiusura delle scuole, il loro atteggiamento è cambiato, e i velati rimproveri di spontaneismo che pure ci sono stati rivolti sono evaporati dalla sera alla mattina. Purtroppo però ancora adesso tra le loro parole d’ordine restano tracciamento e tamponi (in perfetto allineamento con comitato tecnico-scientifico e governo). Detto questo, anche in PaS la linea securitaria non è l’unica e le contraddizioni interne, per fortuna, sono molteplici. […] Magari quando le chiusure saranno prorogate nel prossimo anno scolastico, e proprio grazie all’adozione del paradigma securitario dell’iper-tracciamento, suonerà la sveglia. Ma che brutto risveglio sarà».
Ananda: «I nomi non ci interessavano tanto quanto la rivendicazione di essere insieme, in presenza, contrari al primo imperativo che la gestione pandemica ha imposto: distanziamento sociale. […] Prima di settembre avevamo fatto coincidere le nostre manifestazioni per la scuola con quelle indette da PaS. Dopo settembre PaS non ha compreso, o lo ha fatto solo flebilmente, che l’apertura delle scuole di tutto il territorio nazionale doveva essere la prima istanza da rivendicare. A quel punto ci siamo detti che la battaglia del comparto scuola espressa da PaS in Italia e a livello locale dai Cobas e da gruppetti di studenti medi e altri pochi che, senza analisi critica e di contesto, ripetevano la richiesta di sicurezza a scuola, non poteva essere la nostra. Così ci siamo dati questo nome, Usciamo dagli sche®mi, che ci sembrava sintetizzare un invito, insieme a un’istanza che le riassumesse tutte. […] La presenza costante, fuori dagli schermi della Dad e dei webinar, ci sembrava l’unico strumento per tenere insieme tutte queste istanze, per non retrocedere nella battaglia per diritti che qui in Campania non sono affatto garantiti e che la gestione pandemica ha ulteriormente minacciato. Se le scuole sono vuote i solai possono anche crollare, la popolazione scolastica disperdersi, il divario con il resto del paese crescere. Nessuno se ne accorgerà e quando questo avverrà sarà ancora più dura porvi rimedio».
Quasi sempre sono scesi in piazza anche i bambini. Puoi raccontare che caratteri ha avuto la loro partecipazione e in che modi sono state condivise da adulti e bambini le ragioni della protesta? Puoi descrivere le occasioni (collettive o più intime) in cui i bambini hanno potuto elaborare le esperienze che stavano vivendo?
Tristana: «I nostri bambini sono stati in piazza con noi a partire dal 23 maggio. In realtà avremmo voluto portarli prima, per le azioni di Tana libera tutti, ma un eccessivo timore ci ha frenati. È stato un errore che ci ha fatto arrivare in ritardo simbolicamente e materialmente: è tornato prima tra le strade il traffico delle automobili che i nostri bambini. Avremmo dovuto avere più coraggio, anche a rischio di prendere qualche multa. Da maggio invece sono stati coinvolti in varie forme (cortei, presidi, preparazione di cartelloni, interviste, biciclettate, disconnessioni, trekking urbano, spettacoli teatrali) e credo che questo abbia significato tanto per loro. Hanno imparato con noi che non sempre bisogna ubbidire, che si possono criticare le leggi quando non sono giuste e che si deve lottare per ciò che si desidera, per la propria libertà. Hanno sperimentato la disobbedienza civile. Ci hanno visto scorati, disperati, ma ci hanno visto lottare insieme senza mollare mai e hanno visto quanta forza si sviluppa dal collettivo. Inoltre abbiamo cercato sempre di portare in piazza oltre alla collera anche il desiderio e la gioia di stare insieme creando momenti di condivisione che fossero piacevoli e importanti aldilà delle rivendicazioni del momento».
Carlo: «Fin dal primo momento, come padre e come attivista, mi sono identificato nel disagio e nelle difficoltà che stava vivendo mia figlia in relazione alla scuola, e non ho mai pensato che le iniziative proposte non potessero vederla protagonista, sia in termini di azione che in termini di linguaggio. Come adulto, la mia partecipazione è stata al servizio di una sua necessità, e una mia di riflesso, e come tale ho inteso la lotta».
Karine: «I miei figli hanno partecipato fin dall’inizio. Quando abbiamo portato le sagome a piazza Dante per dire che i bimbi esistono ancora, “tana libera tutto”, la nostra prima azione, si sono sdraiati su un foglio grande e abbiamo ricalcato i loro corpi, poi hanno completato ciascuno il proprio autoritratto. Davanti al museo, la nostra seconda azione, erano presenti per strada con noi (quel giorno erano solo tre bimbi). Per diverse azioni/manifestazioni erano proprio loro a dare le idee di “messa in scena” (il sistema di apri/chiudi la scuola con dei pannelli per bloccare il traffico). Hanno rilasciato diverse interviste. Adesso sanno posare benissimo per le immagini che vogliono i fotografi girando la testa per non farsi riconoscere troppo. Fanno la distribuzione dei volantini, in piazza disegnano a terra con i gessetti, ma soprattutto giocano, danno vita allo spazio nel quale arriviamo. Ogni piazza o strada diventa casa loro, il loro parco […]. Sono diventati appuntamenti regolari (almeno uno a settimana), invece di fare attività sportive, culturali, feste di compleanno. È diventata la loro nuova socialità».
