Sole, strada, casco, giubbotto, occhiali scuri. Mi fermo a osservare Bagnoli dall’alto, la confusione festaiola degli aperitivi in riva al mare. Discendo via Coroglio sovrappensiero. Un paio di curve a gomito, il ciglio della strada. Spengo il motore della Vespa, indugio sulla sella. A due metri da me c’è un signore. Occhiali scuri, vestiti scuri, anche lui immobile a guardare la vallata sotto il costone di Posillipo. I crateri artificiali ricordano quelli dei Campi Flegrei. Un posto bellissimo, ma solo se visto da qui. In verità è un’enorme ciambella senza il buco: quei crateri sono ciò che resta del Parco dello Sport. Costo: trenta milioni di euro, per quella che doveva essere una struttura all’avanguardia. L’uomo accanto a me rompe il silenzio: «Alla fine, qui, qualcosa va sempre storto».
Il vento comincia a risalire la collina. Anno 2007, a Bagnoli c’era grande attesa per l’apertura del cantiere. Il progetto dei crateri firmato Pica Ciamarra Associati. Sarebbe stato uno spazio sociale per il quartiere e per la città, un punto di partenza per la restituzione degli spazi invasi dall’Ilva. L’apertura prevista per il 2010, l’inaugurazione arrivò nel luglio del 2012. Troppa la voglia di poter dire che qui non c’era solo quel disastro di amianto, ferro e ruggine, abbandonato dal 1992. Ma era abbastanza chiaro come le condizioni non fossero ideali. L’ultimo dei tanti ritardi era dovuto al blocco, da parte del governatore Caldoro, di un ulteriore gettito di fondi destinati a Bagnoli Futura. Ma dopo l’inaugurazione di de Magistris fu la magistratura a mettere tutti d’accordo, sequestrando l’area: gli scarti tossici derivanti dalla bonifica, secondo l’accusa, sarebbero stati ammassati sotto le strutture.
Costeggio il muro dell’ex Italsider, sembra infinito. Decenni di scritte con la bomboletta e dediche amorose si sono accumulate una sull’altra. La vitalità, qualche metro più avanti, è garantita dagli aperitivi che inghiottono ragazzi provenienti da chissà dove. Zigzagando tra le auto bloccate sotto il sole, risalgo il quartiere in direzione del centro. Oltre le case, dove un tempo soggiornavano i militari americani, c’è un’area di duecentomila metri quadri ben nascosta da una fitta vegetazione. In prossimità dell’entrata principale, fino al 2012 presidiata da marines armati, l’aria sa di pino e abete. Rallento. Nella mente si susseguono immagini di dichiarazioni stampa e campagne elettorali. La promessa di restituire anche questo spazio al quartiere, partendo dalle associazioni sportive. Due ragazzini passano sullo stradone davanti ai cancelli passandosi una lattina ammaccata.
Più volte, negli scorsi mesi, il sindaco de Magistris ha espresso la volontà di rendere l’area accessibile a tutti. Si è fatto promotore di un dialogo con la Regione e la Fondazione Banco Napoli (proprietaria dei suoli), ha fatto a gran voce promesse che non ha potuto mantenere. Ai ragazzini, probabilmente, le belle parole non sono nemmeno arrivate alle orecchie. Molti tra loro, nel quartiere, nemmeno lo sanno che se qualcuno gli aprirà i cancelli sarà l’Amatori Rubgy Napoli, società sportiva che paga una concessione alla fondazione, e che – fatta eccezione per alcune poco consistenti quote sociali – fa pagare a sua volta una retta ai propri associati. Se su un piatto della bilancia c’è l’“impegno sociale”, sull’altro vi è la gestione delle attività accessorie: ristoranti, bar, quote d’iscrizione, kit di abbigliamento (per quanto riguarda il rugby); e poi, gestiti sempre da privati, un club per serate “danzanti” e una piscina, la cui gestione, e gli introiti considerevoli fruttati lo scorso anno rispetto ai modesti canoni di concessione, hanno generato non poche polemiche. Dopo il recente cambio al vertice della fondazione, il comune è tornato alla carica ricompattando il fronte dei comitati che vorrebbero l’ex base Nato riaperta al quartiere, provando a fare da ponte tra loro e la fondazione. Se da un lato pare che, incalzata dalla necessità di approvare il progetto in tempi rapidi, la fondazione sia disposta a trattare per un uso non del tutto privatistico dell’area, dall’altro sarà solo il tempo a dirci se si sarà trattato dell’ennesimo chiacchiericcio a vuoto, o se ci saranno passi concreti in questa direzione.
