Verrà presentato a Torino domani, giovedì 29 febbraio, Le nuove recinzioni. Città, finanza e impoverimento degli abitanti, di Stefano Portelli, Luca Rossomando e Lucia Tozzi. Del libro si discuterà con gli autori al CSOA Gabrio (via Francesco Millio 42) a partire dalle 18:30. Dopo la discussione si terrà un momento conviviale in cui si potrà mangiare e bere qualcosa.
L’incontro è organizzato dall’assemblea Un altro piano per Torino con l’obiettivo di affinare pensieri e strumenti utili a contestare il progetto di piano regolatore su cui l’amministrazione della città sta lavorando.
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Milano. Nel mese di giugno 2019 alcuni abitanti del Casoretto (il quartiere compreso tra piazzale Loreto e Città Studi, reso famoso dalla banda Bellini nei movimenti dei primi anni Settanta) scorgono dei cartelli affissi in piazza Aspromonte, sotto casa. Sono pubblicità di appartamenti da comprare, non ancora costruiti, in un palazzone di sette piani. Una grossa stecca destinata a sorgere, al posto di un fabbricato di due piani, al centro di quello che essi percepiscono come il proprio cortile, in mezzo a un grande isolato, che incomberà sul retro delle proprie case basse. Il nome del complesso pubblicizzato è Hidden Garden.
Parte la diffida verso l’impresa Bluestone, committente del progetto. A settembre il progettista e l’impresa cominciano a pressare gli abitanti dell’isolato di piazza Aspromonte per indurli a rinunciare alle iniziative legali che avevano intrapreso, in un misto di lusinghe e ammonimenti, “non potrete mai ottenere un progetto più favorevole di quello che vi proponiamo”, “è tutto regolare perché la commissione del paesaggio ha già espresso parere favorevole”, “vi stiamo facendo una grossa concessione”. A novembre ottengono una transazione, e subito sollecitano l’assessore Maran per chiedere il permesso di costruire, che arriva a dicembre.
Il progettista è Paolo Mazzoleni, allora professore al Politecnico e presidente dell’Ordine degli architetti di Milano e oggi assessore a Torino nella giunta Lo Russo. Non è uno di quei personaggi che si espongono in pubblico: Mazzoleni preferisce stare poco in vista, ma in luoghi strategici, concretamente utili. Uno di questi è la commissione paesaggio, che ha presieduto per qualche anno fino al 2015 e che poi, nel 2017 e 2018, è stata consultata dall’impresa Bluestone per stabilire se effettivamente il sito su cui sarebbe nato Hidden Garden potesse essere definito un cortile. La commissione ha stabilito che no, lo spazio interno all’isolato non poteva essere definito un cortile, ma uno spazio saturato in modo frammentario e caotico (utilizzando, si noti, argomenti di ordine morfologico-estetico). L’importanza di questo parere era cruciale per il progetto, perché cambiava completamente le regole: se il cortile è un cortile, è necessario rispettare le distanze minime dagli altri edifici, i limiti di altezza e i rapporti tra aree libere e fabbricati, perché la sua funzione è appunto quella di garantire luce e aria alle case. Negando l’esistenza di un cortile, categorizzando lo spazio come residuale, si possono invece costruire quarantacinque appartamenti per ventisette metri di altezza in mezzo a un isolato e chiamare l’operazione “miglioramento del paesaggio”.
Hidden Garden è poi diventato il primo di una serie di casi giudiziari che stanno scuotendo il mondo dell’immobiliare a Milano – torri di venti piani costruiti con la Scia (la stessa autocertificazione che serve per modificare un interno), interventi per centinaia di abitanti progettati senza quei piani attuativi che servono a quantificare la dotazione di standard, cioè di servizi e spazi pubblici necessari a garantire la vivibilità dei quartieri, ecc. – e col tempo i giudici decideranno se il cortile esisteva o meno, se la commissione paesaggio, composta da amici e colleghi di Mazzoleni, aveva agito in buona fede o meno, con o senza conflitto di interessi, se fosse corretto considerare la sostituzione di un edificio alto dodici metri con uno di ventisette una ristrutturazione e non una nuova costruzione, se la mancanza di piani attuativi sia legittima o vìoli le leggi urbanistiche, in ultima istanza se la dozzina di indagati risulti colpevole di una considerevole quantità di reati.
Indipendentemente dall’esito, però, la vicenda è illuminante riguardo all’attitudine di Mazzoleni e dei circuiti del professionismo, dell’accademia e delle istituzioni pubbliche che hanno in questi anni dato forma alle politiche urbane, in particolare alla “rigenerazione urbana”. Si tesse una rete di ruoli cumulabili e interscambiabili, all’incrocio tra pubblico e privato, per produrre consulenze che convalidino teorie e pratiche sulla produzione della città sempre più spregiudicate: da Ordine degli Architetti a commissione paesaggio, da ricerca a incarichi professionali, in un continuo gioco di sponde. Si acquisiscono competenze tecniche e retoriche per legittimare la sottrazione dello spazio vitale agli abitanti non solo da un punto di vista giuridico-urbanistico, ma anche sul piano morale – noi portiamo ricchezza, ma anche ordine, bellezza, decoro, “qualità”. Se l’azione a monte non convince chi si ritrova a subirla, si passa al contatto diretto.
