Il giardinaggio, metafora centrale nel film di Jonathan Glazer, La zona d’interesse, è l’analogia che Zygmunt Bauman utilizza per descrivere la Shoah in Modernità e Olocausto. Lo sterminio metodico e industriale di sei milioni di ebrei, per Bauman, non fu un atto barbarico, di odio cieco e irrazionale. Tutt’altro. Fu un atto di moderna e burocratica efficienza. Non un’aberrazione della civiltà europea, ma una sua espressione. L’ordinata vita domestica della famiglia al centro del film, se non fosse per l’inquietante ubicazione, nulla avrebbe da eccepire. Il quieto vivere del comandante Rudolf Höß e cari alle porte di Auschwitz appare nefando solo allo spettatore, non a loro. Siamo noi ad avvertire il rumore di morte su scala industriale aldilà del muro, loro sembrano non sentirlo. Sovvertendo lo stereotipo cinematografico del nazista sadico e psicotico, Glazer ne fornisce un’immagine tragicamente più accurata in termini storici. Il comandante Höß, al netto della legnosità protestante, è un affettuoso padre di famiglia, un marito puritanamente attento e rispettoso persino nei confronti dei suoi sottoposti. Professionista puntuale, ligio portavoce dell’atroce motto all’ombra del quale vive: “il lavoro rende liberi”. Questo è Rudolf Höß, nel film e nella Storia. Lontano anni luce dalle rappresentazioni hollywoodiane e neorealistiche del gerarca nazista indemoniato, o effemminato e crudele come lo raffigurò Rossellini in Roma città aperta. L’indifferenza nei confronti di quello che succede aldilà del muro più che una presunta insensibilità morale è propria del perseguimento burocratico dell’efficienza dove ognuno svolge un compito alienato dal contesto, spesso ignaro delle sue conseguenze. Quello che lo spettatore potrebbe percepire come mostruoso cinismo, tale non è. Bauman fa infatti notare come la soluzione finale fu possibile non tanto (e non solo) a causa dell’odio antisemita, ma grazie alla sua attuazione scientifico-burocratica, alla sua modernità. Nella Germania nazista vi fu un solo pogrom, il kristallnacht. Fu l’obbedienza zelante all’ordine gerarchico e aziendalista di una società democratica, cristiana e civilizzata che rese possibile lo sterminio di sei milioni di ebrei europei. Non la folla barbara e inferocita.
Il muro di cinta che separa l’idillico giardino della famiglia Höß dalla fabbrica di lavoro forzato e morte di Auschwitz è metaforicamente più esile di quello che sembra. Nel film ha una funzione di estraniamento quasi brechtiano, nella realtà il campo di sterminio e il curatissimo giardino sono immagini riflesse. “Il genocidio moderno, analogamente alla cultura moderna in generale – scrive Bauman –, può essere concepito come il lavoro di un giardiniere. Tutte le immagini della società come giardino definiscono alcune parti dell’ambiente sociale come erbe infestanti umane. Analogamente alle altre erbe infestanti, esse devono essere isolate, arginate, bloccate nella loro propagazione, rimosse e tenute fuori dai confini della società; se tutti questi mezzi si rivelano insufficienti, esse devono essere sterminate”.
Hedwig, moglie del comandante Höß, si vanta del suo giardino quando la madre va a trovarla. Le fa fare un giro esaltando il suo pollice verde finché un primo piano su una rosa rossa non va in dissolvenza sanguigna. Lo stesso Rudolf, nella scena precedente, durante una telefonata di lavoro, descriveva con orgoglio le composizioni floreali che decorano il muro di cinta. La cura maniacale con la quale la coppia plasma il proprio spazio vitale, il Lebensraum biogeografico della Germania nazista (e dell’Italia fascio-coloniale), è la stessa con la quale i soggetti sociali indesiderati furono eliminati nell’olocausto (oltre agli ebrei, rom e sinti, furono sterminati anche omosessuali, disabili, oppositori politici, individui asociali, perditempo e chiunque risultasse “inutile” o “dannoso” alla società). Il giardinaggio dell’Europa nazista fu animato dalla fede scientifica in una società perfetta epurata dai suoi nemici interni (il complotto giudaico-bolscevico) nel nome dell’armonia sociale e razziale. Un abominio, ma non un male astorico e insondabile come spesso è stato descritto. Il medico e biologo Alfred Ploetz, che coniò il termine “igiene razziale” e ne architettò l’attuazione, sfiorò il Premio Nobel prima della guerra. L’eugenetica nazista era in parte ispirata alle campagne di sterilizzazione forzata già in vigore dagli anni Venti negli Stati Uniti e praticate nella California “liberal” fino ai primi anni Settanta.
Oltre alla “banalità del male”, invocata all’unisono dalla critica, è la filiazione tra il colonialismo e il totalitarismo nazi-fascista tracciata dalla Arendt ne Le origini del totalitarismo che forse aiuta ad approfondire alcune intuizioni del film di Glazer. La Arendt identifica nel dominio coloniale la prima sintesi tra massacro e amministrazione, binomio poi affinato tecnologicamente dal nazismo.
