L’insopportabile cafoneria dei ricchi è il criterio di sopportabilità di Enea, di Pietro Castellitto, prodotto da Vision Distribution, The Apartment e Frenesy (Lorenzo Mieli e Luca Guadagnino), con protagonista lo stesso Castellitto, insieme a Giorgio Quarzo Guarascio (il cantautore indie-rap Tutti Fenomeni), Benedetta Porcaroli, Sergio Castellitto e Chiara Noschese. Come l’esordio I Predatori, il film è un verbosissimo affastellamento di situazioni grottesche, ma qui il focus è tutto su due giovani dell’alta borghesia romana che passano il tempo a organizzare party esclusivi, a fare dell’esistenzialismo d’accatto, e che poi si ritrovano a smerciare droga in un crescendo di violenza e morte. Il lusso, la noia, la vacuità dell’esistenza, le famiglie scassate che si reggono sulle meschinità, sulle bugie che fanno tirare a campare: Quale allegria di Lucio Dalla potrebbe essere un buon compendio dei temi di Enea. Film che si sopporta, dicevo, se lo spettatore che non appartiene a quel mondo è curioso di sapere della cocaina che tireranno i personaggi, con chi andranno a letto, quale festone galattico organizzeranno, se canteranno Maracaibo o Maledetta primavera, chi uccideranno.
L’ossessione di Castellitto sembra quella di raccontarci, con registri differenti, questo mondo della borghesia romana falsa e criminale. Ci riesce? Non tanto. La violenza che film di questo tipo (gli si può accostare forse Loro di Paolo Sorrentino, che però è di gran lunga più brutto, pornografico e misogino) recano dentro di sé nulla ha a che fare né con la critica né con la politica: è una specie di necrofilia compiaciuta, una negazione di quel mondo fatta con milioni di euro: soldi che per fortuna a un certo punto sono finiti insieme al film (Il film finisce quando finiscono i soldi, Fellini dixit). Non sono da sottovalutare inoltre le reazioni intorno a Enea, che aderiscono al tipico onanismo della coscienza piccolo-borghese (qualcuno dirà che è una terminologia desueta ma non se ne trova ancora una migliore), che si è impegnata in recensioni un po’ accomodanti, indirette, dove il giudizio smussato è per lo più malafede o ignoranza. Non ci si è vergognati, in fase critica, di parlare delle sigarette cosiddette puff che vengono fumate nel film, o delle airpods, che sarebbero “simboli” borghesi. Non molte righe sul personaggio di Benedetta Porcaroli, un fantasma. Tuttavia sono queste le opere che fanno pensare al cinema come attore sociale, come sintomo generale di un paese visto dalla sua particolarissima capitale, Roma, e quindi vanno guardati. Enea chiede, con la sua sceneggiatura elementare e didascalica, e con la sua regia da budget elevato, un confronto proprio sulla sua superficie, sotto la quale non è nascosta alcuna profondità.
I protagonisti del film sono copie sbiadite delle gioventù bruciate del cinema. Enea gestisce un ristorantino di sushi. È frivolo, ha una psicologia piatta, contesta l’ipocrisia della sua famiglia liberale e perbene con una aggressività nichilista e fascista. Si innamora di Eva (Porcaroli), ma ciò è del tutto ininfluente nell’economia del film. Il padre è uno psicanalista che, in gran segreto, sfoga la sua rabbia in una specie di magione fuori città, mentre la madre è una presentatrice televisiva che propone libri e storie “che toccano il cuore”, cioè artefatte. Ha un fratello di sedici anni, Brenno, piuttosto problematico, e un amico, Valentino, segretamente innamorato di lui, col quale condivide tutte le sregolatezze, compresa la gestione di una grossa partita di droga, che sarà l’inizio del lato gangster del film.
Esistono modi e modi per dire e filmare quello che ci reca disgusto, rabbia, desolazione. Da Haneke a Ciprì e Maresco, conosciamo memorabili rappresentazioni tanto della violenza del mondo contemporaneo, quanto della degradazione morale della sua classe dirigente, della borghesia che chiede decoro, che odia i poveri, che ostenta il lusso. Un film di “critica” deve squarciare e rivelare, dirci cioè qualcosa di nuovo sulla società contemporanea e su chi la abita, sia questo ricco, povero, uomo o donna, insegnante o ministro, asinello o cane. Non una semplice “fotografia” della realtà che spesso funge da alibi ai film, a quell’insopportabile idea che “poiché la realtà è così, bisogna rappresentarla così”, non facendo un passo oltre il proprio oggetto di critica. Enea è un resoconto compiaciuto dei ricchi che abitano nelle zone a traffico limitato.
Oltre la droga, la noia e i party, forse l’argomento più interessante è quello che emerge, in seconda battuta, dal rapporto tra Castellitto padre e Castellitto figlio. Non però nel film, dove la contrapposizione ripropone il cliché dell’incomunicabilità borghese, ma nelle rispettive cinematografie. Castellitto senior è letteralmente la faccia del cinema italiano generalista: il pubblico lo ricorda nei prodotti televisivi tipo Padre Pio, non nei film di Ferreri e Bellocchio. Pietro invece fa dell’iconoclastia e dello sgarbo al buon costume uno dei suoi marchi di fabbrica: in Enea c’è addirittura una bestemmia esplicita. Ma insomma, chi vuole scandalizzare? Deve evidentemente riferirsi a degli over quarantacinque piuttosto costumati, perché ormai nell’audiovisivo – su Instagram e TikTok in particolare – è ampiamente sdoganato, e con orgoglio, l’utilizzo di cocaina, la reiterazione di un linguaggio violento e blasfemo, l’esibizione sfrontata di gioielli e orologi, una certa morbosa narrazione del lusso legato all’enogastronomico, eccetera: tutto un universo cafone, ricco, criminale che si mostra direttamente, senza nascondersi, che anzi sa di crescere proprio da quel suo manifestarsi per immagini. Un mondo che non si combatte col cinema, un mondo del quale Enea non è che, in ultimo, e magari contro le intenzioni del regista, un altoparlante. (salvatore iervolino)
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