Sabato pomeriggio, preso dal desiderio di vedere la partita dell’Africa United, ho raggiunto di slancio i campi da calcio fra la Dora e il cimitero monumentale. Erano ormai le sei, ma il sole incombeva ancora e lasciava tutti – uomini, piante e uccelli – a corto di liquidi interiori.
Quando ho raggiunto il campo ho visto le maglie gialle della Romania spostarsi di qua e di là, movimenti febbrili nella calura avvolgente. Ho proseguito il cammino alla ricerca dei miei amici, pronti al debutto contro la Cina. L’Africa United è la mia squadra d’elezione del Balon Mundial, il torneo di calcio torinese per comunità migranti. Ecco, i giocatori s’erano riuniti nel cortile fuori dagli spogliatoi e già indossavano le magliette rosse ufficiali – le intravedevo al di là dell’alta cancellata. Così ho accelerato il passo con l’intenzione di raggiungerli. «E tu chi sei?», mi hanno domandato all’ingresso i responsabili italiani dello staff. Per evitare spiacevoli assembramenti fuori dal centro sportivo – mi hanno detto – è concessa l’entrata al quartier generale del torneo solo ai giocatori e ai “dirigenti”.
Pazienza, ho deciso di aspettare l’inizio della partita fra il campo di gioco e il quartier generale presidiato. La Romania ha strapazzato il Sudan, ho visto un giocatore in giallo uscire dal campo e fumarsi soddisfatto una sigaretta. Nell’attesa ho dato libero sfogo ai ricordi. Una sera sono entrato nella piccola scuola autogestita dell’Ex-Moi e ho notato diverse assenze. «Dove sono tutti?». Alcuni ragazzi si stavano allenando per il Balon Mundial nel cortile dietro alle palazzine. Le quattro palazzine dell’Ex-Moi furono occupate due anni fa dai rifugiati dell’Emergenza Nord Africa: trecento, quattrocento persone all’inizio – ora in più di seicento vi abitano. Dopo il primo rigido inverno, per far fronte al sovraffollamento, venne occupata anche una casa di riposo lasciata vuota dall’altra parte della città, in via La Salette. L’Africa United è una squadra eterogenea, con giocatori di paesi diversi. “Partecipare a un torneo di nazionali senza essere una nazionale”, mi sono detto, un buon motivo per alimentare la mia passione di tifoso.
È arrivato l’arbitro vestito di tutto punto, giallo fosforescente con pantaloncini neri. Ha preteso di disporre le squadre in fila per l’ingresso in campo, operazione molto complessa perché nessuno aveva intenzione di irreggimentarsi. Nel frattempo mi sono avviato verso il tappeto verde per godermi lo spettacolo. Un ragazzo dello staff ha vociato: «Fermo! Sei un dirigente?». Non ci sono gli spalti intorno ai due campi da gioco, ma solo recinzioni. Oltre la linea bianca di gesso rimane libero un piccolo spazio per le panchine, ma il pubblico può seguire la partita solo al di là delle reti di separazione. Questa volta ho conservato il sangue freddo: «Non sono dirigente, ma giornalista». Ho detto di scrivere per un’importante rivista napoletana, vero reporter che deve stare attaccato agli eventi e non esiliato a distanza. Mentre sfoggiavo le mie doti retoriche, l’Africa United ha segnato due gol in pochi minuti. Ho notato con la coda dell’occhio le incursioni devastanti di Daniel, attaccante esterno di sinistra.
«Noi non possiamo far entrare nessuno per regola generale», mi hanno risposto. «Vedi, non vogliamo che abbiano accesso troppi dirigenti e sostenitori delle squadre perché poi fanno pressioni sull’arbitro. Qui tutti vogliono vincere». Poi Said – centrocampista centrale con buona visione di gioco – si è mangiato due gol fatti e io ho ottenuto un angolino d’osservazione a ridosso dell’uscita dal campo, ma «non oltre!».
Per fortuna verso la metà del primo tempo mi ha raggiunto la responsabile della comunicazione di Balon Mundial, ragazza molto gentile e disponibile. «Evviva sei giornalista – mi ha detto – e scrivi per un rivista. È importante?». Le ho confessato la mia idea di scrivere un articolo di calcio che sia movimentato e divertente e non la solita nenia sulle contraddizioni della giunta comunale in materia d’accoglienza. «Bravo. Sappi che qui s’aggira anche un giornalista de Il Fatto, potresti scrivere un articolo parallelo al suo e poi sfidarlo sui social network». Ho sentito subito nascere in me lo spirito della competizione giornalistica. Intanto erano sempre più evidenti le difficoltà di disimpegno della Cina. Daniel ha messo a segno la sua doppietta personale: tre a zero dell’Africa United in disarmante baldanza.
