da: Horatio Post
Come sta l’agricoltura della Campania dopo la tempesta perfetta della Terra dei fuochi? L’economia della regione cresce più che nel resto d’Italia (+3,2% nel 2017) e la domanda allora è quanto le produzioni della terra contribuiscano a questo risultato, se il motore di Campania felix ha ripreso finalmente a girare. Vincenzo Sequino dirige da anni la sezione campana dell’Istituto nazionale di economia agraria, e di queste cose è autorevole e attento osservatore.
Il ritratto dell’agricoltura regionale fatto da Sequino è per molti aspetti inatteso, lontano dagli stereotipi della comunicazione strillata degli ultimi anni. Nel suo racconto, la crisi della Terra dei fuochi non ha colpito tutti i produttori indistintamente, ma i più piccoli e i più deboli, minacciando l’integrità sociale e territoriale della nostra agricoltura, prima che quella economica. Per quanto riguarda il futuro poi, se la Campania vuole lasciarsi veramente alle spalle gli anni difficili, ha bisogno di politiche agricole molto diverse da quelle sperimentate sinora.
La prima domanda, naturalmente, è quanto ci è costata Terra dei fuochi, quanto ha pesato sull’economia della Campania.
Il rapporto che l’Inea (che da poco ha un nuovo nome, ora si chiama Crea) ha redatto per il governo lo dice con chiarezza: a pagare sono stati i piccoli produttori, che sono una componente non secondaria del nostro sistema agricolo. Le aziende più grandi, quelle che hanno potuto permettersi le certificazioni, non hanno sofferto cali di fatturato. Anzi, l’export è addirittura un po’ aumentato. Il piccolo produttore invece ha dovuto svendere verdura e frutta di alta qualità con ribassi fino al 75%, e in forma anonima, con i nostri prodotti che sono stati etichettati con provenienze diverse dalla Campania. Molti agricoltori, anche giovani da poco entrati in attività, sono falliti, le terre sono in abbandono, in mano alla speculazione fondiaria. Il disastro territoriale e sociale si unisce a quello economico e per certi versi preoccupa di più.
E adesso?
Le statistiche vanno lette con attenzione, perché l’agricoltura è un settore strutturalmente “anticiclico”, funziona un po’ come un ammortizzatore: va meglio quando il resto dell’economia va male, e ha invece risultati meno esaltanti quando le cose vanno bene. È quello che è successo negli anni scorsi e sta succedendo ora. Quando c’era recessione l’agricoltura era l’unico settore non in rosso. Ora che l’economia è ripartita i dati, per esempio quelli Svimez, dicono invece che l’agricoltura è l’unico settore in flessione, mentre tutti gli altri crescono. Ma qui ha ancora ragione Manlio Rossi-Doria: le cose dell’agricoltura vanno valutate su tempi diversi, mantenendo il passo “dei cavalli dal fiato lungo”.
Se i dati congiunturali non ci indicano la direzione, a cosa dobbiamo guardare allora?
Bisogna capire innanzitutto qual è il ruolo dell’agricoltura in un’economia moderna, post-industriale. In apparenza, il contributo del settore primario al Pil, il prodotto interno lordo, è molto piccolo, intorno al 2,6%. L’agricoltura sembrerebbe una voce assolutamente marginale.
E invece
Il Pil agroalimentare è come un missile a più stadi. Se a questo valore aggiungiamo quello dell’industria di trasformazione raddoppiamo, e arriviamo al 5%. Dobbiamo poi considerare la distribuzione commerciale, e allora triplichiamo, e siamo al 16%. Manca ancora una quota, quella legata alla ristorazione, al turismo eno-gastronomico e culturale e al paesaggio. In questo modo possiamo arrivare intorno al 20%, vale a dire un quinto del Pil, che non è poco.
Perché il Pil agroalimentare è così importante?
Perché è la parte del prodotto interno lordo che è più legata al territorio, quella che in tempi di globalizzazione è più difficile copiare e replicare altrove. Insomma, si tratta del pezzo di economia – pensiamo alla mozzarella di bufala, ai grandi vini campani, al San Marzano e agli agrumi della Penisola e della Costiera – che, se sei bravo, nessuno può portarti via. È una parte importante del tuo brand, della tua capacità di imporre la tua cultura, il tuo stile di vita, di quello che il politologo americano Nye ha chiamato “soft power”. Per una regione come la Campania, seconda solo alla Toscana per numero di visitatori dei musei, si tratta di una risorsa importante. Nella Piana del Sele noi già assistiamo a questa integrazione tra agroalimentare, cultura e turismo, per merito di imprenditori e amministratori che hanno intuito queste possibilità e ci hanno creduto. È un modello da comprendere, e da riproporre. Certo poi, a mettere insieme il restante 80% del Pil della regione devono pensare l’industria, le manifatture e i servizi. Chi propone un futuro per il Mezzogiorno fatto solo di agricoltura e turismo, sta raccontando fesserie. Ma c’è dell’altro…
A cosa si riferisce?
Gli agricoltori sono relativamente pochi, solo il 6% circa degli occupati, ma fanno un lavoro importante: tengono in ordine il 90% del territorio regionale, che non è fatto di città ma di coltivi, pascoli e boschi. Sono loro che provvedono ogni giorno alla cura del paesaggio, e alla prima difesa dei suoli. Tutto questo ha un nome, si chiama “multifunzionalità”, ma nessuno paga gli agricoltori per il loro lavoro, gli aiuti comunitari servono anche a questo.
Quale politica occorre allora per realizzare queste cose?
La domanda va declinata al plurale, perché non esiste un’agricoltura della Campania: abbiamo ormai una molteplicità di territori – pensiamo alla Piana del Sele, al Cilento, la pianura campana, la Valle Telesina, le terre del Garigliano e del Roccamofina, gli altopiani del Fortore – ciascuno dei quali ha un suo sistema produttivo, le sue filiere, i suoi prodotti di qualità. Ciascuno ha le sue esigenze, e non basta una politica sola. Anche qui dobbiamo tornare a Rossi-Doria e al suo slogan “a realtà diverse politiche diverse”. Anche il nostro modo di usare i fondi comunitari deve cambiare profondamente.
In che senso?
Ci è mancata una strategia. Abbiamo pensato che i regolamenti comunitari ci fornissero loro una strategia, e invece sono solo la cassetta degli attrezzi per fabbricarcene una, che sia solo nostra. Li abbiamo recepiti troppo passivamente, in maniera poco selettiva. È venuto il momento di capire prima chi siamo e di cosa abbiamo bisogno, e poi usare gli attrezzi che veramente servono, nel posto giusto. Ci serve un po’ più di consapevolezza, e di personalità.
È un programma estremamente impegnativo.
L’importante è iniziare, decidere quale agricoltura immaginiamo tra vent’anni: se veramente desideriamo un tessuto di aziende più grandi e solide, accostandoci alla media europea; agricoltori più giovani e preparati; un sistema di ricerca e assistenza tecnica che promuova innovazione e renda i nostri prodotti più competitivi sul mercato globale. Un territorio e un paesaggio finalmente più curato e ordinato. Su tutte queste cose dobbiamo assegnarci un programma, e lavorarci con pazienza, senza cambiare direzione ogni volta. I cavalli dal fiato lungo di Rossi-Doria servono ancora». (antonio di gennaro)
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