La zona d’interesse inverte infatti una tendenza radicata nel cinema a rappresentare il nazismo come male assoluto, estraneo alla civiltà (europea), e dunque inspiegabile. O, come fece opportunisticamente il Neorealismo, dovuto esclusivamente al “cattivo tedesco” (studi recenti hanno dimostrato la complicità proattiva degli italiani nella Shoah). L’assenza del confortante raffronto tra barbarie e civiltà che il film si rifiuta di mettere in scena, poiché facce speculari della stessa medaglia, ci obbliga a contemplare la genealogia tutta europea della Shoah. Gli ebrei, come fecero notare Henri Curiel e Abraham Sarfaty, furono il primo popolo europeo (insieme a rom e sinti) a esser vittima della furia genocida che fino ad allora era stata riservata esclusivamente ai colonizzati (il solo Belgio nel solo Congo sterminò dieci milioni di persone, l’Italia obliterò un quinto della popolazione libica, e via uccidendo…). Questo non minimizza né sottrae alla Shoah la sua unicità, ma la colloca genealogicamente nella nostra Storia. È la genealogia della violenza nazista che Enzo Traverso ha tracciato in un suo studio prezioso che evidenzia come l’industrializzazione e la burocratizzazione (coloniale) della violenza aprirono la strada all’olocausto e all’indifferenza (im)morale che lo ha accompagnato. Questo è il Rudolf Höß del film di Glazer: indifferente agli effetti del suo lavoro del quale va anzi fiero. Il suo viene infatti premiato con uno scatto di carriera che lo allontanerà da Auschwitz temporaneamente. Tornerà nel maggio del ’44 su ordine di Himmler per gestire lo sterminio degli ebrei ungheresi, logisticamente difficile a fronte dei 12 mila arrivi giornalieri. Tale fu il successo della sua operazione che la ribattezzarono col suo nome: Aktion Höß.
“I nostri bambini qui sono felici e in salute”, fa notare Hedwig al marito quando quest’ultimo viene trasferito e sta tentando di convincere la moglie a seguirlo con tutta la famiglia. Il lavoro, nel quale il comandante Höß eccelle, è l’altro aspetto centrale del film. Un lavoro fatalmente “pulito” le cui ceneri vengono utilizzate come fertilizzante nel giardino di casa o soffiate via dal naso insieme al muco. Gli incontri ai quali Rudolf partecipa con gli alti comandi dell’esercito nazista sono nel film rappresentati come ordinarie riunioni di lavoro. A un problema va trovata una pratica soluzione, alla domanda va corrisposta un’offerta. Come incenerire più corpi all’ora è un problema logistico, non etico. Il connubio tra nazismo e management avrà lunga vita nella Germania del dopoguerra. L’Oberführer Reinhard Höhn, tecnocrate al servizio del Terzo Reich, fondò a guerra finita una scuola di management dove si formò gran parte della classe dirigente tedesca. I metodi di gestione aziendale erano fondamentalmente gli stessi di quelli utilizzati nei lager. La persistenza del nazismo, tema esplorato da Straub in Non riconciliati (1965) e da Fassbinder in Il matrimonio di Maria Braun (1979), non è stata solo politica, ma anche culturale. Nel senso di cultura del lavoro. A partire dal marzo del 1942, i campi di concentramento erano sovraintesi dal SS-Wirtschafts-und Verwaltungshauptamt (“Ufficio centrale economico e amministrativo delle SS”). Il lavoro forzato aveva funzione sia punitiva che produttiva ed era infatti appaltato ad aziende esterne che a volte stabilivano le loro catene di montaggio all’interno dei lager. Nel 1944, circa tre milioni e ottocentomila uomini e donne rinchiusi nei campi, per la maggior parte prigionieri di guerra e cittadini stranieri dei territori occupati, lavoravano per l’industria privata e altrettanti erano al servizio dell’industria bellica. Tra di loro anche una piccola percentuale di ebrei, rom e sinti che erano stati selezionati per il lavoro forzato sfuggendo così alle camere a gas.
I campi di concentramento, così come le colonie, furono il motore dell’accumulazione e della crescita economica tedesca. Eppure poco si è riflettuto sulla natura capitalistica dell’olocausto. Lo stesso odio razziale, che funse da detonatore ideologico nello sterminio degli ebrei europei, è stato raramente condannato quando rivolto alle popolazioni indigene che furono sterminate dal colonialismo.
Il film di Glazer, in maniera obliqua e mai didattica, su tutto questo fa riflettere. Discutibile il ritratto angelico dei civili polacchi, una sola famiglia che però nell’economia simbolica del film ha un suo peso, soprattutto a fronte della co-produzione del Polish Film Institute e della recente legge sulla Shoah passata dal parlamento polacco. Altro elemento forse fuori contesto è la scomparsa della madre di lei e il rimorso intestinale del comandante Höß verso la fine. Le crepe che si aprono nella coscienza di alcuni di loro appaiono più una proiezione morale del regista che una possibilità etica dei personaggi. Non perché il nazista vada per forza disumanizzato, ridotto a bestia sanguinaria scevra di pietà, ma proprio perché il film porta avanti un discorso di segno opposto. Il male, ne La zona d’interesse, non è solo banale ma normale. Non viene percepito come tale dai protagonisti del film. C’è chi ha detto che se della banalità del male si mostra solo la banalità poi rimane solo il male. Eppure sono proprio i minuscoli dettagli disseminati lungo il film, invero banali, a scuotere la coscienza dello spettatore che viene implicato anziché assolto. Implicato in un film che, come ha dichiarato il regista, è rivolto al nostro presente. Non al passato. (giovanni vimercati)
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