I decreti tagliafondi del ministro Gelmini riportano in piazza migliaia di studenti universitari e medi, e alcuni dei loro professori. Un movimento composto, che non vuole cambiare il mondo ma si impegna a difendere la scuola come spazio pubblico
La mattina del 28 ottobre scendo verso le dieci diretto a Mezzocannone, intenzionato a capire chi sono gli studenti che protestano contro il decreto Gelmini. Attraversando piazzetta Nilo comincio a sentire i cori dei piccoli cortei che distinguo in lontananza. La maggior parte dei ragazzi si concentra nella parte alta di Mezzocannone per attuare un blocco e avere la possibilità di svolgere le lezioni all’aperto lungo la tortuosa discesa delle università. A piazza San Domenico si svolgono le lezioni di lingua dell’Orientale. Passando accanto a uno di questi piccoli raggruppamenti non mi stupisco di ascoltare la parola “universo”: è in corso la lezione di filosofia morale.
Incontro alcuni studenti di archeologia. Aspettano la professoressa per una lezione itinerante sui resti di età romana nel centro storico. Sembrano allegri, in particolare Daniele sorride mentre parla, anche quando mi racconta delle future difficoltà lavorative: «Siamo laureati con la triennale e adesso stiamo preparando il piano per la specialistica. Il nuovo ordinamento prevede anche questo ed è una boiata assurda. Ormai non siamo né carne, né pesce, andiamo all’esaurimento. Tanto alla fine dovremo lavorare per il privato, sono ventisei anni che non esce un concorso pubblico. E in ogni caso richiedono anni e anni di specializzazione. Una laurea in medicina è più breve». Le compagne di Daniele ci interrompono: «La professoressa è arrivata. Invece di bloccare una strada, ha scelto di girare per la città».
Subito dopo mi dirigo all’Orientale. Palazzo Corigliano è occupato, gli studenti di lingue sono stati i primi a usare le maniere forti. Nel cortile ci sono ragazzi che chiacchierano, un cartellone all’entrata permette di registrare con il pennarello tutte le proposte di iniziative. La kefiah e qualche strana acconciatura sono gli elementi che risaltano. Un professore dialoga commentando i metodi di protesta. Di fronte alle macchinette del caffé tre ragazzi scherzano. Mi avvicino chiedendo di parlare della protesta, mi rispondono di essere le persone meno adatte. Le due ragazze si fanno da parte, mentre il ragazzo dai modi garbati mi dice il perché di questa difficoltà: «Io sono contrario alla protesta, occupare non è giusto. Anzi, togliere un servizio non è una soluzione. Bisognerebbe organizzarsi con dei rappresentanti forti che vadano a Roma. Il decreto andrebbe semplicemente modificato, ci sono cose giuste e altre sbagliate. C’è una sovrabbondanza di professori, il venti per cento di turnover va bene. Poi se le università vogliono trasformarsi in fondazioni private non capisco perché non possano farlo. Privatizzare con la salvaguardia dello stato va bene. Ho tentato di spiegare queste cose durante la lezione, ma non ho potuto, non oso immaginare se lo faccio in assemblea. Io vengo da Vairano Scalo, quasi in Molise. Sono al secondo anno, studio inglese e giapponese, e devo dire che i professori sono ottimi. Con questa laurea magari potrò insegnare, oppure lavorare al consolato, fare il giornalista o lavorare in una casa editrice…».
