Ti rompo il culo! Saggio di pedagogia del merito
di
Ahstolfo Vaccagara
(abstract)
Il lavoro in questione si inserisce nel filone della rinomata Pedagogia del Merito con un dichiarato intento innovativo volto a stimolare una poderosa presa di coscienza in seno alla Gioventù Patria e alle principali agenzie educative che di questa devono assumersi la responsabilità: Dio, in primo luogo; la Famiglia, in secondo luogo; la Patria, attraverso l’instancabile operosità delle educatrici, ed eventualmente degli educatori, che offrono la vita per la formazione delle nuove generazioni su cui il lustro del Patrio Destino fa affidamento. Non è all’italietta che guarda questa ricerca, ma all’Italia faro della Storia e della Cultura europea e mondiale e baluardo dei Valori cristiani su cui queste si fondano.
Il saggio si articola attraverso snodi problematici di altissimo contenuto pedagogico ed etico, per delineare il percorso che da una complessità disturbante, effemminata e menzognera, riconduce alla sana monoliticità di Valori certi e incontrovertibili.
Fondamento della Pedagogia del Merito è la Mistica dell’Umiliazione. Fin da bambini è necessario essere ricondotti alla certezza della filogenesi, evitando che germi pericolosi e velleitari stimolino eccessivamente la fantasia dell’infante elicitando allucinatorie visioni del futuro e di possibilità illimitate quanto disordinate: ogni cosa nel cosmo è ordinata secondo una razionalità superiore alla quale ogni persona sana di mente deve rimettersi senza porre inutili quanto fastidiose domande. È di fondamentale importanza per il sano sviluppo della personalità e del consesso sociale che ci si renda conto che l’alto è in alto e il basso è in basso. Su una simile evidenza si fonda la possibilità di costruire una società armonicamente gerarchica che sappia raddrizzare le devianze riconducendole alla quiete rassicurante della disciplina ortogonale.
A questo scopo l’Umiliazione è pari a un motore immobile, un regolatore, un generatore semantico. Attraverso la Mortificazione ogni surplus non funzionale al sano ordinamento ontologico si ridimensiona o cade amputato delle sue potenzialità velleitarie. Qui non si vuole alludere alla semplice funzione regolatrice del senso di colpa, troppo innervato nella presunta dimensione dell’interiorità, tanto sopravvalutata quanto fastidiosamente intrisa di effeminatezza. L’Umiliazione è un’estetica, va praticata sulla pubblica piazza e a partire dall’infanzia per dare voce all’etica della Mortificazione: questa è l’unica forma di interiorità veramente autentica e virile. In quanto estetica l’Umiliazione impronta la natura delle relazioni sociali e interpersonali, lasciando alla Mortificazione lo spazio intrapersonale.
È importante, conseguentemente, che già nei campi di esperienza pensati per la scuola da 0 a 3 anni sia dato il dovuto spazio all’Umiliazione: il bambino va mortificato da subito, chiamato “pisciasotto” o “cacasotto” se non ancora in grado di controllare gli sfinteri, segnalato con apposito adesivo all’attenzione dei suoi camerati di classe e dei camerati delle altre sezioni. Qualora non apprezzi il cibo della refezione l’infante va nutrito a forza per insegnargli il valore del cibo che gli viene somministrato. Nel caso mangi troppo il cicciabomba va ridicolizzato perché sviluppi le adeguate capacità riflessive in merito al suo inadeguato desiderio di mangiare. Il saggio approfondisce tutte le tipologie di devianza comportamentale che attraverso un’equilibrata somministrazione di sana Umiliazione possono essere corrette.
Alternanza scuola-lavoro, come il Taigeto per la gioventù spartana. La Mistica dell’Umiliazione ha lo scopo di temprare il carattere degli adulti in formazione, quando la loro tenera età rende economicamente conveniente discriminare tra chi potrà dare un contributo alla Patria e chi costituirà un ostacolo al sano sviluppo della genia. Considerando che le moltitudini hanno da servire la comune causa del benessere nazionale nel rispetto della loro collocazione gerarchica, è importante che fin dalla scuola i ragazzi sperimentino il lavoro, la sua durezza, l’inflessibile ordinamento per il quale chi opera si china a chi comanda recependone docilmente il carisma e l’autorità.
