“Lo stabilimento, u’ stab’l’ment! Basta dire u stab’l’ment e tutti capiscono di cosa stiamo parlando. Non della raffineria, non del cementificio, non di una zona industriale qualsiasi ma d’u stab’l’ment. L’acciaieria, la più grande d’Europa! Se non l’hai mai vista, devi fare uno sforzo enorme per immaginarla. […] I suoi rumori, i suoi ruggiti, le sue esplosioni. Immaginatelo disteso accanto alla città, contiguo, come se tra l’uno e l’altra non vi fosse separazione, come un ventricolo destro e quello sinistro di un cuore, abbracciati, indissolubilmente uniti. Quando sono nato, lo stabilimento c’era già, e già prima che io nascessi, fa parte del mio universo, del mio orizzonte. C’è un rapporto antico, profondo, tra la mia città e lo stabilimento. Un rapporto conflittuale, fatto di vita e di morte. Come due amanti, uniti da un abbraccio letale”.
Gaetano lavora da vent’anni nel reparto acciaieria dell’Ilva. Sogna la cassa integrazione, un bar a Tenerife e che i figli scappino da Taranto, senza tornare più. Adalberto ha venticinque anni, è di Grottaglie ed è laureato in economia con una tesi su “Capitalismo, classe operaia e lotta di classe”. Solo dopo che il padre operaio è morto di tumore al fegato, a lui hanno offerto un posto nello stabilimento, nel reparto di Gaetano. Il “capo” e “quello nuovo” s’incontrano su un fondale spalmato di ruggine scura, caschi e guanti usati solo nelle ispezioni, con un perenne ronzio di macchinari e ventilazione in sottofondo. Parlano la stessa lingua eppure non si capiscono. Condividono lo stesso orizzonte di polvere che tutto copre e di morti ammazzati dal lavoro, che compaiono, tra i fumi delle fornaci, come delle visioni allucinate: «L’ho visto! Ho visto un uomo o una cosa, o tutte e due. Ma come fa un uomo a essere una cosa?». I dialoghi sono serrati, il tono sale e scende dall’italiano al dialetto stretto e violento, incazzato. Eppure tutto è avvolto da una delicata leggerezza. I gesti sono calibrati, come pure le parole.
Non c’è retorica in questo lavoro che dell’Ilva di Taranto ci restituisce storie e frammenti che Gaetano Colella (attore e autore del testo, nonché direttore del Crest) ha recuperato da racconti di amici e parenti: «Ognuno di noi – dice – conosce qualcuno che ha lavorato o lavora all’acciaieria». Capatosta procede così per sottrazione, più che per accumulo, attraverso immagini colme di silenziosa poesia. Come quella di due uomini – un padre senza terra e un orfano di padre – che si tengono per mano, impauriti, davanti alla mastodontica fornace. Sullo sfondo, l’inevitabile conflitto generazionale, la lotta di classe fatta a pezzi, gli operai “comprati” con gli straordinari e diventati “partigiani dei cazzi loro”; il dissidio tra la rassegnazione, la fuga e il tentativo violento e disperato di sovvertire lo status quo.
Forse anche perchè Capatosta è andato in scena al Teatro Orfeo, poco distante dal quartiere Tamburi, che possiamo considerarlo lo spettacolo più rappresentativo del festival svoltosi dal 24 al 27 settembre a Taranto. Nato quattro anni fa dall’unione una.net, composta da sette residenze teatrali pugliesi e dal collettivo Crest di Taranto, stArt Up è uno degli appuntamenti più vivi tra i festival teatrali nel meridione. La rassegna, che quest’anno per tema aveva “Le dimore del racconto”, ha dato ampio spazio a progetti emergenti o di nuova drammaturgia, con un’attenzione particolare agli artisti e alle compagnie pugliese. Tra i lavori più interessanti La Beatitudine, ultimo spettacolo della compagnia barese Fibre Parallele, Pe’ Devozione, esito del laboratorio permanente con le donne di Forcella, curato da Marina Rippa e Alessandra Asuni, Di a da in con su per tra fra Shakespeare, studio vivo e acuto su Shakespeare e, più in generale, una meta-riflessione sul teatro contemporaneo firmata dalla regista milanese Serena Sinigaglia; infine L’Amleto pop punk della giovane compagnia Vico Quarto Mazzini. Paradossalmente, gli spettacoli meno interessanti arrivano da artisti ormai affermati sulla scena nazionale, come le quasi due ore senza capo né coda di Therèse et Isabelle di Walter Malosti e il tentativo piuttosto superficiale di “istallazione vivente” sui morti dell’Ilva, fatta proprio nel piazzale antistante il TaTà da Armando Punzo in Paradiso. Voi non sapete la sofferenza dei santi (ospitato da stArt up per l’altro festival concomitante “Misteri e fuochi”).
Al di là della qualità artistica dei lavori presentati, i quattro giorni a Taranto sono stati un’occasione di confronto costruttivo e anche critico tra compagnie, operatori, pubblico (nettamente in minoranza) e critici (giovani e non). Confronto di vitale importanza, in questi tempi di macelleria culturale e teatrale messa in atto dalla riforma del Fus, che vede le piccole realtà di ricerca – soprattutto quelle del sud – abbandonate a loro stesse e costrette all’auto-sostentamento.
Dislocata tra il teatro Orfeo, al di là del ponte che separa la città nuova dalla città vecchia e il teatro Tatà, la rassegna è un piccolo miracolo, così come lo è stato il recupero della struttura del TaTà, assegnata nel 2009 al collettivo artistico del Crest, dopo quasi trent’anni di attività senza fissa dimora. Sembra quasi un paradosso che il vuoto che separa la città dal groviglio di fumi e ciminiere sia coraggiosamente occupato da un teatro.
Da questo punto di vista, stArt Up rappresenta un piccolo presidio, una possibilità di rinascita e riscoperta per una città che dopo essere stata violentata dallo “stabilimento” è stata poi lasciata morire nel silenzio delle istituzioni locali, cieche anche davanti al tentato processo di recupero nel quartiere Tamburi e nella città vecchia messo in atto dal Crest, dalle residenze e dal festival. Nonostante gli sforzi, la rassegna si è conclusa con un amaro arrivederci: nell’impossibilità di continuare a queste condizioni, come hanno spiegato gli organizzatori in un comunicato, è probabile che questa sia stata l’ultima edizione: “Se non è questo il tempo della maturità, qual è allora? Se non è questo il momento in cui guardarsi negli occhi e dirsi ‘lavoriamo tutti insieme sennò moriamo’, allora qual è il momento? Tre anni fa il Crest, padre di questo progetto, decise di donarlo e condividerlo alle residenze della rete una.net per farne patrimonio comune. Oggi diciamo: stArt up è patrimonio di tutti: del Teatro Pubblico Pugliese, della regione Puglia, del nuovo TRIC, dei centri di produzione, delle residenze, delle compagnie. Tutti quindi abbiamo il dovere di farlo vivere e tutti avremo il rimpianto di averlo fatto morire”. Appunti per pratiche di (r)esistenza con finale aperto. (francesca saturnino)
Festival stArt Up
Capatosta
di: Gaetano Colella
con: Gaetano Colella e Andrea Simonetti
regia: Enrico Messina
composizione sonora: Mirko Lodedo
scene: Massimo Staich
disegno luci: Fausto Bonvini
produzione: Crest
in scena: il 24 settembre al Teatro Orfeo di Taranto
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