Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana è un volume collettivo curato da Luca Rossomando e pubblicato dalle edizioni Monitor nell’aprile 2016. Il libro è scritto da sessantotto autori e conta ottantasei interventi tra articoli, saggi, grafici e tabelle. All’interno di ogni sezione ci sono anche interviste e storie di vita. Abbiamo deciso di pubblicarne una parte durante questo mese d’agosto.
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L’ultimo giardino di Melito
«Mio nonno si chiamava Pompilio Esperimento, era stato adottato, non abbiamo mai saputo da dove veniva questo cognome. Mio padre era contadino, abitavamo nel centro storico. Prima Melito era un paesino. All’inizio degli anni Ottanta eravamo diecimila abitanti, ora siamo cinquantamila. Mio padre aveva un sacco di terre, da Melito a Scampia, tutte a frutteto: pesche, cachi, ciliegi. Faceva il vino. Ora ci sono rimasti ottocento metri di terra, ed è l’unico giardino che c’è a Melito. Hanno fatto palazzoni dappertutto. Siamo stati gli unici a non costruirci sopra. È una terra che sta fuori dal centro storico. Mio padre aveva un pagliaio, si rifece una casetta in pietra e ci si trasferì con mia madre, io ero già sposata…
«C’erano napoletani già negli anni Settanta, palazzine alte sei o sette piani, con ascensore; se ne parlava, hanno pure il portiere, si diceva… Venivano solo per dormire, adesso ci restano di più, è diventato più simile ai posti che lasciano, il casino che lasciano lo ritrovano qui, lo portano loro, lo ricostruiscono qui. Prima li conoscevamo tutti, erano operai, piccoli impiegati che venivano a dormire qua solo perché costava meno; alcuni sono rimasti per dieci o quindici anni senza prendere la residenza; sono nati i figli, si sono mantenuti la residenza nel basso che hanno lasciato in città… Dopo il terremoto fecero due insediamenti della 219. In tutto settecentocinquanta alloggi, divisi in due: cinquecento erano per i napoletani e gli altri per i melitesi. Nel cuore del paese, tre chilometri quadrati. Sono posti di spaccio, si sono insediati dei gruppi, perché c’è meno controllo che a Secondigliano, i terremotati si sono dovuti adeguare… Non ci sono i negozi, le infrastrutture non funzionano, solo le scuole, la piscina fu fatta con i fondi della 219, mai consegnata, poi distrutta; ma non sono quartieri isolati, sono integrati urbanisticamente, anche migliori dei parchi venuti dopo, con meno densità abitativa.
«Napoli ha scaricato i suoi problemi abitativi sui paesi limitrofi. A un certo punto sono saltate le regole, con licenze ai limiti della legalità, commistioni tra politica locale e napoletana, la camorra che ha prestato ai costruttori melitesi, grosse cooperative che sono venute a investire con la legge 167, gli elenchi dei soci delle cooperative presi dagli elenchi del telefono, le teste di legno come presidenti, le assemblee fittizie; poi hanno venduto e chi comprava la casa subentrava a un socio che in realtà non era mai esistito… La legge prevedeva l’esproprio, molti contadini non volevano dare le proprie terre, ma sotto la spinta e la paura dell’esproprio hanno venduto. E dove non bastava c’era l’avviso della camorra.
«Mio padre era affittuario e li ha pretesi questi ottocento metri… Il terreno se l’è dovuto comprare, non aveva nemmeno i soldi, l’abbiamo aiutato noi. Gli espropri per fare l’asse mediano e la 167 l’avevano lasciato senza terra. Il camorrista di Melito che lo conosceva da sempre – qui non c’è mai stata la famiglia, si appoggiavano a quella di Giugliano – glielo fece comprare, pure a caro prezzo. Ne comprò milleseicento metri e la metà andarono al camorrista. Erano gli anni Ottanta, i primi compratori erano loro, acquistavano in nome e per conto, poi si faceva l’atto e subentrava la cooperativa o chi per essa, e loro tra il compromesso a mille e la vendita a millecinquecento prendevano la differenza. E facevano pressione su chi resisteva.
«Negli anni Novanta il comune di Napoli ha acquistato case private qui a Melito con i soldi europei. Invece di costruirle le comprò già fatte. Ora possiede un parco di centinaia di appartamenti. Quando Bassolino fece il bando di acquisto, io ero assessore ai lavori pubblici del comune di Melito. Spesso le case non avevano neanche gli allacci primari, si appoggiavano su una rete idrica insufficiente. Andai dall’assessore competente a Napoli e gli dissi: non potete prendere la gente e metterla qui, poi vengono da noi… Era un affare per i costruttori, erano tutte case invendute. Napoli aveva soldi da spendere e c’era bisogno di case, la gente bloccava palazzo San Giacomo ogni giorno. Noi non potevamo far niente, erano privati. Molti di questi palazzi sono sotto sequestro, e occupati. I costruttori volevano che facessimo una variante al piano regolatore per farci sanare queste case. Il prefetto ha tenuto in piedi per anni un tavolo per farci pressione. Addirittura partecipava uno del ministero. Il sindacato diceva che stavamo mandando la gente per strada, i cantieri erano fermi da anni. Il tavolo si è rotto all’improvviso, quando il sindaco Tuccillo ebbe la scorta. Si resero conto che non potevano andare avanti… Erano le case di via Melitiello, che poi non capisco come hanno acquistarle, tutto il gruppo di case era solo cemento armato quando cominciò il tavolo e le imprese portarono le foto per mostrare l’affare che noi piccoli stupidi stavamo bloccando. Ma in quel momento i tempi del condono erano già scaduti. Loro hanno costruito dopo, con sanatorie false, perché i tempi erano scaduti. In quel momento avrei dovuto prendere quelle foto… Si poteva dimostrare che era solo cemento armato, le hanno finite pian piano. Ora non sarebbero sotto sequestro solo pochi palazzi…
«I napoletani li vedo bene ora, mentre i melitesi sono in difficoltà, prima sapevano sempre con chi avevano a che fare, ora capita che in un senso unico gli dici una parola e quello scende e ti vatte, o ti spara. Prima sapevi sempre a chi apparteneva la gente… I melitesi non hanno amato il loro posto. Si sono prestati. Devi costruire mille case? Va bene, te ne faccio costruire millecinquecento, ma trecento vanno a me. Ora non c’è niente, il nostro giardino l’abbiamo messo in vendita. Ci costa tenerlo, non vogliamo costruire. L’unico spazio verde è la villetta comunale. C’è un campo sportivo, la parrocchia fa scuola calcio a pagamento per i ragazzi. Non c’è un tessuto associativo. I partiti sono diventati sezioni elettorali. Il lavoro politico giornaliero non esiste… I vivai potevano essere uno sviluppo possibile. Il vivaista partiva dal seme, costruiva la pianta. Mio padre faceva le piante per i vivaisti. Questo è il primo anno che compro l’abete, mio padre li ha sempre messi lui, li seminava, io li vedevo germogliare, a centinaia, a migliaia; li dava ai vivaisti, ci campavamo. Quando cominciarono gli espropri si specializzò anche lui in piante ornamentali. Lui però partiva sempre dal seme. Era richiesto mio padre perché erano garantite, c’era solo lui che metteva i semi. Alberi ne vendeva mille, millecinquecento a Natale. Poi le mimose, gli abeti e i pitosfori. Ora i vivaisti sono diventati più completi, le impiantano, partecipano a gare d’appalto pubbliche, giardini, ospedali… È lavoro di fatica, duro, lo fanno gli immigrati». (luca rossomando)
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