È in uscita in questi giorni Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera) con contributi di Nicola Valentino, del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud. Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di una patologia psichiatrica tentò di rapire un bambino, con l’intento di salvarlo da alcune persone che immaginava stessero per sottrarlo alla famiglia. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà mai.
Pubblichiamo a seguire la prefazione al volume a cura di Nicola Valentino.
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Le Articolazioni per la tutela della salute mentale nelle carceri
Un giorno di settembre del 2021 Luigi viene arrestato e imprigionato nel carcere Le Vallette di Torino: reparto “il Sestante” .
Nel reparto psichiatrico resterà sei mesi, di cui uno nella sezione 7, “La bocca dell’inferno”, in totale isolamento e video sorvegliato costantemente da un sistema di telecamere montate al soffitto. La descrizione che Luigi fa della cella di sei metri quadrati non ha nulla da invidiare agli ambienti dei manicomi e dei manicomi giudiziari, immaginati per favorire il degrado umano.
Il reparto Sestante è da annoverarsi fra quelle strutture presenti in alcune delle carceri italiane e definite Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm). In seguito a una denuncia pubblica dell’associazione Antigone oggi quella sezione è chiusa e in ristrutturazione. La Procura di Torino ha aperto un fascicolo d’indagine per verificare la commissione di reati da parte di operatori penitenziari e sanitari. Le Articolazioni per la tutela della salute mentale sono sezioni a gestione sanitaria, concentrate in pochi istituti carcerari, con il compito prevalente di gestire il disagio psichico che insorge durante la detenzione carceraria, quando cioè, per usare un linguaggio della tradizione psichiatrico-criminologica, il “reo” diventa “folle” in carcere.
Secondo il XVIII rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, le sezioni Atsm attive in Italia si trovano in trentadue istituti penitenziari e sono in tutto trentaquattro (ventinove maschili, cinque femminili). Vi sono detenuti duecentosessantuno uomini e ventuno donne. In queste strutture, che si rappresentano come a tutela della salute mentale dei reclusi, sono state osservate sistematiche violazioni dei diritti individuali e gravi problemi gestionali dalla rete dei Garanti delle persone private della libertà, dalle associazione per la tutela dei diritti umani, nonché dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Torture durante alcune visite ispettive svolte nel nostro paese.
Le Atsm nascono dopo il varo della legge 81 del 2014 che sancisce il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). In base a questa legge per i cosiddetti “rei” che diventano “folli” in carcere bisogna istituire strumenti di cura e controllo all’interno del sistema penitenziario, dal momento che le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che sostituiranno gli Opg, vengono destinate all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva per coloro che invece vengono riconosciuti incapaci di intendere al momento di un reato, i cosiddetti “folli” che diventano autori di un reato. L’istituzione di questa separazione nasce con l’intento di delineare una differenza con gli Opg che invece erano diventati una sorta di discarica in cui veniva gettata ogni persona con sofferenza psichica, autrice di un qualche reato¹.
Il carcere manicomio
Le Atsm si collocano in una più ampia psichiatrizzazione dell’istituzione carceraria. A esse viene destinato in sostanza un numero ridottissimo di persone recluse, per le quali la detenzione è diventata fonte di estrema sofferenza mentale: i casi definiti più gravi. Ma, come monitorato da Antigone nel 2021, la percentuale media di persone detenute “in terapia psichiatrica” (che assumono cioè terapie prescritte dal medico, in maniera continuativa e non eccezionale, né sporadica) è del 40,4 per cento. In altre parole, mediamente quattro detenuti su dieci, fanno regolare uso di psicofarmaci a fronte, occorre supporre, di un qualche disagio psichico che comunque suggerisce un trattamento farmacologico. Stiamo dunque parlando di circa venticinquemila persone. Ma la manicomializzazzione del carcere non si ferma a queste percentuali². Non esistono dati certi in proposito, Luigi nel suo testo fa riferimento a un ottanta per cento della popolazione detenuta, che viene sottoposta, e a sua volta si assoggetta, a un controllo chimico attraverso la somministrazione quotidiana di psicofarmaci sedanti somministrati “al bisogno”, con il carrello delle medicine, anche quindi al di fuori di una formale prescrizione terapeutica. Il recluso in tal modo cerca una forma di sopravvivenza a una condizione invivibile, mentre l’istituzione controlla l’invivibilità generata dai suoi dispositivi mortificanti, inducendo una dipendenza chimica.
