Sbaglia chi crede che le rivolte di queste settimane in Catalogna siano solo proteste contro l’arresto del rapper Pablo Hasél. La sua condanna a due anni e mezzo per “vilipendio alla corona” è di certo una violazione della libertà d’espressione, e ben vengano le iniziative di sostegno al rapper anche in Italia. I tweet e le parole delle canzoni per cui è incriminato, tra cui los borbones son unos ladrones, “i Borboni sono dei ladri” (qui in una versione solidale), esprimono un pensiero condiviso da una parte rilevante della popolazione, soprattutto dopo la fuga del re Juan Carlos ad Abu Dhabi e l’apertura di una causa sui suoi conti svizzeri. Che i Borboni siano dei ladri è un’ovvietà – il re aveva cercato di regolarizzare la sua evasione fiscale prima con seicentomila euro, poi con quattro milioni –, ed è già stata sostenuta da deputati e ministri
FINCHE’ NON CADONO
“Chi fa circolare l’idea che le proteste si debbano solamente al sequestro di Hasél o è un malintenzionato o è un cretino”, scrive Ruyman Rodríguez, membro di uno dei sindacati anarchici per la casa più attivi dello stato spagnolo, quello delle Canarie. “La gente non ne può più di essere sfrattata, impoverita, perseguitata, minacciata, arrestata, giudicata, rinchiusa, torturata, manganellata, zittita e imbavagliata”. Dieci giorni di proteste sembrano tanti per l’arresto di una persona, ma non sono niente per – elenca Rodríguez – oltre settemila sfratti in tre mesi, tredicimila migranti che sopravvivono negli accampamenti della vergogna, ottocentomila nuovi poveri dopo la stessa pandemia che ha fatto guadagnare ventisei miliardi ai più ricchi, continui processi per vilipendio ai simboli della monarchia, condanne per elogio del terrorismo quattro volte più numerose di quando c’era l’Eta. Ridurre tutto questo alla goccia che fa traboccare il vaso è come sostenere che i gilet gialli protestassero per la tassa sul carburante, o che il Cile sia insorto per i trenta pesos del biglietto della metro; o che quest’estate milioni di persone abbiano fatto tremare le città statunitensi per la morte di George Floyd, e non per gli altri novecentonovantotto omicidi della polizia nel 2020.
La sera stessa dell’arresto del rapper ci sono state mobilitazioni in settanta città di tutta la Catalogna, molte delle quali terminate con l’attacco sistematico a veicoli della polizia, sedi di banche e corporazioni, grandi negozi di abbigliamento di lusso. Le proteste si sono intensificate di giorno in giorno, nonostante la repressione dei Mossos d’Esquadra: cento e quarantacinque persone sono state arrestate, una ragazza di diciannove anni ha perso un occhio, colpita da un proiettile di gomma. A Barcellona l’ultimo corteo, la dodicesima sera consecutiva di proteste, ha visto sfilare almeno cinquemila persone di età e settori sociali e politici molto diversi. Le bandiere indipendentiste convivono con i cori per la liberazione dei prigionieri politici, con gli slogan anticapitalisti e con le scritte sui muri contro gli sfratti. La locandina che convocava la manifestazione diceva: “Senza futuro non abbiamo nulla da perdere”. Nessun logo, solo l’hashtag, #Finsquecaiguin: “Finché non cadono”. Un’altra locandina lo spiega più chiaramente: “Creare potere popolare. Amnistia totale. Scioglimento della polizia antisommossa. Autodeterminazione. Pane casa e lavoro”.