La “rigenerazione” viene presentata come uno sviluppo orientato a minimizzare il consumo di suolo e l’impatto ambientale, se non addirittura una forma di economia circolare, e invece si rivela essere l’applicazione di un complesso sistema di norme giuridiche contraddittorie volte a favorire la massima densificazione del tessuto urbano in spregio a qualsiasi principio di giustizia spaziale, benessere degli abitanti, equilibrio ambientale, redistribuzione delle risorse.
Se la città non può più espandersi come in passato, e si trova a fare i conti con i vuoti lasciati dalle industrie, la risposta non è, come potrebbe essere in una prospettiva egualitaria: ripensiamo i vuoti come spazi ri-naturalizzati, anche selvatici, convertiamo le strutture obsolete in nuove abitazioni e servizi pubblici e in spazi dedicati a economie produttive a basso impatto ambientale, elaboriamo un progetto trasformativo che contrasti la logica della rendita, della crescita infinita e della competizione globale.
Al contrario, la rigenerazione è concepita come la liberazione da tutti quei vincoli urbanistici che impediscono di far crescere la città in verticale, sostituendo l’edilizia minuta con le torri e saturando gli spazi liberi e le intercapedini – l’insistenza ossessiva sulle misure di efficientamento energetico degli edifici è strumentale del resto a questa visione, serve principalmente a fornire un alibi razionale alla frenetica attività di abbattimento e ricostruzione incrementale, assai poco ecosostenibile, che questa ideologia vuole alimentare.
Mazzoleni è il primo intervistato in un articolo apparso sul Sole24ore il 19 febbraio 2024, nella sezione “Real Estate”, che invoca l’abrogazione delle leggi urbanistiche nazionali esistenti: “Le sfide delle città – sostiene – sono diverse da quaranta, sessanta, novant’anni fa. Nel nuovo Prg (Piano regolatore generale) cercheremo di introdurre dei principi che si coniughino con quelli della norma, pur facendo i conti con aspetti che non erano previsti, come quelli dell’indifferenza funzionale, della perequazione, del riequilibrio tra parti di città, quegli ingredienti che permettono la rigenerazione urbana”. Gli ingredienti che propone per Torino sono gli strumenti comuni del neoliberismo: la città esistente come pongo da rimodellare (indifferenza funzionale) per gli investitori privati; il compito delle istituzioni pubbliche ridotto alla rimozione degli ostacoli; trovare i cavilli e le zone grigie nelle leggi, o meglio eroderle, riformarle a favore del privato, soprattutto quelle più chiare e inaggirabili.
Il nemico principale è l’urbanistica degli standard (legge 1444 del 1968), quella che, appunto per evitare ambiguità, dichiara quanti metri quadri di verde, scuole o strutture sanitarie spetta a ogni abitante. Se costruisci più case, devi costruire o pagare più servizi per chi le andrà ad abitare. Se non c’è più spazio per farlo non puoi costruire altre case. La parte inaccettabile per i rigeneratori sono i costi, l’obbligo di redistribuire una parte della ricchezza che vorrebbero intascare per intero – quell’obbligo che ha prodotto, negli anni della speculazione edilizia postbellica, il patrimonio di edifici pubblici che ora stiamo svendendo. Ma la critica di Mazzoleni e di chi la pensa come lui si sofferma su un altro aspetto: gli standard sono un dispositivo arido, prescrittivo, quantitativo, che mortifica la fiducia nel progetto e nella qualità. Perché formalizzarsi a contare i metri quadri di spazi pubblici come ragionieri, quando si è posti di fronte alla bellezza?
Una cosa, poi, è misurare i profitti, che sono concreti, e tutt’altra accanirsi sulla determinazione di bisogni astratti, attribuiti a persone generiche tutte uguali e addirittura trasformati in diritti. L’unica soluzione, sosteneva Mazzoleni nel contributo a un libro sugli ex Scali ferroviari milanesi (Laura Montedoro, Una scelta per Milano, Quodlibet, 2011), è “l’accettazione del carattere collaborativo dell’abitare urbano e dell’imprescindibilità del ruolo pubblico dell’edilizia privata”: cioè, liquidare l’urbanistica intesa come pianificazione nell’interesse pubblico e optare per l’apolitico e aperto disegno urbano, l’housing sociale, la sostenibilità pensata puramente in termini di materiali edili e soprattutto gli “spazi ibridi”, miracolosi catalizzatori di funzioni ed energie comunitarie, di finanziamenti pubblici e privati e “di tutte le istanze dell’abitare urbano contemporaneo”.
Come flessibilità e resilienza, anche la parola rigenerazione ormai suona male. La libertà a cui allude assume sempre più nettamente i caratteri soffocanti di una prigione. Privata. (lucia tozzi)
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