Alla responsabile della comunicazione ho raccontato di Sarda, giocatore dell’Africa United e disegnatore, e della mia idea di corredare gli articoli con i suoi schizzi. Sarda ha battuto un calcio d’angolo mandando il pallone direttamente sul fondo. «Ma che bello. Ti do i miei contatti. Potreste fare, tu e Sarda, una graphic novel per Internazionale». Io amo questa città perché qui tutti sognano graphic novel per Internazionale, anche sotto il sole che ti lascia senza liquidi interiori.
Mentre i miei pensieri correvano ai successi futuri, ho ottenuto dalla responsabile un pass speciale per giornalisti. «Pronuncia il mio nome a chiunque cerca di fermarti. È importante scrivere articoli sulla manifestazione». La mia squadra ha chiuso il primo tempo con un gol dopo l’ennesima scorribanda di Daniel sulla fascia sinistra – quattro a zero d’autorevolezza.
Orgoglioso del riconoscimento ottenuto, mi sono avviato verso la panchina dell’Africa United a falcate decise. Ho sfiorato il portiere della Cina, un mingherlino italiano con un maglione da scena teatrale stile “portiere dell’Italia ai mondiali”. Era disperato e si lamentava con il padre deluso, incombente al di là delle recinzioni. «Come faccio a organizzare la difesa se tutti parlano cinese e non mi ascoltano?». Il padre non si scomponeva: «Vallo a dire al mister, figliolo». Ho lasciato il portiere mingherlino ai suoi turbamenti, il genitore alle sue attese, e ho raggiunto la mia squadra.
Aliou era molto indispettito perché non aveva ancora giocato. «Io non faccio mai questioni, penso alla squadra, ma Marco fa giocare quelli che si lamentano di più. Se faccio casino anch’io vuoi vedere che gioco?». Marco è il selezionatore dell’Africa United e ha svolto un gran lavoro di mediazione, attento a non scontentare nessuno in un sistema di equilibri sempre fragile. Ho fatto ad Aliou un discorso molto ragionevole sul senso di squadra in una selezione panafricana. «Hai visto quanti errori sotto porta? – insisteva Aliou – Io non sbaglio quei gol». Gli ho risposto di non preoccuparsi perché la sua situazione sarebbe stata conosciuta da tutta l’Italia grazie al mio articolo. Durante il secondo tempo Aliou è finalmente entrato per occupare il fronte destro dell’attacco. È andato in fuorigioco, ha perso un contrasto, ma infine ha avuto la sua grande occasione, quella che ogni attaccante non deve sprecare. Con un notevole scatto s’è lanciato a gran velocità verso l’area, è arrivato di fronte al portiere mingherlino: momenti di attesa, finta di corpo elegante, urla all’intorno. Poi all’improvviso – dopo un gran mescolamento di gambe e di braccia – ho visto il mio giocatore preferito a terra, il pallone sfilato via. Complimenti in cinese al portiere, probabile l’orgoglio del padre spettatore lontano. Aliou si è alzato zoppicante e Marco ha colto l’occasione per cambiarlo con un compagno esiliato fra i panchinari mugugnanti. Eccolo di nuovo seduto accanto a me, ancora più incupito. «Mi sarei ripreso dalla botta, eh».
Il secondo tempo è stato più blando nei ritmi, ma i ragazzi hanno messo a segno il quinto gol – fragorosa esultanza di Aliou a bordo campo. A fine partita ho salutato Sarda, mi sono complimento per le sue giocate tecnicamente raffinate: «Io sarei attaccante esterno – mi ha confessato – ma qui tutti pretendono di essere attaccanti e allora devo stare in difesa». Sviato dalle considerazioni tattiche sulla fascia migliore da occupare per un mancino naturale, mi sono dimenticato di proporre l’idea dei disegni. A quel punto mi sono avvicinato a Marco e con poco senso dell’opportunità ho contestato la sostituzione di un giocatore appena subentrato. Mi ha bisbigliato: «Che dovevo fare? In panchina c’erano tensioni e io devo calmare le acque». Molto contento che sia lui l’allenatore.
Così sono uscito dal campo e ho notato che di fronte c’era la sfida fra Mali e Colombia. «Stanno zero a zero», mi ha detto una donna colombiana. Appoggiati alle recinzioni c’erano le due comunità di tifosi. Il Mali ha colto una traversa fra le urla del pubblico e così mi sono concentrato sui movimenti dietro le recinzioni: strattoni violenti a ogni giocata coinvolgente. «Es necesario tener culo. Suerte», ha sentenziato una voce femminile. Un’altra donna stringeva un enorme coperchio da cucina e lo batteva con violenza per sottolineare le azioni della Colombia. Poi le squadre sono uscite dal campo, sono entrate negli spogliatoi mentre i cancelli si chiudevano dietro di loro e tutti ce ne siamo andati pian piano a casa. (francesco migliaccio)
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