L’attribuzione della pericolosità sociale e le sue implicazioni
Luigi Gallini viene processato con l’accusa di tentato sequestro di persona; ritenuto in scompenso psicotico al momento dell’atto, viene assolto, in quanto non imputabile perché in quel momento incapace di intendere e di volere. Considerato anche socialmente pericoloso, viene ordinata nei suoi confronti una misura di sicurezza non detentiva, bensì di libertà vigilata, della durata di due anni. Allo scadere di questo tempo dovrà essere riesaminata dal giudice sia la pericolosità sociale che la misura di sicurezza disposta.
Addentriamoci ora nelle caratteristiche anche più generali che la pericolosità sociale può avere per le persone a cui viene attribuita per ragioni psichiatriche, intrecciandosi con misure di sicurezza sia detentive che non.
L’abbinamento del dispositivo pericolosità sociale/misura di sicurezza viene fissato nel codice penale e dalle istituzioni preposte ad applicarlo, con l’intento di spostare la centralità dal fatto reato alla persona.
Questa prospettiva di gestione del controllo sociale si afferma storicamente in Italia con il regime fascista e con il codice Rocco. L’intento, come ebbe a dire lo stesso Alfredo Rocco, era di andare oltre i mezzi puramente repressivi e propriamente penali. Come egli stesso spiega nella relazione al codice penale del 1930, in conseguenza dei profondi rivolgimenti psicologici e morali, economici, sociali e politici, prodottisi negli individui e nella collettività in conseguenza della grande guerra vittoriosa, i mezzi puramente repressivi e propriamente penali si erano rivelati insufficienti a combattere particolarmente i gravi e preoccupanti fenomeni della delinquenza abituale, della delinquenza minorile e della delinquenza degli infermi di mente pericolosi.
Per rimediare a questa insufficienza il nuovo codice penale ha non solo rinvigorito il sistema delle pene principali e accessorie, ma ha altresì introdotto il sistema delle misure di sicurezza. Proprio in nome di questo voler andare oltre il penale e il repressivo, le misure di sicurezza o si vanno ad aggiungere alla pena o la sostituiscono quando questa non può essere comminata, come nel caso delle persone ritenute incapaci di intendere e volere al momento della commissione di un reato.
Agli effetti della legge penale è socialmente pericolosa la persona anche se non imputabile o non punibile, come nel caso di Luigi, quando è probabile che commetta nuovi reati. Questa probabilità la si desume da parametri totalmente arbitrari che attengono soprattutto alle “qualità soggettive” che alla persona vengono attribuite. La persona, sottoposta a questo esercizio di potere assoluto nei suoi confronti da parte delle istituzioni preposte a decidere sul suo destino, si trova nell’impossibilità stessa di comprendere come aderire a questi parametri per svincolarsi dal potere subito.
Delineata brevemente la relazione di potere assoluto che viene istituita con la persona sottoposta al dispositivo della pericolosità sociale, vediamo gli aspetti istituzionali che caratterizzano le misure di sicurezza. Non è qui il caso di aprire una riflessione critica sulle misure di sicurezza che non hanno carattere psichiatrico e che vengono comminate alle persone in aggiunta alla pena detentiva, i cosiddetti internati, persone quindi che per una pericolosità sociale loro attribuita, vengono reclusi in misura di sicurezza detentiva (le cosiddette case di lavoro o colonie agricole) dopo aver finito la pena³. Subiscono quindi di fatto una seconda pena che si aggiunge alla pena già scontata, potendo arrivare, a discrezione del giudice valutante la pericolosità sociale della persona, anche proprio a raddoppiare la pena.
