Il 14 aprile cinque appartamenti occupati in via Scarsellini, nella periferia sud di Torino, sono stati sgomberati dall’amministrazione della città e dalla polizia. Gli alloggi sono di proprietà di Atc (l’Agenzia territoriale per la casa) e da più di tre anni erano occupati “abusivamente” – così scrivono i giornali – da famiglie rom. Negli articoli leggo che in via Scarsellini sono finite in strada otto famiglie “con trenta bambini”. Certo, le foto dell’orsacchiotto di peluche abbandonato tra i sacchi di plastica nera o dei bimbi che osservano inermi gli uomini in divisa durante le operazioni di sgombero sono immagini difficili da farsi scappare – non lasciano indifferenti nemmeno i cuori più aridi – e il giornalismo torinese è capace di alternare stigma e pietismo.
Non è una sorpresa provare malessere nel leggere la cronaca locale de La Stampa o Repubblica; ma è più intensa l’amarezza quando le notizie si trovano confezionate nel peggiore dei modi, impastate con le roboanti dichiarazioni dei rappresentanti politici, infarcite ora di ipocrisia, ora di luoghi comuni spalmati come ovvietà, evitando l’analisi dei nodi cruciali di quelle stesse vicende. Nessuno menziona, per esempio, gli sgomberi e le distruzioni occorse nei decenni, o le ragioni per cui queste persone avevano occupato. E nessuno ha scritto la storia di queste famiglie: molte – se non tutte – provenienti da baraccopoli cancellate in passato dalle stesse istituzioni.
Il comune di Torino è responsabile degli sgomberi in sequenza di diversi campi di baraccati dove vivevano migliaia di persone senza casa, rom e non rom. Nel 2015 (amministrazione Pd, sindaco Fassino) è avvenuto lo sgombero violento dell’enorme baraccopoli di Lungo Stura Lazio, che esisteva a Torino da almeno quindici anni: qui vivevano a inizio 2013 circa duemila persone. Lo sgombero era il culmine del progetto chiamato “La città possibile”, ideato e gestito dal Comune, che operava grazie ai fondi del ministero dell’interno provenienti dal decreto “Emergenza nomadi” a firma Roberto Maroni, decreto poi dichiarato illegittimo dalla Corte di Cassazione.
Dopo aver speso più di cinque milioni di euro, coinvolgendo la Croce Rossa di Torino ed enti del terzo settore, poche famiglie, selezionate ad arbitrio delle associazioni come “meritevoli”, venivano sistemate in affitto sul mercato privato o in “social housing”; in seguito, finiti i fondi disponibili erogati dal progetto, i beneficiari erano costretti ad abbandonare la nuova “casa” per timore dello sfratto o in seguito alla sua esecuzione. Intanto, la maggior parte delle altre persone che vivevano nel campo, già escluse dal progetto e sgomberate con la forza, raggiungeva altri insediamenti di Torino: le baraccopoli in corso Tazzoli, via Germagnano o altri margini.
Dal 2016 (con l’amministrazione Cinque Stelle, sindaca Appendino) il Comune è stato responsabile di nuovi sgomberi ai danni di persone povere, rom e non rom. A giugno 2018 è stato sgomberato, dopo tredici anni, il campo di corso Tazzoli. L’unica alternativa abitativa per le circa duecento persone cacciate nel giro di due giorni era una tendopoli allestita dal Comune: l’offerta aveva durata temporanea, dal 5 all’11 giugno 2018. A novembre dello stesso anno è stata svuotata e distrutta una parte dell’insediamento informale di via Germagnano dove vivevano molti nuclei allontanati in precedenza dal campo di Lungo Stura Lazio. Erano gli anni del “Progetto speciale campi nomadi”. Nel corso del 2019, è stato sgomberato l’insediamento di via Reiss Romoli (circa sessanta persone), vicino alla ferrovia, ed è avvenuta la chiusura e la distruzione del campo istituzionale di via Germagnano 10, creato con fondi pubblici nel 2004 dalla giunta Chiamparino (qui vivevano circa novanta persone). Tra aprile 2019 e agosto 2020 – in piena pandemia – sono state distrutte tutte le restanti baraccopoli di via Germagnano, lasciando circa seicento persone in strada. E ancora tra il 2019 e il 2022 sono continuati sgomberi e allontanamenti da parte delle forze dell’ordine di decine di residenti dei campi più vecchi di Strada dell’aeroporto, creati e gestiti dal Comune a partire dagli anni Ottanta.
