Esiste la luce nel buio è un libro scritto da Paola Aceti, pubblicato da Kimerik nel 2020. Nel volume Paola racconta la sua esperienza di tossicodipendente, partendo da un’analisi introspettiva sulla sua adolescenza, dal rapporto tra genitori e figli, dalla durezza dell’educazione ricevuta e da una serie di traumi che poi sono ricomparsi nel difficile rapporto con il suo ex compagno, e nelle difficoltà e le contraddizioni dei percorsi che ha effettuato all’interno delle comunità di recupero.
Dal libro il tema della tossicodipendenza emerge in tutta la sua dirompenza come fragilità e malattia, una malattia che non trova cura ma punizione, tramite la detenzione. Quella che segue è una intervista in cui Paola ci ha raccontato la sua storia, e per la quale la ringraziamo.
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Ho iniziato a scrivere la mia storia nel 2020, durante il periodo di lockdown da Coronavirus perché mi sono trovata a rivivere sensazioni simili a quelle che avevo vissuto anni indietro durante il mio obbligo di dimora. Avevo commesso un reato, l’ho scontato prima dietro le sbarre, nel carcere di Rebibbia, per un periodo di tempo agli arresti domiciliari, e infine mi hanno dato l’obbligo di dimora. Nel 2020, quando ho rivissuto questa sensazione di chiusura, ho pensato che era il momento opportuno per ripercorrere la mia vita.
Spero che chi legga il libro possa percepire la sofferenza ma anche la speranza. Personalmente ho avuto problemi molto seri fin dall’adolescenza, un rapporto molto brutto con mio padre. Ero una ragazza fragile e sensibile, troppo debole, impaurita dal mondo. Se da un lato è ricco di messaggi positivi, il libro prova anche a spiegare ai lettori cosa significa l’annientamento, fisico e psicologico.
Negli anni della mia gioventù la droga mi ha distrutto. All’inizio sembrava mi alleviasse la sofferenza, ma naturalmente era solo un’illusione. Quando cominci e non riesci a controllarla, quasi sempre finisci in carcere. Esci dal carcere e dovrebbero aiutarti, ma la presa in carico da parte dei servizi sociali, quando avviene, è inefficace. Dovrebbero seguirti, supportarti nell’inserimento lavorativo, metterti in contatto con persone sensibili alla tematica disposte ad assumere degli ex tossicodipendenti, soprattutto per aiutarli a non cadere ancora. Ma tutto questo non avviene.
Serve il coraggio a livello individuale, i cambiamenti li percepisci solo quando ti rendi conto di aver acquisito quel coraggio necessario per affrontare la situazione, una forza che prima ti mancava. Devi conoscere i tuoi disagi, le sfide che dovrai superare, e devi concentrarti su te stessa. Se ti guardi intorno, ti metti a guardare come vengono curati gli altri, è difficilissimo. Certo il confronto è utile, è importante provare a condividere, sia cose materiali come i pacchi, le sigarette, ma anche cose immateriali. Ecco, la condivisione con le altre detenute è qualcosa che può aiutarti, ma per il resto sei solo, nessuno ti aiuta lì dentro.
Quando sono entrata a Rebibbia ero impaurita, debole, dovevo giocoforza affrontare quel contesto, anche la relazione con il carcere, con le detenute, ma tutto questo mi ha fatto trovare il coraggio sepolto. Quando si entra in carcere, se sei tossicodipendente, ti mandano direttamente in infermeria, ti chiedono che sostanza usi. Trattandosi di eroina e cocaina, nel mio caso, mi hanno subito dato il metadone. Non c’è un percorso caso per caso, danno a tutti le stesse cose, i medici e gli infermieri sono troppo pochi, non ci sono psicologi, assistenti sociali, non esiste devozione, solidarietà, desiderio di aiutare il detenuto. Contemporaneamente ti danno tranquillanti, farmaci di vario genere che l’infermiere porta nei camerotti e distribuisce a tutti, dicendogli che quelle pasticche li ti faranno stare bene. Io sono riuscita a non prenderle, e questo mi ha aiutato a iniziare il mio percorso. Ma nella maggioranza dei casi – considera che tu naturalmente quando entri stai male – qualsiasi cosa ti danno per te va bene. Tutto è meglio di come stai. E se non capisci da sola come venirne fuori nessuno ti aiuta.
Come sottolinea il Libro bianco sulle droghe del 2023, sono tantissimi i detenuti presenti nelle carceri italiane per aver violato l’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti. Nell’attribuzione delle condanne, è quasi inesistente il tema della vendita delle sostanze finalizzata a procurarsi le risorse per il proprio consumo personale.
Il 34% dei detenuti totali è in carcere in Italia per reati legati alle sostanze stupefacenti (quasi il doppio della media europea). Oltre un quarto di questi entra in carcere per la sola detenzione di sostanze. Sempre secondo i dati raccolti dal Libro bianco, il 40,7 per cento di chi entra negli istituti usa droghe. È il catastrofico record degli ultimi diciassette anni. (luna casarotti)
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