Sono finiti i single issue campaigns, le campagne separate su singoli temi – territorio, migrazioni, sfratti, repressione, indipendenza –, tutte le lotte di questi anni sono confluite in una sola mobilitazione, a cui partecipano settori di movimento e di popolazione tradizionalmente separati. Le stesse locandine sono diffuse da sindacati libertari come Cnt e Cgt, organizzazioni indipendentiste come Arran, Cup e gioventù di Erc, gruppi comunisti come Endavant, anarchici come Heura Negra, movimenti per la casa come la Pah o i Sindicats de Llogateres, centri culturali come l’Ateneu de Nou Barris, reti di solidarietà con il Rojava, nonché i Comités de defensa de la Repùblica che erano nell’occhio del ciclone fino al 2019. La chiamata era così trasversale che ha aderito addirittura la sezione catalana di Podemos, dimenticando di avere in mano il Comune e la vicepresidenza del governo. “Non vi siete accorti che la manifestazione era anche contro di voi?”, hanno fatto notare in tanti. La sindaca Ada Colau, dal canto suo, già aveva condannato le cosiddette “violenze” – cioè i cassonetti bruciati dai manifestanti. Ha commentato l’antropologo Manue
Quattro anni dopo la repressione al referendum per l’indipendenza del 2017, un anno e mezzo dopo le proteste del 2019 contro la condanna ai leader indipendentisti, dopo un’escalation di sfratti, corruzione e manipolazione mediatica che la pandemia ha reso ancora più intollerabile, un’intera generazione è cresciuta nella rabbia contro le istituzioni e le forze dell’ordine. Molti ragazzi hanno visto manganellare i loro genitori o nonni per aver votato il primo ottobre, o accusare di apologia del terrorismo qualcuno per aver condiviso un post; molte hanno partecipato ai picchetti antisfratto nei loro quartieri e subito le cariche dei Mossos. Una ragazza, sull’emittente catalana TV3: «Non si bruciano cassonetti a caso, non si rompono le vetrine a caso: tutto questo si fa perché i giovani sono morti di rabbia. Una rabbia che nasce dalla miseria che avete seminato. Di fronte a questo futuro pieno di miseria, non abbiamo più niente da perdere». Un ragazzo: «Vogliamo trasformare tutta questa rabbia in organizzazione. Non è solo Pablo Hasél. È per la libertà di tutti i prigionieri e le prigioniere politiche. È per lottare contro questa monarchia erede del franchismo. Per iniziare a discutere e organizzarci, perché vogliamo un altro futuro».
Mai prima d’ora in Catalogna la situazione era stata così fuori dal controllo istituzionale. Nonostante tutti i tentativi di criminalizzare l’indipendentismo, alle recenti elezioni regionali oltre la metà dei votanti ha espresso sostegno ai diversi partiti indipendentisti. Non è casuale che l’arresto di Hasél sia avvenuto subito dopo questo risultato elettorale: come spiega Marta Sibina in questo video, l’obiettivo della Confindustria catalana (Foment del Treball), delle grandi banche e dei loro rappresentanti politici (Pp e Psoe-Psc) è di impedire a tutti i costi che la maggioranza uscita dalle urne costruisca un governo indipendentista. Dopo aver chiesto a Esquerra Repúblicana di formare un governo con Comuns e Psc (come dire, il prigioniero e il suo piantone!), Foment, banche e Psc hanno deciso di boicottare la formazione di qualunque governo. Incarcerando Hasél, provocando gli scontri e usando il mantra del “bisogna condannare la violenza”, l’oligarchia economica e politica spagnola cerca di escludere gli anticapitalisti della Cup dal governo, forse addirittura di renderli illegali (come a suo tempo avevano fatto con il partito basco Herri Batasuna). A questo fine, è fondamentale il ruolo che ha svolto la polizia catalana.