Dagli Opg alle Rems
Ci sono voluti molti anni di impegno sociale critico per arrivare al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari⁴. Volendo riassumere brevemente i punti salienti di questo impegno si possono richiamare: il degrado umano generato da queste istituzioni, il loro agire minando la salute mentale delle persone internate anziché curarla, l’indeterminatezza della misura di sicurezza prorogabile all’infinito anche per reati di lieve entità che ha fatto si che le persone si trovassero di fatto condannate a un “ergastolo bianco”. In seguito alle immagini di degrado e abbandono girate nei sei Opg italiani dalla Commissione d’inchiesta del Senato nel 2012, è iniziato un percorso anche legislativo (l. 9/2012 e l. 81/2014) che ha portato alla sostituzione degli Opg con le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
Le Rems sono a gestione sanitaria, dirette quindi da un responsabile medico. Sono previste con ridotta capienza di posti letto, al massimo venti, e dovrebbero operare in modo collegato con i servizi di salute mentale territoriali. Sono attualmente trenta in tutta Italia, con diffusione regionale e con circa 600 posti. Una delle trenta strutture però deriva dalla trasformazione in Rems dell’Opg di Castiglione delle Stiviere in Lombardia, che, in deroga a quanto fissato per legge, vi vede concentrate ben centocinquantuno persone, centotrentatré uomini e diciotto donne, il ventisette per cento di tutta la popolazione delle Rems.
All’interno delle Rems vengono internate persone giudicate in via definitiva incapaci di intendere e volere al momento del reato, considerate socialmente pericolose e quindi sottoposte a misura di sicurezza detentiva. Ci finiscono internate però anche persone che sono ancora in attesa di giudizio relativamente alla loro non imputabilità. Quindi in queste strutture ci sono in gran numero, persone per le quali la misura di sicurezza risulta provvisoria e che potrebbero quindi stare fuori, in assistenza territoriale, invece si trovano nelle Rems come fossero in custodia cautelare, occupando il posto di altre persone per le quali è stato disposto in via definitiva il ricovero in Rems e che per mancanza di posti vengono tenute in carcere. Per paradosso, quindi, non potendo le Rems internare più di venti persone a struttura, nelle celle delle carceri italiane sono detenute in attesa molte persone con sofferenza psichica, sottoposte in via definitiva alla misura di sicurezza, e che quindi non dovrebbero stare in carcere. Una di queste era Valerio Guerrieri, morto suicida nel febbraio 2017 nella sua cella del carcere di Regina Coeli a Roma.
Questi fatti sostanziano un retaggio dell’Opg nelle nuove istituzioni. In poche parole lo sguardo istituzionale prevalente su una persona che commette un reato in una condizione di sofferenza psichica, si riduce a essere quello dell’attribuzione della pericolosità sociale con il relativo dispositivo custodiale; ciò anche a causa del depauperamento a più livelli, dei servizi di salute mentale della sanità pubblica territoriale. La logica istituzionale ancorata alla pericolosità sociale in sostanza è come se seguisse uno schema: piuttosto che essere inviato in libertà, un sofferente psichico autore di reato, viene inviato in Rems, e se in Rems non ci sono posti, piuttosto che essere inviato, in attesa, in libertà, viene arbitrariamente detenuto in carcere. Sembra uniformarsi a questo sguardo anche una recente sentenza della Corte costituzionale (131/2021), che sostanzialmente afferma che ciò che caratterizza la misura di sicurezza detentiva è la privazione della libertà e la coercizione alle cure.
L’ergastolo bianco
Si ritiene da più parti che la definizione del termine di durata massima della misura di sicurezza detentiva introdotta dalla legge 81, costituisce una innovazione di portata storica, che abolirebbe di fatto la possibilità dell’ergastolo bianco. La riforma del 2014 ha infatti sancito che la misura di sicurezza detentiva, provvisoria o definitiva, non possa mai superare la durata della pena massima prevista per il reato che alla persona è stato attribuito. Per il quale però la persona è di fatto ritenuta non imputabile nel caso del riconoscimento di una “infermità mentale”. A chi non sia un addetto ai lavori, può apparire una bizzarra acrobazia che a una persona assolta dal reato per non imputabilità, venga poi applicata come soglia temporale per la sua misura di sicurezza detentiva il massimo di pena previsto per quel reato. Il legislatore ha voluto precisare inoltre che questa norma di un calcolo del tempo massimo, non si applica ai reati puniti con la pena dell’ergastolo. Quindi queste persone pur essendo riconosciute non imputabili, se confermate nella loro pericolosità sociale a ogni revisione, possono essere recluse in misura di sicurezza detentiva anche fino alla morte.