Accanto alle mobilitazioni pubbliche si è sviluppata una pratica interna di autodifesa per sopperire almeno in parte alla perdita di socialità, di istruzione, di attività fisica da parte dei bambini. Puoi fare degli esempi di queste pratiche?
Adriano: «La pratica più diffusa è stata la costituzione di gruppi di pressione nelle singole scuole. Ci siamo organizzati per esercitare pressione sui dirigenti per aprire quello che poteva essere aperto – un esempio, la frequenza degli studenti con bisogni educativi speciali insieme a parte del gruppo-classe –, per fare lezioni all’aperto con gli insegnanti – quando disponibili –, o con tablet e cellulari. Abbiamo attuato giornate di disconnessione, il più delle volte assecondando e non anticipando il desiderio di bambini e bambine di farla finita con la Dad. Ovviamente si è trattato di azioni faticose, minoritarie e che spesso hanno visto in parte del corpo docente il punto di maggiore criticità. La questione è tutta lì: una parte consistente del corpo docente non ha condiviso la lotta, ha disertato la piazza e non ha intrapreso azioni incisive all’interno delle scuole dove lavora. Sono loro i grandi assenti, ahimè».
Allegra: «Abbiamo organizzato momenti di condivisione con cadenza settimanale, sia per fare Dad insieme a Santa Fede (ex convento ora “bene comune”) con pranzo sociale e gioco libero, sia mattinate di disconnessione, uscendo con piccoli gruppi a fare passeggiate esplorative in città. […] All’inizio speravo che alcuni insegnanti organizzassero qualche incontro all’aperto con i propri alunni, dalla materna al liceo, ma purtroppo non è stato così se non in casi rarissimi».
Sulla questione l’opinione pubblica si è divisa. Ha pesato molto la confusione generata dai media e soprattutto dai responsabili delle istituzioni regionali. Avete ricevuto nel corso della lotta un supporto concreto, o anche solo una solidarietà espressa da individui con una voce pubblica, associazioni o enti pubblici che si occupano di infanzia, scuola, formazione? Da parte di docenti o dirigenti scolastici, singoli o associati?
Allegra: «Abbiamo spinto molto, soprattutto durante la seconda tragica chiusura delle scuole decisa da De Luca, affinché uscissero dichiarazioni da parte di quanti con i ragazzi ci lavorano, oppure ne scrivono, che hanno voce in capitolo a qualche titolo. Qualcuno ce l’ha fatta, troppi hanno taciuto. Anzi, molti dirigenti scolastici e insegnanti si sono coalizzati e hanno fatto pressione in diversi modi per mantenere le scuole chiuse, anche attraverso i media, stilando e sottoscrivendo lettere e accorati appelli a tal fine. Abbiamo ricevuto minacce e insulti da parte di insegnanti e genitori, veniamo accusati di essere negazionisti, genitori irresponsabili, madri che si vogliono liberare dei figli per andare a bere il caffè con le amiche. Questo la dice lunga su quale sia la considerazione che a Napoli si ha della scuola, delle donne e dei bambini. Una tragedia che è impossibile negare, in cui chi ha voce pubblica e tace, o addirittura fomenta, ha delle enormi responsabilità».
Carla: «L’opinione pubblica è stata vittima di confusione informativa e dei titoloni di molta stampa sensazionalista; una scissione c’è stata anche tra insegnanti e dirigenti scolastici. Purtroppo la distorsione del paradigma securitario e una logica della paura hanno fatto venir meno la solidarietà anche da chi ci aspettavamo scendesse in prima linea. Tuttavia non dimenticheremo le battaglie degli insegnanti che hanno occupato le scuole per tornare in presenza, degli insegnanti che facevano la Dad in strada insieme ai propri studenti e il coraggio di molti dirigenti scolastici, soprattutto nelle periferie urbane, che sono riusciti a penetrare le maglie delle ordinanze locali garantendo ad alunni e alunne con bisogni educativi speciali il diritto all’istruzione».
La vostra lotta ha coinvolto soprattutto bambini e ragazzi delle scuole elementari e medie. Qual è stato il vostro rapporto con gli studenti delle superiori? Cosa pensi delle loro mobilitazioni in questi mesi?