Nel cortile ci sono tre ragazze. Mi avvicino, convinto di sentire qualche voce a favore. Imma e Carmen vengono da Pianura e Benevento, frequentano la facoltà di studi arabo-islamici, studiano arabo e berbero. Hanno appena finito un esame con 29 o 30, «stamm’ là». Sembrano disinteressate e tranquille. Quando chiedo il perché di questa passione per lingue particolari, Imma risponde: «Io da piccola invece di guardare Holly e Benji, mi divertivo a guardare i film e i documentari sulle piramidi e sugli egiziani». Carmen è più grande e ha cominciato tardi a studiare: «Ora lavoro e studio. La sera faccio la cameriera in un bar, così durante il giorno posso seguire i corsi e studiare. Devo pagare le tasse… Ho dovuto fare un cambio di residenza per risparmiare. Se fossi rimasta a casa dei miei genitori avrei dovuto pagare mille e quattrocento euro… Secondo me l’università non è pubblica, dovrebbero pagare tutti la stessa cifra. Qui si parla tanto, ma per me l’università è già privata». Mi spiegano che il corso di berbero non è molto seguito, ma non è vero che ci sono solo due iscritti «come hanno detto a Matrix». Gli alunni sono almeno una trentina. Loro non stanno occupando, sono più interessate a seguire e fare esami in questo momento. Quando chiedo com’è l’Orientale mi dicono: «È organizzata… insomma, organizzata non proprio. Ha un’ottima biblioteca e i professori sono molto umani, ma la burocrazia è un disastro».
All’uscita da palazzo Corigliano, in piazza San Domenico, incontro Savia, studentessa di architettura. Non vuole parlarmi, ma poi cede. Frequenta il vecchio corso quinquennale, non il tre più due. È al quinto anno, si dovrebbe laureare tra due anni, «perché tanto ad architettura si è sempre fuori corso». Quando parliamo della protesta e del decreto, sembra ossessionata dal futuro: «Temo per mio figlio – dice –, se dovessi averne uno. Vorrei che avesse le stesse possibilità che ho avuto io. Sono stata abbastanza fortunata, non ho avuto problemi a iscrivermi e a pagare le tasse, temo che mio figlio non potrà farlo. Il nostro dipartimento riceve milleseicento euro per andare avanti. Ma il problema non è solo di quantità, ma anche di qualità, ci sono un sacco di sprechi. A me piace molto stare all’università. Bisogna interagire con i colleghi e con la città, anche se a volte rischiamo di sembrare quegli architetti un po’ fuori dal mondo con il papillon…».
Ormai saturo di ascoltare umanisti e dintorni, mi dirigo a Mezzocannone 16 per vedere cosa dicono biologi e chimici. Arrivato al secondo piano noto che molti ragazzi sono in cerchio, e con aria poco universitaria si fanno una canna. Cerco di parlare al ragazzo che squaglia, capelli rasati e berretto. Qualcuno però ha avvisato la ragazza del collettivo, che con aria minacciosa viene verso di me. Non si può parlare senza il permesso del collettivo, che in realtà è stato formato il giorno prima. Se si vuole, si può seguire l’assemblea, l’individuo singolo non può parlare. Il ragazzo del berretto prova a ribattere che il collettivo finora non esisteva. Lui vorrebbe parlare, ma la ragazza continua con l’aria minacciosa: «Fai come vuoi, io mica vengo con il manganello e ti scasso la faccia». Argomentazione molto strana, ma a quel punto decido di andare, mentre il ragazzo mi dice: «Magari puoi tornare più tardi».
Provo a scendere verso il Rettifilo, oltrepassando una ventina di ragazzi che seguono la lezione di filologia seduti sul marciapiede. Quelli che incontro mi parlano dell’Itis di Ponticelli: «Sono grandi, alzano cori da stadio… sono passati alla Centrale e hanno creato un casino… adesso sono già andati via… verso piazza Plebiscito». Quando arrivo all’incrocio tra corso Umberto e Mezzocannone stanno sopraggiungendo i disoccupati del Movimento di lotta per il lavoro. Rivolti verso gli studenti scandiscono slogan, applaudono e cercano di coinvolgerli. In realtà solo pochi si fanno trascinare, molti ascoltano una professoressa che parla della vittoria di Berlusconi in Italia: l’inserzione nel vocabolario del termine “tronista” è un chiaro segno dell’avvento della società che vuole lui.
