Venerdì 7 luglio il nuovo numero de I Siciliani Giovani sarà presentato a Napoli (ore 18,00 all’ex Opg – Je so’ pazzo, in via Imbriani 218). La presentazione sarà l’occasione per discuterne con il direttore Riccardo Orioles e con Ivana Sciacca e Daniela Calcaterra della redazione catanese. Pubblichiamo a seguire un articolo apparso sull’ultimo numero cartaceo del giornale.
Il giornalista tipico – parliamo dei giornali dei grandi editori – un tempo era un giornalista professionista, assunto con regolare contratto “ad articolo 1”, che prevedeva stipendio, assistenza sanitaria, contributi previdenziali (trattenuti ogni mese in busta-paga) e alcune garanzie etiche, di cui la principale era la (indispensabile) tutela delle fonti. Si diventava professionisti attraverso un percorso abbastanza selettivo: alcuni anni di “biondino” (factotum redazionale), poi cronista di strada, poi – se andava bene – diciotto mesi di praticantato, infine l’esame di stato, davanti a una commissione di colleghi anziani, formalmente presieduta da un magistrato. Non era autorizzato a svolgere altri lavori, dovendosi interamente dedicare alla professione.
Queste regole, in teoria, vigono ancora. In pratica – anche in giornali e siti di grandi editori – il giornalista medio tecnicamente non è più un “professionista” ma un “pubblicista”. Che vuol dire? Vuol dire che ha uno stipendio bassissimo, con zero o pochissimi contributi, che ha un rapporto di lavoro precario, senza un vero contratto, che può essere licenziato (“non rinnovato”) a fine anno e che giuridicamente la tutela del suo lavoro è affidata al buonumore di un giudice o alle mani di Dio. Per arrivare a tanto ha dovuto sostenere un esame abbastanza costoso, al termine del quale è stato solennemente insignito di un tesserino che non gli dà diritto praticamente a niente, salvo (se la cassiera è gentile) a entrare gratis nei cinema e dirigere, se vuole, l’ebdomadario del suo paese. I giornali, i siti, i malefici “uffici-stampa” dei vari enti e comuni non lo “assumeranno” tuttavia (“assumere” in senso moderno, cioè precariamente) se non “tesserato”, prassi che da eccezione è diventata la norma. Si finge, cioè, che non importi il tipo di tesserino, purché tesserino vi sia: solo che uno costa all’editore diverse migliaia di euro al mese e l’impaccia con fastidiosi diritti, mentre con l’altro se la cava con qualche centinaio di euro brevi manu (“Ma com’è buono, Lei!”. “E non te le andare a bere!”).
Tutto ciò oggi è perfettamente legale e previsto da appositi “contratti” a tempo. Il direttore di un giornale non ha alcun contratto regolare, vecchio o nuovo. È assunto, anzi ingaggiato, intuitus personae, cioè con un accordo personale con l’editore. Costui può licenziarlo quando vuole, senza spiegazione alcuna, semplicemente perché gli è venuto meno l’intuitus iniziale. Se il direttore è furbo, si sarà cautelato inserendo delle clausole riparatorie, a livello civile, più o meno come una sposina ben consigliata. Ma la sua permanenza dipende esclusivamente dal capriccio del padrone, come – per restare in metafora –per una moglie in un sistema di sharia.
Il direttore ha poteri pienissimi su tutti i suoi giornalisti (salvo i più anziani, tutelati dall’art.1). Pubblica o non pubblica a suo piacere. Spesso il suo lavoro lo tiene a contatto più con l’ufficio pubblicità e la proprietà che con la redazione; è più un intellettual-politico che un giornalista. Poi vengono i “quadri” del giornale, capiservizi e capiredattori. Costoro, per via dell’età, posseggono dei contratti. Sono loro la vera ossatura del giornale. Un tempo, alle riunioni di redazione, il loro parere era decisivo. Ora per lo più le riunioni, solitamente brevi, consistono nelle comunicazioni del direttore o (anche) della pubblicità. Rituali quelle per dare al neodirettore il “gradimento” redazionale, del tutto ininfluente. Infine, l’ultima ruota del carro, il redattore. Redattore per modo di dire, visto che è in genere un precario con “contratti” strani che un tempo sarebbero stati definiti lavoro nero. Il redattore obbedisce al caposervizio (con l’unico diritto, in caso di dissenso, di ritirare la firma). Il caposervizio al caporedattore e questi, perinde ac cadaver, al direttore. Il direttore, scelto e tenuto là dall’editore, è istituzionalmente l’uomo del padrone. Questo sistema, da tempo abolito nelle fazendas colombiane e nelle miniere, regge i giornali italiani.
I giornalisti hanno un sindacato e un Ordine, e anche i maniscalchi e i cocchieri ne avevano (probabilmente) una volta. Poi arrivarono le automobili, e strane figure nuove come il meccanico e l’autista. E l’Ordine, e il sindacato? Restarono a gestire le carrozze o aprirono le file ai nuovi lavoratori del mestiere? È esattamente il problema di adesso. Delle figure nuove del giornalismo (il blogger e il webbista, per esempio) ignoriamo del tutto l’esistenza. Non è sempre stato così: grafici e fotoreporter, essenziali per i giornali, a suo tempo furono accettati (non pacificamente) nell’Ordine dei giornalisti. E perché non i nuovi professionisti di adesso? E i giornalisti precari, cioè quasi tutti i reali giornalisti? E quel ridicolo tesserino di pubblicista che funzione ha, a parte giustificare il precariato? Perché non tornare al sano e concreto concetto di professionista, con doveri precisi e precisi diritti? Perché l’articolo 1, così odiato dagli editori, non dovrebbe tornare a essere la regola e non un’eccezione? I giornali son sempre di meno (la fusione Repubblica-Stampa e il golpe del Corriere ne hanno ridotto il numero praticamente a due). L’informazione sta scomparendo dal paese. C’è pochissimo tempo per savarla. Possiamo farlo solamente noi.
Una riforma? Proviamo a buttar giù qualche idea.
1 Allargamento del riconoscimento professionale a tutte le figure che concorrono alla produzione.
2 Revisione dei poteri del direttore. Deve godere della fiducia del comitato di redazione e non solo di quella dell’editore. Le assunzioni debbono essere concordate, con criteri professionali, fra redazione e direttore e non decise, su suoi criteri, dall’editore.
3 L’editore è tenuto a rispettare i principi-base della professione: diritti del giornalista, rifiuto del precariato, regolarizzazione d’ufficio dei precariati esistenti, certificazione ufficiale e pubblica dei relativi parametri di legge. Un’azienda che paga quattrocento euro al mese un redattore dev’essere puramente e semplicemente cancellata da ogni contributo pubblico, non solo dai finanziamenti ma anche da tutti i benefici indiretti.
4 Divieto di partecipazione determinante di banche e gruppi industriali alla proprietà delle aziende editoriali. Sanzione anche penale del conflitto d’interessi in editoria. (riccardo orioles)
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