Gli sgomberi avvengono sempre con modalità violente e senza offrire alcuna reale alternativa abitativa; eppure sui giornali, in base alle dichiarazioni della politica, questi e altri interventi di espulsione forzata sono narrati come sgomberi “dolci”, come allontanamenti “senza tensioni”, salvo qualche tentativo di usare l’operazione spettacolare delle ruspe ai fini della propaganda. Dopo ogni sgombero, coloro che hanno visto la propria baracca distrutta cercano di sopravvivere negli interstizi della città, dormendo su un materasso buttato in strada o sotto un ponte. Molte famiglie iniziano a vivere in camper e sostano dove è possibile, spesso sono minacciate e allontanate dalle forze dell’ordine, costrette a sostare in luoghi isolati, dove è anche più facile essere vittime di violenze e antiziganismo.
Quello che lascia la distruzione degli insediamenti è un insieme diffuso e mobile di pratiche razziste e oltraggi sistematici. I giornali che hanno scritto delle famiglie rom che occupavano in via Scarsellini non fanno parola di queste vicende. Non si fa menzione della storia della segregazione abitativa e amministrativa dei gruppi etichettati come “rom”, che è antica e strutturale, e prodotta dalle stesse istituzioni.
I giornali riferiscono anche di “alternative abitative” rifiutate dalle famiglie di via Scarsellini: “Da mesi – si scrive – servizi sociali e polizia municipale stanno lavorando per quelle famiglie a soluzioni abitative alternative in alloggi di housing sociale”. Eppure, quali siano queste fantomatiche soluzioni non è dato sapere. Accade che l’unica proposta avanzata alle famiglie sia quella di mettere le madri nei centri di accoglienza ma con un figlio solo, gli altri bambini da soli nelle comunità, i padri per strada. D’altra parte l’opacità viene utile nei discorsi, se applicata ad arte. Sono i rom che creano problemi con il vicinato, allora le istituzioni si adoperano per difenderli con uno sgombero e loro infine rifiutano persino le alternative proposte.
Nelle stesse pagine di giornale l’attuale assessore cittadino alle politiche sociali Jacopo Rosatelli (Sinistra Ecologista) commenta lo sgombero del 14 aprile richiamandosi al necessario ripristino della legalità e in particolare difende l’operazione perché “in quegli stabili c’era un grosso problema di tenuta sociale”. “Abbiamo protetto i più deboli, tutti e trenta i bambini erano in pericolo”, continua Rosatelli. Insomma, l’espulsione è un atto per favorire la convivenza civile.
In un incontro pubblico sul tema, avvenuto due soli giorni prima dello sgombero, il 12 aprile, lo stesso assessore ha elargito dichiarazioni premonitrici. Gli sgomberi, per Rosatelli, sarebbero addirittura “umanitari”. Riporto le frasi dell’assessore registrate perché sono un documento dei nostri tempi: «Esistono forme di illegalità lesive della dignità altrui, dei diritti altrui e dell’equilibrio di convivenza che vanno contestate, nell’interesse delle persone tutte e, dico di più, anche nell’interesse delle persone che possono essere nelle condizioni di occupazione e che, se vengono esposte a forme incontrollate di reazione violenta, da parte di chi vive con loro, possono mettere a repentaglio la loro stessa vita». Ecco, lo sgombero è anche una «forma di protezione, nei confronti di persone sulle quali potrebbero scatenarsi forme di micro-pogrom e di violenti istinti espulsivi».