Questo nuovo principio introdotto per superare il rischio di indeterminatezza della durata, investe tutte le misure di sicurezza detentive e quindi viene applicato anche agli internati in casa di lavoro o in colonia agricola cui in precedenza abbiamo fatto riferimento. Inoltre la cessazione della misura di sicurezza detentiva, per il compimento del suo termine massimo, non è automatica, ma deve essere accertata e dichiarata in sede giudiziaria.
Mi sono soffermato fin qui, per sommi capi, sulla normativa introdotta con la legge 81/2014 per dire che la cessazione della misura di sicurezza detentiva in una Rems, anche se parametrata, ove possibile, al massimo della pena temporale prevista per il reato attribuito alla persona, non sta nell’orizzonte dell’internato come il fine pena certo del detenuto. Quando la pena è agganciata al reato, e non interviene il dispositivo della pericolosità sociale, essa sta nell’orizzonte del recluso come un tempo da contare e da “scontare”. Con l’intervento dell’attribuzione della pericolosità sociale, la vita della persona, il suo destino, si disloca nelle mani del giudice, e la libertà si sposta comunque dall’ordine dei diritti, a quello delle concessioni. In questo senso è la pericolosità sociale, più che la stessa misura di sicurezza, a istituire una relazione di potere assoluto, fra le istituzioni che giudicano e valutano e chi è giudicato e valutato, molto simile a quella dell’ergastolo, che si è radicato nella storia come potere totale sulla vita e sulla morte di una persona⁵.
A conferma di ciò è bene chiarire che se per la misura di sicurezza detentiva in Rems è stato posto un termine di durata massima, questo limite non vale per la pericolosità sociale. In poche parole, se si è commesso un reato la cui pena massima è cinque anni, in sede giudiziaria viene dichiarato dopo cinque anni che l’internato può uscire dalla misura di sicurezza detentiva ma non dalla pericolosità sociale, che non ha un termine di durata massima. La persona quindi, persistendo l’attribuzione di pericolosità sociale, non va in libertà ma le possono essere imposte forme diversificate di libertà vigilata⁶. L’attraversamento istituzionale che Luigi narra riguarda proprio una forma custodiale della misura di sicurezza della libertà vigilata.
La misura di sicurezza della libertà vigilata
Con una ordinanza del tribunale a Luigi Gallini, dopo l’esperienza del reparto “il Sestante”, viene revocata la misura cautelare della custodia in carcere e applicata, prima in via provvisoria e poi definitiva, la misura di sicurezza della libertà vigilata, che, stante l’attribuzione della pericolosità sociale, prevede varie prescrizioni. L’obbligo di seguire il programma terapeutico e di partecipare ai colloqui presso il centro di salute mentale della Asl che lo ha in carico. L’obbligo di soggiornare presso la struttura residenziale psichiatrica alla quale verrà assegnato, la “comunità forense” ad “alta protezione” che Luigi descrive. Il divieto di allontanamento dalla struttura che non sia previamente concordato con il personale. L’ordinanza infine prevede che Luigi debba essere scortato presso la comunità forense dalla polizia penitenziaria, quindi in base a tutto ciò che abbiamo detto in precedenza, verifichiamo che a Luigi non viene concesso neppure un momento di libertà con la scarcerazione. Viene infine indicata l’autorità di pubblica sicurezza per la vigilanza su queste prescrizioni. Mi sono soffermato sull’ordinanza perché essa ci fornisce il quadro d’insieme delle istituzioni implicate nella gestione della pericolosità sociale attribuita a Luigi. Anche se la misura di sicurezza prescritta non è detentiva ma di libertà vigilata, essa presenta tutte le caratteristiche di una istituzione totale: controllo sovradeterminato dello spazio, del tempo, delle relazioni, della terapia.