SINDROME DI SHERWOOD
Alcune strutture del movimento di base catalano lavorano da anni per monitorare la repressione. Il giornale cooperativo La Directa, il collettivo Alerta Solidaria, il centro studi Iridia, hanno già sventato piani di infiltrazione delle forze di sicurezza nei collettivi politici e denunciato casi di corruzione della polizia municipale o autonomic
Così fin dal terzo giorno di proteste la polizia ha impiegato una strategia di attacco militare più che di contenzione civile. Mentre la manifestazione scendeva per via Laietana, i Mossos hanno caricato improvvisamente la testa del corteo, manganellando e lanciando i furgoni a tutta velocità contro la gente. Circa duemila persone sono state costrette a disperdersi per le vie laterali, o a indietreggiare verso passeig de Gràcia. A quel punto, alcuni gruppi di manifestanti sono stati lasciati indisturbati a rompere le vetrine dei negozi di lusso; altri hanno attaccato la sede della Borsa de Barcelona; mentre degli sconosciuti hanno tirato pietre contro lo storico (e borghese) Palau de la Música Catalana. La polizia non è intervenuta, offrendo ai media la possibilità di raccogliere immagini di “caos e barbarie” (qui una riflessione di Victor Serri sui fotoreporter freelance in cerca di fiamme). A quel punto sono arrivate nuove cariche che hanno spinto i manifestanti su per il quartiere Gràcia, finché un gruppo di duecento persone si è ritrovato preso in trappola in una stradina tra due cordoni di antisommossa. Dopo aver fatto passare ai manifestanti una mezz’ora claustrofobica, gli agenti li hanno schiacciati come un sandwich, scatenando un inferno di manganellate e proiettili di gomma. L’obiettivo non era evitare i danni (che è la ragione per cui la polizia è armata), bensì terrorizzare. Dopo una decina di minuti, ai manifestanti è stata lasciata una via d’uscita, ma costringendoli a passare uno a uno sotto la pioggia di manganelli, come nelle rappresaglie in carcere. Come a Genova 2001.
Il giorno successivo il comando della polizia catalana lo definirà un “errore tattico”. Ma non è stato un errore: la brigata mobile dei Mossos, la famigerata Brimo, è una delle più addestrate d’Europa e può vantare tra i suoi trainer anche elementi del Mossad (non stupisce che la Cup stia ponendo come condizione per entrare al governo la riforma di questo corpo e la sua esclusione dalla gestione dei picchetti antisfratto). In linea con il progetto di condizionare la formazione del governo, il principale sindacato degli agenti catalani, lo Sme, ha dichiarato che se la Generalitat non avesse preso provvedimenti per fermare le proteste, il corpo di polizia sarebbe diventato “ingovernabile”. Questa sinistra dichiarazione di autonomia da parte del gruppo di persone a cui la società ha affidato il monopolio della violenza, ha provocato un’inquietante reazione istituzionale di sostegno alla polizia, cui ha preso parte anche la “sindaca ribelle”. Forti del sostegno istituzionale, i Mossos hanno aumentato la repressione. Vari locali e case private intorno a Barcellona sono state perquisite, naturalmente senza trovare nulla di sospetto; ma alcuni fermati sono stati accusati di tentato omicidio per l’incendio di un furgone della polizia; altri sono stati accusati di terrorismo, tra di loro anche sei anarchici italiani; l’attacco al movimento anarchico si è esteso ad altre regioni (nelle Canarie è stato messo sotto processo anche Ruyman Rodríguez, citato sopra). I vertici della polizia sanno bene che non c’è niente di vero in queste accuse – l’ultimo tentativo di creare un caso di terrorismo contro i Comités de defensa de la Repùblica è finito con un’assoluzione completa e addirittura un’ammonizione della giudice alla polizia – ma l’obiettivo è spaventare e aumentare la pressione, perché le autorità politiche si subordinino alle loro richieste.
Particolarmente ridicolo è poi l’ennesimo attacco all’“anarchismo italiano” che avrebbe fomentato gli scontri. Paradossalmente, la caccia agli anarchici scatenata in questi giorni coincide con l’anniversario dell’omicidio dell’anarchico catalano Salvador Puig Antich, l’ultimo crimine del franchismo. Gli echi della dittatura militare non abbandonano mai questo paese, ed è difficile immaginare la fine di questa escalation, che è la reazione di uno stato imperialista a una mobilitazione popolare, trasversale e radicale. Se vogliamo mostrare solidarietà a queste lotte, o ancora meglio lasciarci contagiare, non fissiamoci sulla questione di Hasél, e neanche sull’indipendenza. Questi single issues sono solo scuse per combattere l’oligarchia, la corruzione e lo sfruttamento, che non esistono certo solo nello stato spagnolo. Come dicono in Val di Susa, bisogna creare una valle in ogni città. Cerchiamo di capire quali sono gli elementi che ce lo impediscono. La prossima Catalogna potrebbe essere qui. (stefano portelli)
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