Poco dopo nel cortile di Lettere una studentessa del primo anno di giurisprudenza mi racconta com’è andata l’assemblea del giorno prima al palazzo di vetro di via Marina, quella dei tafferugli con i fascisti di Forza Nuova: «All’inizio eravamo una trentina, poi alla fine delle lezioni sono arrivate più di cento persone. Dopo sono venuti dei tipi che hanno cominciato a distribuire volantini contro la protesta. È stato chiesto di smettere e loro hanno risposto che non stavano facendo niente di male. L’atmosfera si è surriscaldata. A quel punto due ragazzi si sono presi e uno si è tagliato il sopracciglio. Io poi me ne sono andata. La cosa migliore secondo me era fermare l’assemblea e riprenderla in un secondo momento. Quando entra la violenza in una protesta pulita non va bene. Io vengo dal classico e sono all’università da due mesi.
Mi avevano parlato male di giurisprudenza: dicevano che non c’erano posti alle lezioni. Non è vero, io arrivo con mezz’ora di ritardo e trovo sempre il mio posto in terza fila. Certo, per andare ai bagni le ragazze devono mettersi in coda, ma non fa niente, veniamo a filosofia. L’istruzione ormai è di tutti, e questa riforma vuole distruggerla, quindi penso che sia questo a spingere le persone di ceto sociale basso a protestare, per poter così rivoluzionare la loro vita, attraverso lo studio renderla migliore». Il giorno dopo vado all’assemblea di ateneo della Federico II. Ci sono veramente molte persone. L’intero cortile e anche la grande scalinata sono affollati di gente, mentre i leader, o comunque quelli che con più decisione prendono l’iniziativa, incitano attraverso i microfoni a formare un grande corteo che arrivi a piazza Plebiscito. La strada vede nascere continuamente piccoli cortei di studenti medi, tutti molto allegri. Arrivato in piazza vedo una moltitudine raggruppata sotto i colonnati della chiesa di San Francesco di Paola. Ci sono striscioni che indicano la provenienza di licei e università, non manca nessuno all’appello: dagli istituti tecnici della periferia ai licei classici del centro storico, da Ingegneria a Lettere. Molti fotografano, qualcuno più grande mi passa accanto e sorridendo mi dice: «Che bello».
Incuriosito da un gruppetto di studenti in camicie bianco, parlo con uno di loro. Gaia è al quarto anno di chimica e farmacia. Sorride e mi spiega i motivi della sua presenza: «Da noi la ricerca libera è fondamentale. Ora nel nostro dipartimento ci sono ricerche sulla malaria, ma se vengono i privati che importa a loro della malaria nel terzo mondo? Sicuramente ci faranno ricercare sui cosmetici… Qui non si tratta di politica. Io ho votato Berlusconi, eppure sono qui a protestare. Si dovrebbe cambiare qualcosa da noi, io ho studiato a Madrid e lì fanno molta pratica, qui invece si fa solo teoria». Poco dopo il corteo riparte con l’intenzione di dirigersi verso la Stazione Centrale e bloccare i binari, poi invece si disperde e ognuno torna alle proprie facoltà.
Gaia mi ha ricordato degli studenti stranieri, e quindi cerco qualche Erasmus che mi racconti con occhi diversi quello che sta accadendo. Michael viene da Graz, in Austria. Deve restare un anno a Napoli ed è arrivato da un mese. Abita a piazza Mercato, suona, frequenta i corsi di matematica e fisica. Quando gli chiedo della protesta mi parla di quello che accade in Austria: «Da noi è passata una riforma universitaria molto impopolare: per frequentare bisogna pagare trecentosettantotto euro a semestre, tutti quanti la stessa cifra. Ma la protesta si è mossa solo con alleanze tra studenti e partiti, è impensabile che si scenda in strada da soli e autonomamente. Da noi diciamo che è una protesta di dibattito». Non ha una bella idea dell’università napoletana, non solo la difficoltà di arrivare a Monte Sant’Angelo, ma anche l’assenza di regole precise, la mancanza di comunicazione telematica e altro ancora. Quando gli chiedo perché studiare a Napoli, mi risponde: «Solo per imparare l’italiano, perché con gli studi in Austria ci metto la metà del tempo». (bernardo de luca)
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