Adriano: «Gli studenti medi sono restati per lo più in un silenzio assordante. […] I pochi ad aver battuto un colpo ripetevano parole d’ordine che a mio avviso sono abbastanza lontane dalla loro esperienza generazionale e quotidiana: tamponi per tutti, ristrutturazioni edilizie, moltiplicazione dei trasporti. […] Detto questo, noi tutti abbiamo un’enorme responsabilità in questo disastro politico. […] La domanda che mi assilla è: perché non si sono ribellati? In questo senso, l’esperienza più forte e commovente è stata l’occupazione dell’Accademia di Belle Arti, un vero modello. Lì studenti e studentesse si sono semplicemente ripresi il maltolto, autogestendolo. Una botta di vita. Un gesto, di questi tempi, veramente rivoluzionario».
Allegra: «Faccio fatica a dare un giudizio su come gli studenti medi si sono mossi, con quali richieste e parole d’ordine. Ho subito dubitato che il “rientro in sicurezza” e i tamponi fossero le loro vere necessità. Un confronto generazionale è molto difficile. Ho notato poi, come per il movimento degli adulti, che quei pochi collettivi attivi nei licei non avevano presa sui coetanei. Sospendo il giudizio, perché sono anche madre di un ragazzino che è passato dalla pubertà all’adolescenza in questo periodo terribile, e lo vedo molto provato, instabile, a rischio abbandono scolastico. I professori lo hanno mollato e lui non vuole più studiare. Nel suo liceo, primo anno di scientifico, i genitori sono stati contrari a qualsiasi azione di protesta e favorevoli alla Dad. Molto presenti, con una volontà manifesta di decidere per i figli e con un controllo sul loro andamento scolastico e sulle performance per me inquietante».
Che prospettive intravedi nel prossimo futuro per mettere a frutto il percorso fatto finora, in una fase di ridefinizione dei rapporti educativi fuori e dentro la scuola che si presenta lunga e sottoposta ai peggiori ricatti?
Adriano: «Credo che le esperienze maturate in quest’anno abbiano dato grande consapevolezza di contenuti e metodi della lotta politica all’interno delle istituzioni educative. Non c’è dubbio che con la transizione digital-securitaria si sta avviando una lotta senza quartiere a ogni pratica pedagogica libera e libertaria. Bisognerà fare un grande sforzo per provare a resistere a questo attacco finale al sistema educativo italiano. Non sono da escludere, per me, iniziative radicali di didattica alternativa – dall’home-schooling alla scuola all’aperto –, almeno come ultima istanza, come scialuppa di salvataggio. Prima ancora, però, bisognerà lottare strenuamente per evitare che la nave affondi, perché se la nave affonda, la sconfitta è totale».
Allegra: «La battaglia da portare avanti, in maniera strutturata, assidua e il più capillare possibile, è per me quella contro l’esclusione. Numeri inquietanti di bambini e ragazzi che abbandonano la scuola, numeri altissimi di ragazzi con difficoltà di ogni natura che con le scuole chiuse sono rimasti totalmente tagliati fuori. La perdita di autonomia, la famiglia come unico riferimento, quando sappiamo che le famiglie, anche quelle più borghesi, spesso sono disfunzionali e possono essere altamente dannose. La scuola è in uno stato di catatonia, ma la scuola pubblica deve sopravvivere e riprendere forza, serve continuare la lotta anche e di più con le scuole aperte, affinché tutti possano avere le stesse possibilità, vengano accolti e supportati».
Carla: «Questa esperienza ha fatto nascere un movimento che partendo dalla scuola penso andrà anche oltre nelle rivendicazioni utilizzando proprio le contraddizioni emerse in maniera parossistica in questa emergenza; immaginando un orizzonte diverso che parta dalla nostra presenza, costante e libera, nelle piazze, nei parchi, nelle scuole. Se si può dare un altro senso alla vita che non sia solo lo sfuggire alla morte, è solo a partire dai nostri corpi, dalla gioia, intimamente politica, che lo stare e il lottare assieme produce e diffonde».
Ananda: «La cosa a cui guardo con preoccupazione è la definitiva atomizzazione e digitalizzazione delle nostre vite che si lascia presagire. Non so bene quali sono le prospettive future di lotta in uno scenario che ancora non sappiamo immaginare compiutamente. So che l’esperienza politica di questo ultimo anno è stata proficua, ho conosciuto tantissime persone (paradossalmente più di quante ne abbia conosciute in altri periodi della mia vita), nei momenti migliori ho visto il mio contributo intessersi con quello di tutti gli altri potenziandosi e creando un discorso articolato e plurale. Credo che questo abbia restituito a ognuno di noi la consapevolezza di essere una risorsa per gli altri e se un risultato abbiamo ottenuto è proprio questo, oltre a riguadagnare per ciascuno, a ogni uscita di piazza, il piacere e la gioia di essere insieme».
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