Se nel loro libro precedente, Alle radici di un nuovo immaginario (Rogas 2023), analizzando alcuni film di fantascienza usciti a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, Paolo Lago e Gioacchino Toni erano andati alla ricerca delle avvisaglie del mutamento di immaginario che sarebbe andato a forgiare i tempi a venire, con il loro nuovo volume, Spazi contesi. Cinema e banlieue (Milieu 2024), gli autori hanno voluto indagare la rappresentazione delle banlieue nel cinema francese degli ultimi decenni. Perché indagare la “rappresentazione” – cioè il discorso pubblico attraverso cui un fenomeno sociale viene raccontato? Perché il modo in cui si “rappresenta” il fenomeno non solo riflette ma anche contribuisce a costituire le modalità in cui il fenomeno stesso si sviluppa: e questo vale per i movimenti, sociali, la criminalità, la disoccupazione o qualsiasi altra faglia sociale da indagare. Non esiste mai neutralità oggettiva del racconto – che è sempre terreno di scontro ideologico – e non esiste mai “innocenza” del racconto, che sempre pesa, incide e condiziona.
Il libro tratteggia un panorama audiovisivo incentrato sulle periferie francesi molto più ampio di quel che si pensa; sono infatti diverse decine le opere a cui viene fatto riferimento nel testo, molte delle quali non distribuite in Italia, con svariati riferimenti al dibattito critico che le ha accompagnate oltralpe. Gli autori si focalizzano su tre opere che, conquistando pubblico e critica, “hanno saputo mostrare in maniera dirompente un universo per certi versi celato all’opinione pubblica dai media e dalla politica istituzionale che tendono a occuparsene quasi esclusivamente per demonizzare i comportamenti violenti dei suoi abitanti, soprattutto quando osano mettere piede fuori dalle periferie in cui sono tenuti a restare confinati”. L’Odio (1995) di Mathieu Kassovitz, I Miserabili (2019) di Ladj Ly e Athena (2022) di Romain Gavras sono analizzati in dettaglio, evidenziando come questi offrano una profonda riflessione tanto sui rapporti tra centro e periferia, quanto sulle diverse strutture di potere con cui gli abitanti di queste ultime si trovano a fare i conti.
Se Kassovitz ha portato sul grande schermo le banlieue francesi dei primi anni Novanta raccontando la quotidianità di tre giovani amici alle prese non solo con la vita in periferia ma anche con l’ostilità che riserva loro la Capitale, Ly mostra come nel giro di un paio di decenni quelle periferie siano divenute dei “veri e propri concentrati di quotidiana guerra civile” in cui, oltre alla canonica contrapposizione tra gendarmi e abitanti, si muovono e si contrappongono “nuovi attori non statali del controllo e della violenza” strutturati in maniera clanica. Tutto ciò è ripreso in forma epica e tragica anche dal film di Gavras che mette in scena la risolutezza con cui i banlieusard più giovani portino il loro attacco frontale al potere senza pensare al domani, condannati come sono a una guerra civile permanente.
Solo autori profondamente interni alla realtà della banlieue (e le loro biografie artistiche sono forse la parte più interessante e rivelatrice del libro) possono raccontare la riarticolazione in atto dei poteri dentro quelle comunità e su quei territori; e le strategie di governance che cercano di cooptare o contendere questi nuovi poteri, formali o informali, dentro la compatibilità dell’ordine capitalistico: che significa “istituzionalizzare” il ruolo delle associazioni religiose, smottando verso quel comunitarismo che il repubblicanesimo francese aveva sempre snobbato; oppure creare organismi di partecipazione civica (fasulla) per uno sforzo tardivo di integrazione delle masse in quel che resta della vita democratica pubblica; oppure militarizzare il territorio gestendolo esattamente come un dipartimento d’oltre mare riottoso. Lo sguardo neo-coloniale della Francia bianca sulle sue periferie è il riflesso di una storia ma anche un anticipo del terribile futuro che ci attende: con le tradizionali linee di frattura tra nord e sud globali, che attraversano sempre più le nostre metropoli e i nostri quartieri.