Quello che vedo per adesso, proseguendo da Agnano a Fuorigrotta, è lo scheletro del Mario Argento. Le due tribune superstiti del palazzetto costruito nel ’63 oggi assomigliano a due braccia che spuntano dalla terra e si protendono verso il cielo. Dalla giusta prospettiva, quella da via Barbagallo (la via che costeggia l’altro palazzetto, il più modesto Palabarbuto), sembra che lo scheletro di cemento grigio e rosso abbracci i palazzoni alle sue spalle. Il marciapiede è ampio, mi fermo. Una signora, grossa e anziana, seduta su una sdraio, regna su un improvvisato punto di raccolta di materiale ingombrante, tra mobili, sanitari in disuso, materassi, elettrodomestici e altre sedie a sdraio. Ha la carnagione scura, le rughe le scavano il viso intorno agli occhi. È lì per quasi tutto il giorno, tutti i giorni, chissà da quanto tempo. Fatica a interpretare le mie intenzioni, finché non si decide a chiedere: «Vi serve qualcosa?». Non le rispondo, non so come spiegarle che sono lì perché quelle tribune mi incantano. Lei capisce che sono più interessato alla struttura che a qualsiasi scambio commerciale: «Qui ci ha suonato pure Venditti nel 1990. E che concerto che fece!». Si accorge di un mezzo sorriso e va avanti: «Ci giocavano a pallacanestro. Quelli alti, altissimi! Pure noi appresso a loro si guadagnava bene, e chi se li scorda. Però i concerti erano un altro pianeta…».
Lo scheletro è ancora lì. La ristrutturazione fu affidata a un importante architetto fiorentino, Giovanni Corradetti, e al suo team. Solo che gli undici milioni di euro appaltati, per un palazzetto di ottomila posti, oggi come allora sembrano veramente pochi. La signora si alza dalla sdraio e si avvicina alle ringhiere arrugginite. Le chiedo qualcosa, mi risponde: «Si, le cose le cominciano pure, se gli serve. Non ci misero niente a buttare tutto a terra, ma poi si fermarono. Nel 2002 ci fu il terremoto in Molise. Dissero che le leggi da rispettare erano cambiate e che bisognava fare tutto da capo». Siamo vicini alle rovine. Accendo un’altra sigaretta riparando la fiamma dal vento che sa di muffa. Scoprirò poi che le cose sono andate più o meno come dice lei. In effetti, il terremoto in Molise fece innalzare il livello di allerta sismica della città di Napoli, che da “basso” passò a “medio”. Da allora i costi sono aumentati, assieme al numero di anni in cui le tribune, sottoposte a vincolo architettonico, sono rimaste così. Uno scheletro grigio e rosso.
Le ondate di sole sui vialoni generano luci e ombre sul Palabarbuto e sulla Scandone, attuali vicini del rudere cementato. Mi volto, seguendo il riflesso sulla tribuna est. Alla signora il “nuovo” palazzetto (anno di costruzione: 2003) non piace: «Lo aprono e lo chiudono. Da qualche mese l’hanno riaperto ma sicuramente arriverà qualche ispettore e chiuderà di nuovo tutto». Da “casa di scorta” del Napoli Basket (in attesa della ricostruzione del PalaArgento) il Palabarbuto sembra essere diventato un dato di fatto. La rinascita della squadra e la stabilizzazione della nuova società (la vecchia era fallita nel 2016) hanno corrisposto alla riapertura del palazzetto, grazie a un certificato di agibilità rilasciato nello scorso dicembre. «Tremila persone qua dentro? Io so solo che non ci entrerei mai. Lo hanno pure costruito in mezzo alla strada». In effetti, dopo l’abbandono del Mario Argento, la costruzione del Palabarbuto è stata frettolosa e approssimativa, tanto che la struttura attuale viene chiusa a periodi alterni per inagibilità varie. È vero anche che il perimetro della struttura sconfina vistosamente sulla carreggiata di viale Giochi del Mediterraneo. Il sindaco ha assicurato che sia il Palabarbuto che il Mario Argento verranno ristrutturati e resi funzionanti per le Universiadi del 2019, ma anche su quel fronte, a ormai diverso tempo dagli annunci, sembra muoversi poco. Riprendo la mia corsa verso il centro, prima che il sole cali. Saluto la signora che mi volta le spalle masticando un arrivederci. Ripenso a parole che non so più se ha detto oppure ho immaginato: «La storia è questa qui. Siamo solo un po’ in ritardo». (saverio nappo)
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