Il testo di Luigi, che con dovizia di particolari descrive la sua quotidianità e quella delle altre persone ristrette nella struttura, risulta significativo per comprendere in concreto l’esperienza che lui fa di questa istituzionalizzazione.
I dispositivi che emergono sono diversi. Il primo riguarda lo sradicamento sociale e relazionale che l’esperienza consumata in questa misura di sicurezza porta con sé. Questo fatto induce a chiedersi, non da addetti ai lavori, ma da umani, come si possa curare fuori dalla relazionalità, e non accogliendo e valorizzando la storia sociale, professionale, le culture, proprie della persona. Tutto ciò che caratterizza la storia e la vita di Luigi appare completamente azzerato. Inoltre, mi permetto di aggiungere che il meccanismo della non imputabilità da cui tutto deriva, mina alla radice un’altra caratteristica propria dell’umano: la responsabilità. Tant’è che una delle richieste dei movimenti di critica agli ospedali psichiatrici giudiziari rivendicava e rivendica che vengano cambiate proprio le norme del codice penale che riguardano la non imputabilità della persona collegata con l’attribuzione dell’incapacità di intendere e volere.
Il secondo dispositivo riguarda la terapia che viene somministrata e che Luigi è obbligato a assumere. Mi sembra importante evidenziare che lui non la racconta come un beneficio ma come l’induzione di un sonno chimico, che, si potrebbe dire, va a minare anche la relazione della persona con se stessa.
Nella comunità di psichiatria forense in cui mi trovo, osserva Luigi, siamo molto sedati: dormiamo tutti quattordici ore al giorno o più! Dormiamo più del cinquantotto per cento della nostra vita. Il personale è poco, carente e oberato di lavoro. Dovendo gestire un “folle reo” recluso, indurlo a dormire per buona parte del suo tempo, è forse la soluzione più economica del problema. Mi chiedo quale impatto sulla nostra fisiologia, sulla nostra salute e sulla nostra psiche, avrà questo invasivo intervento narcolettico. Il suo effetto sul mio umore è devastante: mi sento avvizzire il cuore.
Il terzo dispositivo di potere che Luigi denuncia consiste nell’attesa governata dall’indeterminatezza. L’attesa riguarda la concessione della revoca della pericolosità sociale, l’indeterminatezza che la governa attiene al potere discrezionale del giudice e alla valutazione delle istituzioni psichiatriche che lo hanno in custodia.
Sapere che sarai liberato, scrive Luigi, solo quando lo deciderà il giudice e solo allora, induce in uno stato psicologico devastante. Quello che ti auguri è che la tua pratica non finisca nel dimenticatoio del Palazzo di giustizia, come è capitato a tanti altri sfortunati. Qualcuno di noi, come me, è appena giunto in questo luogo che non è luogo, ma vi sono persone “dimenticate” da 3, 5 e perfino da dodici o diciotto anni. In questo non-luogo si è certi di quando si entra, ma non di quando si esce. L’incertezza è sfibrante.
Lo stato psicologico devastante e l’incertezza sfibrante percepite da Luigi appaiono come il portato, non certo curativo, del fatto che il potere decisionale sulla sua vita si è spostato totalmente in mani istituzionali.
Auspici
Mi auguro che questo testo contribuisca a generare momenti di lavoro collettivo per una critica sociale profonda del dispositivo psichiatrico giudiziario, in nome anche di reali possibilità di cura relazionale della sofferenza mentale, quindi non basate sul “sonno chimico”. Un tale lavoro che non può prescindere dal punto di vista di chi vive l’esperienza delle nuove istituzioni psichiatrico giudiziarie. In questo senso Luigi offre un contributo significativo. La sollecitazione che emerge dalla sua narrazione ci dice che sarebbe bene interrogarsi proprio su qu¹ei punti, che appaiono intoccabili, delle norme del codice penale che riguardano la pericolosità sociale, le misure di sicurezza e, come osservavo prima, anche la non imputabilità. Ciò in considerazione anche del fatto che sull’attribuzione della pericolosità sociale, articolata attraverso dispositivi di limitazione della libertà ad personam, si va modellando l’insieme delle istituzioni reclusive e dei dispositivi di controllo sociale.
