Nella drammaturgia di Enzo Moscato è costante il legame tra la quotidianità più banale e il momento rituale e mitico. In questo contagio espressivo la lingua napoletana – dove la tradizione ritorna come un fantasma della memoria – gioca un ruolo fondamentale. Ebbene, se c’è un’opera di Moscato in cui questa visione, che tiene insieme memoria e vita, passato e presente, diventa corpo e materia della scena ed esprime compiutamente il suo universo poetico, questa è Spiritilli; lavoro non a caso andato in scena nel 2014 nel complesso di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, il cui ipogeo – area di confine tra il mondo dei vivi e l’aldilà – ospita da sempre la devozione delle anime pezzentelle da parte di un’umanità che vuol salvare i morti dall’oblio e che vive da sempre il dramma del rifiuto e dell’esclusione sociale. Per questi motivi, la scelta delle edizioni Cronopio di proporre il suo Ritornanti. Adattamento filmico della pièce teatrale Spiritilli ci è sembrata non solo coraggiosa ma preziosa, perché costituisce un ulteriore, significativo contributo alla conoscenza di uno dei più grandi autori attori della scena contemporanea.
Moscato è molto scettico sulla possidbilità che qualche regista possa essere un giorno interessato alla trasposizione cinematografica di questo lavoro; impegno che oltretutto richiederebbe la particolare sensibilità di un produttore, consapevole di trovarsi di fronte a un’opera lontana da qualsiasi tentazione mercantile e dal carattere dichiaratamente sperimentale.
La chiave interpretativa di questa ri-scrittura per immagini – in fondo già presente dalla messa in scena che l’ha preceduta – è legata alla dolorosa esperienza poetica e umana di Anna Maria Ortese. Ritornanti, infatti, si conclude con una voce fuori campo che cita le sue struggenti parole dedicate alla nostra città, ai bambini malati di Napoli o ai vecchi sofferenti, a quella parte della popolazione presente che era di anime morte, anime di ritornanti. L’attore autore riprende, sin dalle prime pagine, questi temi, evocando anime morte, anime sognanti, anime di deliranti e di munacielli; tutte figure di un immaginario collettivo legato alle tradizioni, alla stessa identità antropologica e culturale della nostra città.
Naturalmente, molteplici qui sono le varianti rispetto all’originario testo teatrale. A sorprendere in questa nuova versione di Spritilli, è proprio l’invenzione cinematografica, l’autonomia linguistica ed espressiva, che – soprattutto in alcune inquadrature e nella stessa ideazione delle scene, frammentarie e antinaturalistiche – fa riandare con la mente a L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, uno dei primi sperimentatori del linguaggio cinematografico moderno. La macchina da presa s’insinua tra la folla, ci porta nei meandri dei vicoli, nelle strade del centro cittadino, nelle mura delle case, nel vissuto quotidiano della città. Si sofferma soprattutto, con insistenza, sui volti anonimi dei passeggeri che salgono e scendono spaesati dai treni nelle nuove stazioni d’arte della metropolitana di Montecalvario, del Museo, di piazza Garibaldi. Il sonoro di queste sequenze, scrive Moscato, sarà costantemente doppio, cioè nutrito dal sottofondo dei rumori di vita cittadina/metropolitana da un lato, e dall’altro dai brani del testo recitati in differita o fuori campo. Sullo sfondo, la vita di Nannina e Totore, o di Anna e Salvatore loro doppio, due disperati che tentano di dare una svolta alla loro vita, abbandonando i loro bassi-scantinati per cercare un nuovo e più sicuro rifugio, un luogo che si scoprirà abitato da misteriose presenze assenze, da fate, trapassati, gnomi: una folla di Ritornanti che vagano nel vuoto.
All’inizio, le voci fuori campo di Viaggiatori e Viaggiatrici – che parlano di folletti, di apparizioni di corpicini che riaffiorano dall’ultimo conflitto mondiale – introducono a un’umile storia di sofferenza e di povertà. I due giovani sposi – che hanno avuto da poco un bambino a cui hanno dato il nomignolo di Tubbettiello – sperano di trovare casa attraverso la mediazione di una Sanzara (“vale a dire la sensale cercatrice delle case in affitto”) – che “vecchia, curva e bisbetica” sembra “una reincarnazione della Sibilla Cumana”. Sarà lei a indicare loro un’abitazione sfitta che si trova nel cuore dei Quartieri Spagnoli, a Salita Paradiso. “Ma avite ‘a fa ambressa! ‘O prezzo ‘e ll’affitto d’o quartino – voi capite – è basso! Miracolosamente così basso”.
I due giovani si accorgeranno solo in un secondo momento del motivo di questa inaspettata opportunità. Le mura della casa e del palazzo sono infatti abitate da strane presenze, da munacielli dispettosi, da una popolazione di spettri che reclamano anche loro un tetto. È la metafora di una città dolente, sempre più precaria, sempre più spinta sulla soglia della disperazione e della miseria. La coppia sarà poi costretta precipitosamente a fuggire, spaventata dal tono minaccioso del munaciello, ma dopo aver ritrovato il loro bambino improvvisamente scomparso nel cuore della notte.
Ancora una volta sono i singolari movimenti della macchina da presa a sorprenderci, per certi versi a dischiuderci un altro sguardo, un amore infinito per l’altro, per tutte le creature abbandonate al loro incerto destino. Moscato rompe con i consueti canoni filmici utilizzando lo strumento visivo (e le voci fuori campo) con un occhio che scruta il vuoto, abita l’ignoto e dà voce a tutti gli invisibili della terra, con una tenerezza che commuove quando la macchina da presa si avvicina ai corpi o al visino del bambino, “cullato dalle braccia di Nannina, mentre piange”.
Questo adattamento filmico di Moscato è un piccolo capolavoro, e auspichiamo vivamente che possa presto tradursi in un’opera cinematografica, perché – ripensando proprio allo sguardo della Ortese nel Cardillo – qui l’immaginazione è misura del vero, l’ombra che avvicina la poesia e i sogni al mondo della vita. (antonio grieco)
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