Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana è un volume collettivo curato da Luca Rossomando e pubblicato dalle edizioni Monitor nell’aprile 2016. Il libro è scritto da sessantotto autori e conta ottantasei interventi tra articoli, saggi, grafici e tabelle. All’interno di ogni sezione ci sono anche interviste e storie di vita. Abbiamo deciso di pubblicarne una parte durante questo mese d’agosto.
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Il triangolo del lavoro
Ponticelli, Barra e San Giovanni, il triangolo industriale napoletano. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, le origini contadine, i confini degli antichi casali, la diversità dei riti e delle usanze si fondono in un’unica identità industriale, un vissuto che accomuna migliaia di persone, un’epopea di lavoro duro e conflitti sociali ma anche di ottimismo, occupazione diffusa e relativo benessere. «Qui c’erano due cose che facevano scuola – racconta Antonio Silvestri, operaio in pensione –, il partito comunista e la chiesa. E poi le strutture orizzontali del sindacato». Silvestri, una vita alla Ignis di via Argine, descrive così quell’atmosfera: «La gente era aperta, disponibile, anteponeva l’impegno pubblico alla famiglia. Accanto alle grandi industrie c’erano le piccole aziende. Quando c’era da sostenere un’occupazione, partivamo subito: sciopero, manifestazione…».
Alla Ignis, ma anche altrove, si mette in discussione l’organizzazione del lavoro. «La catena di montaggio non ti permetteva di migliorare. Entravi cretino e dopo trent’anni cretino eri. Ci battemmo per farci assegnare mansioni meno ripetitive. Per esempio, alle presse invece di premere semplicemente un bottone, se cominciavi a montare lo stampo, poi imparavi a regolarlo; se dovevi fare il collaudo del pezzo finito, poi facevi più attenzione alle sbavature. E alla fine ci siamo riusciti, abbiamo cambiato le fabbriche… Quando siamo partiti, il novanta per cento degli operai avevano il terzo livello, alla fine quasi la metà erano diventati specializzati».
Luciano Guarino, classe ’49, ha lavorato alla Ignis di via Argine per più di quarant’anni. Di famiglia del centro storico, padre ferroviere e madre impiegata alla Manifattura Tabacchi, da ragazzo, ogni estate, faceva l’apprendista in bottega presso un orefice di piazza Carlo III. Poi il trasferimento in una casa Iacp a Cavalleggeri d’Aosta, e un vicino impiegato alla Ignis che gli confida il modo sicuro per farsi assumere: bisogna andare direttamente a Varese, anzi a Comerio, alla sede centrale dell’azienda; ci si mette davanti ai cancelli e si intercettano i dirigenti che passano: il posto è assicurato. In quegli anni il mercato degli elettrodomestici è in piena espansione. Luciano ha il vantaggio di viaggiare gratis per il mestiere del padre: comincia a fare la spola con la Lombardia finché non ottiene il suo obiettivo, appena in tempo per le battaglie sindacali del ’69. «La Ignis è stata una delle prime fabbriche con la commissione interna. C’era un’organizzazione sindacale attiva e numerosa. I neoassunti come me però non scioperavano, altrimenti rischiavamo il licenziamento immediato».
Nello stabilimento di Napoli si fanno tutti i pezzi della lavatrice – motori, contrappesi, cablaggi – e poi si assemblano. Alla catena di montaggio, tra un pezzo e l’altro, c’è ancora il tempo per leggere tre righe dell’Unità o di avvantaggiarsi qualche minuto, accelerando il ritmo, per fumarsi una sigaretta in pace. «C’era meno stress, ma le condizioni di lavoro erano pessime. Alcuni reparti sembravano il Vietnam, si saldava a mano, partivano scintille da tutte le parti, in verniciatura la gente spruzzava a mano, lo stesso in smalteria. Riuscimmo a far venire le ispezioni della medicina del lavoro. L’azienda venne condannata. Alcuni reparti furono smantellati, altri modernizzati».
I reparti sono misti, con tante giovani donne a lavorare. L’azienda le prende minorenni e le adibisce ai collegamenti elettrici. Un lavoro di fino, adatto a mani piccole e svelte. Sua moglie, Guarino la conosce in fabbrica, nel reparto montaggio. Nativa di Tripoli, madre siciliana e padre veronese, tornata in Italia ancora bambina. «Ebbero la casa a Barra, nel rione detto “dei profughi”. Da sposati andammo ad abitare anche noi là, in affitto. Lei si licenziò al secondo figlio. All’epoca si poteva ancora vivere con un solo stipendio». Nel frattempo Luciano è tornato a scuola. In fabbrica c’è un solo turno, dalle sei alle quattordici. Quando esce va direttamente al corso serale dell’Augusto Righi, uno dei primi del genere, dove ritrova operai dell’Italsider e della Sofer di Pozzuoli. Si diploma in elettronica nel ’75. L’azienda fa il suo nome per un posto al controllo qualità. Dalla catena si sposta in laboratorio, a verificare l’efficienza dei pezzi finiti; più tardi passerà in progettazione, diventando uno specialista del ramo elettrico. Lo stesso anno diventa delegato sindacale degli impiegati.
La fabbrica degli anni Settanta è parte integrante di un territorio in fermento, una miriade di fabbriche piccole e grandi dove lavorano migliaia di persone. C’è la zona del pastaio, quella delle concerie, la Snia Viscosa, la Mecfond, l’Ansaldo, c’è il settore chimico-petrolifero e quello del vetro. «Una piccola azienda di grafica – racconta Guarino – venne occupata dagli operai. La sera prima la polizia li fece sgomberare, allora la mattina uscimmo tutti dallo stabilimento e li aiutammo a rioccupare. Ci fu una carica, alcuni arresti e feriti. Tre giorni dopo venne proclamato lo sciopero generale in tutta la zona industriale, una grande manifestazione sul corso San Giovanni…». Negli stessi anni però la fabbrica comincia a cambiare: certi pezzi conviene farli produrre altrove. Via i contrappesi. Via anche la fonderia che faceva le calotte in ghisa. Restano i cablaggi, con i fili che vengono da fuori e si assemblano dentro. Si passa da milleduecento a novecento addetti. Si profila addirittura la chiusura per l’alta conflittualità dello stabilimento. Poi Borghi, il patron di Ignis, venderà agli olandesi della Philips. Negli anni Novanta arriveranno gli americani della Whirpool, con annesse rivoluzioni tecnologiche e riduzioni d’organico. Quando Luciano va in pensione, nel 2009, sono rimasti in settecento. Qualche anno prima, in fabbrica è entrata sua figlia. I due maschi invece, lavorano uno alla progettazione di macchine robotiche in un’azienda di Caserta, e l’altro, da poco laureato in legge, come vigile del fuoco a Salerno. La Whirlpool è diventata una fabbrica di assemblaggio, all’interno restano l’ufficio progettazione e l’ufficio acquisti. Dopo tanti anni, il pensionamento rischia di essere uno shock. Luciano però non smette di frequentare la fabbrica. «La mattina, anche se non arrivavo in orario, mi facevo vedere». E con la scusa di svuotare la stanza, dà una mano ai più giovani. E rende quel passaggio meno traumatico.
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