Auspico inoltre che lo sforzo che Luigi ha fatto di raccontare con diversi linguaggi la condizione in cui versa, che le risorse creative a cui ha attinto per dire: “Vi ricordate di me? Esisto”, che questo stesso libro possa costituire un momento e uno strumento per consentirgli di ricostruire la socialità e la relazionalità che sono necessari all’umano per ricrearsi nelle condizioni anche estreme di difficoltà.
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¹ Ai reclusi condannati a pene detentive che si ammalano di gravi sofferenze psichiche in carcere, dopo la legge 81 del 2014, venivano negate anche possibilità di cura alternative alla detenzione nel sistema penitenziario come a esempio la detenzione domiciliare, il ricovero in luogo di cura, l’ affidamento terapeutico. Solo dopo una sentenza della Corte costituzionale del 2019 il giudice potrebbe disporre anche per gravi malattie psichiche, come per le malattie fiche incompatibili con la detenzione carceraria, che il detenuto venga curato fuori dal carcere, potendo concedere, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga”.
² Per un approfondimento sul processo di manicomializzazione del carcere: Salvatore Verde, Il carcere manicomio, Sensibili alle foglie, 2011.
³ L’art. 216 c.p. assegna a una colonia agricola o a una casa di lavoro sostanzialmente coloro che sono stati giudicati essere delinquenti abituali, professionali o per tendenza. È difficile non vedere nelle misure di sicurezza della casa di lavoro e della colonia agricola una semplice duplicazione della pena detentiva, tanto dal punto di vista teorico che concreto. Le case di lavoro sono in tutto simili a sezioni carcerarie ordinarie. Come in queste ultime, il lavoro tende a mancare. La misura di sicurezza viene spesso prorogata, anche a fronte di una bassa pericolosità sociale, a causa della mancanza di reti sociali esterne che possano prendere in carico la persona. Al 28 febbraio 2022, erano 280 gli internati nelle carceri italiane, lo 0,5 per cento del totale dei presenti. (Antigone, XVIII rapporto, 2022). Per alcuni internati la misura di sicurezza detentiva viene eseguita in sezioni carcerarie e addirittura persone giudicate socialmente pericolose che sono arrivate al fine pena in regime di 41 bis, si trasformano in internati in misura di sicurezza permanendo nelle sezioni di 41 bis. Alla fine del 2021 erano 4 gli internati sottoposti al 41-bis, tutti nel carcere di Tolmezzo.
⁴ Francesco Maranta (a cura di), Vito il recluso. Opg: una istituzione da abolire, Sensibili alle foglie, 2005.
⁵ Nicola Valentino, L’ergastolo, Sensibili alle foglie, 2009; Nicola Valentino, Le istituzioni dell’agonia. Ergastolo e pena di morte, Sensibili alle foglie, 2017.
⁶ In una ordinanza del mese di maggio 2019, l’Ufficio di Sorveglianza di Mantova si esprime in merito al riesame della pericolosità sociale di una persona in relazione alla misura di sicurezza detentiva eseguita presso il Sistema Polimodulare R.E.M.S di Castiglione delle Stiviere (MN). La misura di sicurezza, “in conformità a quanto previsto dalla legge n. 81 del 2014, non poteva essere ulteriormente prorogata in considerazione dell’approssimarsi della scadenza del termine di durata massima previsto. Il Magistrato, però a fronte dell’evidenziato residuo profilo di pericolosità sociale ancora presente nonostante l’approssimarsi del termine di scadenza di durata massima, ritiene di dover trasformare la misura di sicurezza detentiva in libertà vigilata, ex lege 81 del 2014, per la quale non è previsto un termine di durata massima”.
N.B. La numerazione delle note di questo estratto non corrisponde a quella del libro, dal momento che alcune sono state sostituite da collegamenti ipertestuali. Per la consultazione e la citazione della bibliografia si rimanda al volume originale.
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