Ricorrendo agli strumenti critici derivati da Gilles Deleuze e Félix Guattari (“spazio liscio” / “spazio striato”), Michel Foucault (“eterotopia”) ed Henri Lefebvre (“diritto alla città”), Lago e Toni conducono la loro analisi prestando particolare attenzione alla rappresentazione degli spazi come ambiti del contendere. “Alla luce dell’analisi dello spazio, anche i complessi residenziali delle banlieue si prestano a essere analizzati come eterotopie, veri e propri spazi separati dalla città. In questi spazi strutturati secondo le regole del controllo reticolare, si sono nel tempo sedimentate sia forme di governance che di resistenza non pianificate. Lo spazio ‘striato’, segnato da canalizzazioni e percorsi obbligati dalle architetture pensate per controllare le periferie, ha dovuto fare i conti con continue infrazioni all’ordine pianificato sedimentando nel tempo nuove forme di disciplinamento spaziale e sociale ma anche spiragli di alterità nei confronti delle vecchie e delle nuove modalità di controllo nei cui confronti saranno […] soprattutto le componenti più giovani che abitano le periferie a palesare un’insofferenza che si manifesta tanto nei confronti del particolare tipo di ordine che vige nelle banlieue, quanto nei confronti del potere e dello spazio della città che li respinge”.
A rendere l’idea dello spirito che muove le analisi proposte da Spazi contesi provvedono alcune efficaci citazioni poste in esergo al volume e in quarta di copertina.
“Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli “altri”; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi degli attacchi […]. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città”. (Furio Jesi)
“La città […] non è semplice ‘luogo’, ma il risultato spaziale delle interazioni tra gruppi, tra questi e le istituzioni, le pratiche di governo, i rapporti produttivi e le modalità comunicative. […] In breve, la visione della città come territorio di negoziazione, di contesa implica che l’osservazione dell’urbano proceda simultaneamente all’esame dei movimenti sociali che contribuiscono alla sua evoluzione”. (Vincenzo Ruggiero)
“Nelle banlieue ci si muove sull’istanza del bisogno: il lavoro, la casa, gli spazi, la bestialità dei gendarmi; sofismi ideologici mal si accordano al cemento armato. E ci si muove coi propri vicini, coi parenti e con gli amici. Non si può tracciare una linea di demarcazione netta tra il corpo politico e quello sociale. La banlieue è il più avanzato laboratorio del nemico e pertanto la trincea di prima linea dei subalterni”. (Jack Orlando)
Evitando accuratamente tanto la mistica delle periferie, quanto la contemplazione di queste ultime attraverso uno sguardo vittimistico, i tre film esaminati, scrivono i due autori, “attraverso storie e registri differenti, hanno saputo mettere in scena la complessità delle banlieue attraversate, e non da oggi, da una vera e propria guerra civile permanente, e lo hanno fatto evidenziando i limiti di qualsiasi lettura che, dal suo distanziato e asettico sguardo ‘scientifico’, pretenda di coglierle integralmente. Che prenda le sembianze di una mucca che attraversa il quartiere, di gigantografie di Rimbaud e Baudelaire sui palazzi, dello spiazzante racconto di un anziano che esce improvvisamente da una toilette pubblica, di un leoncino liberato dalla gabbia dai petit a sancire il diritto per tutti i cuccioli, animali o umani che siano, a svincolarsi dalla morsa del mondo degli adulti, di un’epica battaglia per la libertà che vale la pena combattere preferendo un finale spaventoso a uno spavento senza fine, qualcosa di non razionalizzabile, di poetico, si potrebbe persino dire, resta sempre”.
In appendice del volume sono riportati due saggi sulle banlieue. Nel primo, di Sandro Moiso, si riflette sulla progressiva “scomparsa del centro” e su come la percezione da parte dei giovani abitanti delle banlieue “della distanza e della estraneità incolmabile che li separa dal centro urbano, economico e politico delle città in cui vivono” sembri produrre “una forma di identitarismo collettivo più ampio di quello caratterizzato dall’etnia, dalla politica oppure dalla religione che spinge milioni o miliardi di abitanti del cosiddetto Sud globale a odiare vieppiù il Nord e il suo centralismo perduto”.
Nel secondo scritto, di Emilio Quadrelli, si mette in evidenza come nella contemporaneità “accanto allo spazio urbano degli individui si stagliano i non luoghi deputati a contenere masse anonime senza nome e senza volto e dove l’idea stessa di individualità è bandita, reiterando con ciò una condizione tipicamente coloniale che oggi convive, fianco a fianco, con quella dell’individuo globalizzato. A partire da questo scenario, allora, l’esplosione della banlieue è ben distante dall’assumere i tratti confusi dei disperati senza storia bensì il livello ‘politico’ più alto che la lotta di classe assume nell’era attuale”. È proprio perché tali lotte “rimangono prevalentemente confinate nell’ambito della voce senza approdare al linguaggio” che Quadrelli parla nel suo scritto del partito della banlieue: “Non da ora la soggettività di classe tende a essere perimetrata nell’ambito della voce poiché è il salto al partito che consente di approdare al linguaggio. È il partito lo strumento e la struttura grammaticale in grado di trasformare la voce in lessico politico ma questa grammatica poggia per intero sulla sintassi della classe”. (giovanni iozzoli)
Leave a Reply