Nella rude e virile cogenza del lavoro, come avviene regolarmente per gli adulti, è possibile che qualche giovine perda la vita. Non è il caso di incedere in deboli considerazioni sentimentali, ma collocare queste perdite in un quadro di senso più ampio: queste vite si donano nell’onorevole adempimento di un compito formativo, ciò rende la loro Morte Bella, Giusta, d’esempio e di merito per tutti; inoltre, da un punto di vista eugenetico, è comprensibile, normale, che chi è meno adatto venga meno ed è opportuno che questo avvenga quando la giovine età non ha ancora consentito al debole, all’inadatto, di rendersi nocumento per tutta la comunità nazionale.
La cultura classica di cui siamo epigoni ci porta l’esempio della gioventù spartana, della virile accortezza con cui dal Taigeto venivano gettati i malfermi, gli storpi, gli effeminati, i non adatti, affinché la genia spartana potesse mantenersi sana e inalterata, affinché fossero possibili imprese titaniche come quella delle Termopili.
La sensibilità effeminata dell’era democratica non consente la virile radicalità della pratica spartana, ma da Educatori nostro è il compito di trovare modalità adatte ai tempi storici affinché sia egualmente possibile la salvaguardia del bene e del meglio: in altre parole del Merito.
Squadrismo e mondo giovanile. Le nostre nonne lo dicevano sempre: “vale più un ceffone di mille parole”, soprattutto quando una parola è poca e due sono troppe. È oramai entrata nel senso comune l’importanza educativa di una pratica come il peer-tutoring, dobbiamo quindi ammettere che i ragazzi, benché giovani, siano portatori di competenze che meglio degli adulti possono trasmettere ai loro pari. È d’altra parte evidente che nella supposta società liquida, nella quale dilaga la cultura gender, sia oramai messo in crisi qualsiasi principio di autorità. “Cosa resta della virilità del padre?”, si domanda Recalcati, quando anche un maschio deve profondersi in bacetti e abbraccini, commuoversi al compleanno dei figli e vedere con loro prodotti di chiara ascendenza semitica come Masha e Orso o Pip e Posy? Del padre resta un simulacro privo di attributi, indistinguibile dal femminile materno che addirittura sottrae lo spazio e il tempo del lavoro a quello che un tempo sarebbe stato il capo famiglia. Se il femminile, cui è propria la poietica biologica, si appropria della poietica sociale e politica del maschio, le storture che ne derivano possono avere conseguenze tali da mettere in crisi la capacità stessa della razza umana di perpetrare se stessa: se un ordine è inscritto nelle cose, quell’ordine va preservato e difeso con i mezzi educativi e coercitivi del caso.
Nel torbido fango prodotto dalla liquidità sociale va quindi incoraggiata l’iniziativa del fior fiore della Gioventù Patria che, ordinata in squadre, cerca un dialogo con i propri pari dinnanzi alle scuole e in tutti quegli spazi che i ragazzi sono soliti frequentare. Non è il caso di scandalizzarsi della ruvidezza del linguaggio giovanile: fare ricorso a categorie come “pestaggio”, “aggressione”, “intimidazione”, denota una scarsa comprensione delle categorie comunicative della Gioventù, poco incline alle ipocrisie del politicamente corretto di albionesca discendenza e propensa viceversa, alla schiettezza dello schiaffo, del calcio e del pugno: “Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno”, diceva il Poeta.
La Mistica dell’Umiliazione chiama la Gioventù all’esercizio plastico del pensiero, non più astratto in dubitabili spazi mentali, ma incarnato nel gesto e, per riferirsi a Dewey, quale esperienza può essere più educativa dell’incontro rude con i propri pari che trasmettono le proprie competenze con la forza del pensiero incarnato nel calcio e nel pugno? Non può esserci spazio per argomenti ipocriti e femminili di chi, con intenti politicamente manipolativi, pretende di ergersi a pedagogo scrivendo lettere ai propri studenti e riferendosi a un periodo storico che solo l’arroganza dei vincitori ha potuto consegnare a un’ultradecennale sottovalutazione e che solo la maschia determinazione di chi non lasciandosi spaventare dall’arroganza delle imposizioni democratiche, dopo decenni di instancabili battaglie culturali, sta riuscendo oggi a consegnare quella Storia e quella Cultura al posto che le compete.
