Sotto alla Tour Eiffel, una piccola folla attende con pazienza e molto decoro di entrare nella zona del Champ de Mars riservata ai festeggiamenti della campagna di Emmanuel Macron. Non dovevamo essere qui, quindi non abbiamo fatto l’accredito stampa, e mi ritrovo ad aspettare il mio turno attorniato da un gruppo di giovani borghesi parigini, tra i venticinque e i trenta anni.
I giornali diranno che c’erano circa duemila sostenitori, poca roba; e altrettanti giornalisti del mondo intero. Siccome questi ultimi trasmettono quasi tutti in live con zaini, chiavette e quant’altro, non c’è segnale manco fossimo a un concerto degli anni Novanta. I giovani macronisti intorno a me, dunque, non hanno accesso a internet, e intanto sono già le 20 e sono usciti i risultati: ha vinto Macron, 58 a 42, Le Pen non andrà all’Eliseo. Grazie a dio.
Per qualche strana ragione io ho il segnale, allora mi chiedono ragguagli, gli dico il risultato che comunque avevano intuito visto il boato della folla. I giovani macronisti sono in estasi, tutto un darsi pacche sulle spalle, sorrisi, e quell’attitudine soddisfatta tipica dei parigini della Parigi bene-rive gauche-scarpe a punta-giovani vecchi, di quelli che sanno che la storia è dalla loro parte e quando non lo è si sbaglia, la storia, non loro.
Uno di questi si è vestito bleu-blanc-rouge: rossa la maglietta, blu i pantaloni, bianche le scarpe, mi fa notare ridendo la sua amica che è stagista a Le Figaro e sta aspettando la sua prima carte de presse. Ancora sull’onda dell’euforia, mi chiedono i risultati precisi, e sorridono a trentadue denti; poi mi chiedono l’astensione: 28%, e il sorriso si fa meno ampio; poi l’astensione di cinque anni fa, 25% (quindi tre punti di differenza), e il sorriso è ormai divenuto un mezzo sorriso, e ammetto che comincio a prenderci gusto.
La sento arrivare, l’ultima domanda, la pregusto come la sigaretta quando esci dal cinema: «Quanto aveva fatto Macron nel 2017 al secondo turno?», chiede quello vestito bleu-blanc-rouge… «66% contro 33%», rispondo. Prendo una pausa scenica, e aggiungo: «All’epoca c’erano dieci milioni di voti di differenza. Oggi solo cinque» Ho piantato la lama, aspetto ancora un istante e la rigiro per bene: «Cinque milioni di voti in cinque anni». «Ah, ouais…», risponde. Sorrido.
Entro nell’evento che sancisce la sconfitta del neofascismo e la vittoria provvisoria dell’autoritarismo neoliberale. Un dj sta mettendo dell’orribile musica dance che sembra una brutta riedizione della programmazione mattutina di Mtv del 2000. Alcuni reporter, in attesa del collegamento, accennano passi di danza. La Tour Eiffel domina lo scenario.
Dieci minuti dopo le 20, Marine Le Pen sale sul palco e io la seguo su Twitter. Per la prima volta, il suo partito, fondato dal padre, paracadutista torturatore della casbah, amico e compagno di strada di ex-membri delle Waffen-SS, ecco, quel partito lì, corrotto fino al midollo, omofobo e razzista, eterno rifugio di gruppetti neofascisti, alfiere dell’islamo-fobia come ethos nazionale, ecco, proprio quel partito lì, per la prima volta ha superato la soglia del 40% dei voti. «Un risultato eclatante – dice la Le Pen –, le nostre idee sono in cima» alla coscienza nazionale, declama.
Ma qui si festeggia. «E uno, e due, e cinque anni di più», gridano a comando i macronisti mentre sventolano le bandierine francesi. Lui, poi, arriva con a fianco Brigitte e una torma di bambini intorno – “Macron accompagnato da un gruppo di persone che avrà la pensione a ottanta anni”, dirà qualche maligno su Twitter, in riferimento alla riforma che il presidente vorrebbe approvare di qui a breve – mentre suona la nona sinfonia di Beethoven.
Lo vedo da lontano e penso al pomeriggio, quando l’ho visto da vicino. Ero a Le Touquet, che in realtà il nome completo è Le Touquet-Paris Plage, che è un po’ Milano Marittima un po’ Portofino. È il posto dove votano i Macron, perché c’hanno una villa lì, l’asfalto è marroncino, tutto è pulito e i turisti vanno in giro coi mocassini e le camicie bianche di lino, nei bar si bevono bibitoni detox e il seggio elettorale – giuro – è in un gigantesco club di tennis.
Ci eravamo appostati in mezzo al pubblico, quindi è venuto vicino, insieme a Brigitte, per fare il bagno di folla. Aveva il gel nei capelli e la prima cosa che ho notato è il trucco: un sacco di trucco, era quasi arancione. Mi sono chiesto quando si era truccato, perché c’era molto sole, e non aveva una goccia di sudore. Me lo sono immaginato in macchina, con una o un make up artist intento a truccargli il viso, e lui che dice: «Qua, un po’ più di fondotinta», per mascherare la fatica di una campagna elettorale noiosa e vuota.
Da lontano il make up eccessivo non si nota. Si vede solo lui, a tratti sorridente, a tratti serio. Promette cose che non ascolto. Penso ai cinque anni che sono passati, cinque anni di una rabbia intensa e diffusa; cinque anni in cui il suo governo non ha smesso neanche per un secondo di rincorrere l’estrema destra, in una gara a chi era più razzista, a chi dava più addosso al woke, all’islamogauchisme; penso alle leggi liberticide contro i musulmani; alla polizia scatenata che fa esplodere occhi e mani; agli agenti che mettono un’intera classe di adolescenti appena pubescenti in ginocchio, con le mani dietro la testa, e uno che dice: «Ecco una classe beneducata», mentre li filma al telefono; al tentativo d’impedire di filmarla, questa polizia razzista; alla riforma delle pensioni contro tutto e tutti; all’abolizione della patrimoniale; al «venitemi a cercare», detto al mondo intero, quando si è saputo che il suo protegé picchiava studenti durante una manifestazione – così, per divertirsi; penso a Gérald Darmanin, ministro degli interni voluto da Macron, d’estrema destra, accusato di stupro, che imbarazza Le Pen in tv dicendole che non è abbastanza dura, è troppo molle, loro sono più cazzuti quando si tratta di razzismo e polizia. Penso al ruissellement, il grande credo economico di Macron, per cui se dai i soldi ai ricchi, poi tutta l’economia ne giova, e quindi tutti quanti, e penso all’Arco di trionfo a fuoco a Parigi a novembre durante i gilets jaunes.
Penso a tutto questo. Ascolto la musica, pessima. Penso alle percentuali. Ricordo che ho sempre odiato le trasmissioni di musica dance di Mtv. Penso a una torma di giornalisti, venuti dal mondo intero, e una piccola folla di borghesi confinati nella rive gauche, soddisfatti, pasciuti, che danzano male, su della musica brutta, sull’orlo del baratro. (filippo ortona)
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