La prima cosa che colpisce, quando ci si trova di fronte a un lavoro antologico, è il coraggio dell’autore. Sono enormi le responsabilità nella costruzione di un “florilegium” quale, di fatto, è Galleon, primo lp da produttore di Dj Uncino dopo vent’anni e passa di attività. Chi scegliere, chi escludere, come amalgamare stili e sensibilità? Non solo, in un lavoro come questo, assemblato da un beatmaker che non compare al microfono ma ospita voci differenti, come fronteggiare la diversità di artisti che provengono da percorsi in molto casi persino contrastanti? Pensiamo alle differenze fra Zulù e Skarraphone. Eppure Galleon funziona proprio nel suo essere non un contenitore ma una barcaccia di pirati, che provengono da isole, crimini e taverne diverse, accomunati solo dalla voglia di assaltare, in questo caso non a colpi di spingarda, ma di microfono.
Il collante che tiene insieme questa banda di fuorilegge è, innanzitutto, il capitano. È l’universo musicale l’elemento che funge da tolda sulla quale si muovono gli stivali dei filibustieri, un racconto tenuto insieme da una “chiattezza” come elemento di coerenza. La consistenza corposa delle basi che straripano, uscendo fuori dall’ordinario come da una cintura troppo stretta. Sono questi beat dai fianchi larghi, danzerecci, solidi nella densità dei bassi e nel toccare territori mai religiosamente “di scuola”, a costituire il vero elemento portante dell’album, come è giusto che sia considerando che – al di là delle numerose presenze del rap campano – è Uncino il capitano del Galeone. Dj passato attraverso la storia dell’hip hop campano scritta dalle jam, e dentro esperienze artistiche eterogenee (da Alpha Gang a Ganjafarm, fino a Sangue Mostro), Uncino predilige scorribande attraverso stili e sapori musicali differenti, come è facile intuire ascoltando una delle sue selezioni in giro per la penisola. Proprio questa predilezione per le ambientazioni non direttamente riconducibili a una chiesa dell’hip hop finisce per costituire una ricchezza in un lavoro multiforme come questo.
L’altro elemento chiave è ovviamente il microfono, l’arte della parola in metrica che si è allargata come un olio in Campania a partire dai primi nuclei di pionieri. È un’arte che solo per limiti culturali viene inserita dentro lo stretto contenitore del prodotto musicale, e che invece andrebbe riletta in quell’ampio panorama che abbatte le distinzioni – utili solo all’industria – fra “prodotto musicale” e “prodotto letterario”. E che andrebbe collocata in un filone, multiforme ma dall’humus comune, che a Napoli tiene insieme l’esperienza della canzone classica napoletana, la rivolta poetica e musicale cominciata negli anni Settanta in città e l’esperienza ormai trentennale del rap campano. In attesa che questo concetto venga digerito, e mentre l’Italia dei “letterati” ancora si impressiona per il Nobel a Dylan, ci pensa la stessa scena hip hop a lavorare su antologie come questa, che danno un quadro complessivo di quello che succede, illustrando le potenzialità e anche i limiti dell’arte della “parola sul ritmo”, per dirla con Avitabile.
Un lavoro come Galleon finisce per avere il grande merito, oltre a far muovere il culo grazie alla sua verve musicale, di aprire lo sguardo su un panorama di poeti del beat di grande varietà. Uno scenario ricco in cui si impongono la tecnica e il coraggio di sperimentare territori metrici complicati di Mc come Priò e la raffinatezza di Lucariello (nella traccia Lengua, in cui insieme a Ciccio Merolla conferma la ristrettezza delle distinzioni tra generi, scrivendo l’ennesimo capitolo della sua ricca vicenda artistica). Un disco da ascoltare con attenzione viaggiando fra universi espressivi differenti, dalla conferma di Sangue Mostro al remix di Strano e straniero dei 99 Posse, fino alla scorza coriacea dei versi di Dope One o la freschezza di Altrimenti ci arrabbiamo di Skarraphone e Uomodisu con Kiaman: un’ultima traccia che è impossibile ascoltare senza ridere di gusto, il che non può che essere assolutamente salutare. (antonio bove)
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