Il medesimo discorso viene applicato da Rosatelli anche in riferimento agli interventi della polizia municipale nei confronti dei “senza dimora” che vivono in strada: la priorità è anche in quel caso quella di «salvare una tenuta della convivenza». «Se si creano situazioni dove angoli di città sono eccessivamente sollecitati, non si riesce a tenere [l’equilibrio del tessuto sociale, ndr]. Se su quelle zone non si fa un intervento, allora non saremo noi a vincere, ma saranno altri con più forza, con più argomenti». In sintesi: è meglio che gli sgomberi e gli allontanamenti dei poveri e dei marginali siano operati dai progressisti, e umanitari, per evitare l’intervento degli altri, dei razzisti.
In questi discorsi si evita accuratamente di toccare lo snodo centrale: la crisi abitativa in città. Le persone non hanno la casa, vengono sfrattate, vivono in strada. Molti tra coloro che sono in situazione di bisogno e che vorrebbero richiedere una casa popolare non riescono neppure a fare domanda, o a raggiungere il punteggio minimo richiesto, mentre Atc, le cui risorse sono sempre più limitate, collassa per cattiva gestione. Ci sono famiglie che vivono in camper da almeno tre anni (con figli minori) – sono state sgomberate tra il 2018 e 2019 da campi autorizzati creati e gestiti dal Comune – e hanno fatto domanda di casa popolare all’Atc almeno un decennio fa, soddisfacendo i requisiti. Complessivamente a Torino ci sono un migliaio di appartamenti vuoti su un totale di 17.869 alloggi Atc, eppure nessuna cronaca menziona il disastroso rapporto numerico tra le case disponibili e le persone che ne avrebbero bisogno.
L’unica risposta dell’assessorato alla crisi abitativa è un quadro di retorica e di promesse che vengono annunciate da anni intorno al problema dei senza dimora in città. Anche in questo caso le soluzioni proposte, oltre che inadeguate, sono numericamente ridicole. A maggio 2022 questa amministrazione aveva annunciato che Torino avrebbe messo in campo un “approccio nuovo” con settecento posti letto forniti dal circuito privato e pubblico e investimenti di dodici milioni di euro. Questo intervento è definito nel “piano integrato per il sostegno alle persone senza dimora” ed è stato siglato da Comune, Città metropolitana, la Asl locale e l’Arcidiocesi. Dove siano questi posti letto non è chiaro.
La gestione dei seicento posti per l’inverno 2022-2023, dichiarati di bassa soglia, ma solo in minima parte ad accesso diretto, è rimasta invece quella di sempre, nonostante il “cambio di passo” sbandierato da vari rappresentanti governativi. Ovvero una gestione incentrata su alcuni dormitori comunali e sul sito di “emergenza umanitaria” rispondente al “piano inverno” in via Traves (70 posti letto “estendibili” a 120, in 37 container), a cui sono state aggiunte un paio di nuove sedi di “emergenza freddo” dai numeri molto contenuti (14 persone in corso Sebastopoli 262; 30 in via Bologna 26; 4 in via Giolitti, oltre a 24 posti per minori in via Spalato). Quest’inverno, in via Traves, nel quartiere di Lucento-Vallette, lontano dagli sguardi, chi vi dormiva mi ha raccontato che sono entrate per notte anche fino a sette persone per container. Non ci vogliono grandi capacità di calcolo per stupirsi di come il quadro di queste “soluzioni proposte” non possa che essere fallace e miserabile, considerando solo che, secondo un censimento dei servizi (e con un numero che si ritiene sottostimato), ci sono almeno 2.500 senza fissa dimora in città.
Allora i numeri del problema sono enormi, e si fa un gran parlare di qualche posto letto in più in una nuova struttura, di una casa occupata in meno, di “soluzioni abitative” che nessuno vuole accettare. Come per le famiglie di via Scarsellini, la soluzione è, semplicemente, cancellare queste persone dalla mappa. Loro hanno la colpa di non potersi permettere una casa e di trovare comunque un modo per sopravvivere; la colpa di non accettare soluzioni o di non restare docili nei progetti in cui terzo settore, enti caritatevoli e istituzioni decidono riguardo alla loro vita. Che gli sgomberi siano spinti dagli imperativi del decoro e della “sicurezza”, o che siano invece umanitari, non fa differenza: sono risposte analoghe a un problema strutturale – sociale ed economico – che nessuno vuole o è in grado di affrontare. (stefania spinelli)
Leave a Reply