Per una nuova professionalità educativa. La Pedagogia del Merito ha bisogno di professionisti formati alla Mistica dell’Umiliazione: persone silenti, consapevoli del proprio spazio e del proprio ruolo subalterno nella piramide della gerarchia sociale. È importante che chi svolge un lavoro pedagogico lo faccia senza porsi troppe domande, senza scomodare categorie trite e desuete come la riflessività. “Zitti e muti!”, questo deve essere il motto di ogni buon educatore, meglio se educatrice perché, in quanto donna, naturalmente disposta alla sottomissione.
È importante che la meritoria opera di chi dedica alla Patria il suo lavoro e la sua abnegazione, sappia che Educare vuol dire ricondurre il confuso e l’incerto alla chiarezza dell’ordine ortogonale. Una buona educatrice fa in modo che l’educando rinunci alle sue confuse velleità per riportarlo alla certezza del suo dover essere attraverso la pratica dell’Umiliazione e il sentimento etico della Mortificazione. Dove l’educatrice non può, arriverà il bastone.
Gli stessi educatori devono essere proni di fronte all’ordine sociale, privi di belle velleità e carichi di robuste certezze: anche a questo scopo è importante che la loro subalternità sociale sia evidenziata da trattamenti economici umilianti, che la loro epistemologia sia schiacciata tra la derisione di chi la trova inutile e gli scrosci di luoghi comuni di chi sa che la saggezza della nonna e la mano del padre possono più di qualsiasi esagitata e arrogante sciocchezza universitaria.
La Pedagogia del Merito sa di poter già contare su una compagine pronta all’obbedienza e alla sottomissione, disposta all’acritica accettazione di qualsiasi ordine calato dall’alto, entusiasta nel non dover sprecar tempo a interrogarsi su se stessa e vogliosa di essere riconosciuta come politicamente irrilevante e assolutamente non necessaria alla società. È solo sulla base di questa etica della Mortificazione personale, di questa Umiliazione sociale, che un buon professionista può rendersi alfiere della Pedagogia del Merito e si può ben dire che, almeno sotto questo aspetto, le condizioni sono ottimali, il periodo storico è quello giusto, il materiale umano è modesto quanto basta… Quindi all’opera educatori, testa bassa, muti e pedalare!
Conclusioni. Bisogna liberare il concetto di Merito da infausti fraintendimenti. La Pedagogia del Merito non ha nessun carattere di premialità, non si tratta di attribuire il giusto riconoscimento per un lavoro fatto egregiamente e ancor meno di promuovere socialmente persone che hanno dimostrato di avere competenze particolari o intelligenze brillanti. Queste sono sciocchezze ipocrite contrabbandate dai sostenitori della cosiddetta democrazia, che in questa vece non è altro che un socialismo mascherato: in una competizione sociale tra il figlio di un professionista alto-borghese ricco e affermato e quello di un sottoproletario disoccupato e semianalfabeta, chi si pensa che potrà mai vincere? Il solo porsi il problema denota ignoranza o malafede. La vera questione è rendere consapevoli le persone del posto che l’ordine sociale gli assegna, indurli ad accettarlo. Il vero Merito è saper riconoscere il proprio posto senza fare storie. Qualora qualcuno abbia difficoltà a rendersi disponibile a essere ciò che deve, mostrandosi refrattario al senso di Mortificazione, la Pedagogia del Merito deve saper adoperare tutti gli strumenti coercitivi che il buon senso mette a disposizione, dal pestaggio alla galera.
La nostra società attraversa una crisi che data a partire dal 25 luglio del 1943, ma mai come oggi si verificano le condizioni storiche per affermare un nuovo paradigma educativo, per dare forma a un consesso sociale che sia informato alla solida necessità naturale così come voluta da Dio.
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