Il prossimo 16 febbraio verrà presentato a Milano il numero 3 de Lo stato delle città, in un incontro pubblico presso lo Spazio Ligera (via Padova, 133), durante il quale si discuterà di esclusione abitativa, di strumenti di analisi (dati, risorse, politiche, leggi) e di lotta.
Pubblichiamo a seguire un articolo di Salvatore Porcaro che analizza i risultati del rapporto Senza (s)campo, ricerca sul sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati pubblicata dall’associazione Naga, i cui attivisti sono invitati a partecipare al dibattito di domenica.
Lo scorso dicembre, l’associazione di volontariato Naga – che opera a Milano per garantire assistenza socio-sanitaria e diritti ai cittadini stranieri, rom e sinti – ha presentato il rapporto Senza (s)campo, un’indagine qualitativa sul sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. La ricerca, che si è concentrata su Milano e provincia e si è svolta tra gennaio 2018 e novembre 2019, ha visto coinvolti diversi volontari dell’associazione ed è stata realizzata attraverso sopralluoghi sul campo, interviste e raccolta di dati.
Senza (s)campo è il terzo rapporto realizzato dall’osservatorio del Naga, dopo l’apertura nel 2001 del centro Naga-Har per richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tortura. Il primo, (Ben)venuti!, è stato pubblicato nel 2016 e riguarda le condizioni di vita nei centri di accoglienza straordinari (CAS) di Milano e provincia. Il secondo rapporto, (Stra)ordinaria accoglienza, pubblicato un anno dopo, approfondisce l’indagine sui CAS mettendo al centro da un lato le storie e le aspettative dei richiedenti asilo, dall’altro le voci degli operatori che lavorano nelle strutture di accoglienza.
L’esigenza di quest’ultima indagine nasce con l’approvazione nel 2018 del cosiddetto decreto Salvini in tema di immigrazione e sicurezza, sia per valutare gli effetti del decreto sul sistema nazionale di accoglienza, ma soprattutto per “tenere traccia” dei richiedenti asilo e rifugiati che non hanno più diritto all’accoglienza, e di quelli che, pur avendone diritto, non riescono ad accedervi. Un percorso che ha portato i volontari del Naga a fare i conti con un fenomeno più ampio: il diritto all’abitare, che non riguarda solo richiedenti asilo e rifugiati, ma anche molti cittadini stranieri e italiani in difficoltà.
Senza (s)campo è introdotta da una prefazione di Sergio Bontempelli, presidente dell’associazione Africa insieme di Pisa, il quale ricorda come le finalità originarie del Sistema nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), nato nel 2001, siano state con il tempo stravolte passando dalla proposta di un modello virtuoso di accoglienza a vere e proprie forme di controllo, sorveglianza e segregazione. Questo processo, iniziato nel 2011 con la cosiddetta emergenza Nord Africa, secondo Bontempelli, non è attribuibile esclusivamente alla politica nazionale, e dunque alla riforma Minniti e al decreto Salvini. Molte responsabilità vanno ricercate nei contesti territoriali e tra i vari attori coinvolti: prefetture, amministrazioni locali ed enti gestori, che, ben prima delle riforme del governo Conte, hanno agito distorcendo il significato originario dell’accoglienza.
UN QUESTIONARIO PER GLI ENTI
Il rapporto del Naga prende il via dall’analisi delle misure introdotte dal decreto Salvini e si sofferma sugli effetti che queste norme hanno avuto sul sistema di accoglienza e in particolare sulla novità maggiore che riguarda l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e la cessazione delle misure di accoglienza per i titolari di protezione umanitaria. Segue poi un’analisi del nuovo “Capitolato per la fornitura di beni e servizi per la gestione e il funzionamento dei centri di prima accoglienza” che riduce la quota pro die pro capite da trentacinque euro a una cifra compresa tra diciannove e ventisei euro, a seconda della grandezza del centro. Un taglio netto che penalizza i piccoli centri a favore delle strutture più grandi, e che riguarda tutti i servizi per l’integrazione, dall’apprendimento della lingua italiana ai corsi di formazione, ma anche quelli medici, infermieristici e psicologici.
Per capire più a fondo gli effetti di questi cambiamenti, il Naga ha inviato un questionario a trentaquattro enti gestori dei CAS di Milano e provincia che operano in convenzione con la prefettura. Venti di loro hanno risposto raccontando le scelte fatte a seguito dei nuovi bandi per l’affidamento dei servizi di accoglienza dei migranti. Dai loro racconti emerge che molti enti di fronte al taglio netto dei fondi hanno deciso di non partecipare ai nuovi bandi, altri invece, che vi hanno partecipato, hanno dovuto ridurre i servizi per l’integrazione che offrivano precedentemente. Inoltre, la gran parte degli enti ha dovuto riorganizzare le risorse interne, spostando alcuni operatori su altri servizi, non rinnovando i contratti a tempo determinato, facendo ricorso a licenziamenti individuali o riducendo l’orario di lavoro.
Dalle risposte degli enti gestori emerge anche con più chiarezza qual è stato il destino degli ospiti. I richiedenti asilo e rifugiati, che si trovavano in CAS di enti gestori che hanno deciso di non partecipare ai nuovi bandi, sono stati spostati in altri CAS su ordine della prefettura di Milano. I titolari di protezione internazionale sono stati trasferiti nel sistema di protezione Sprar/Siproimi, anche in strutture situate al di fuori della regione Lombardia. Nella maggioranza dei casi questi trasferimenti – circa mille e cento – sono stati comunicati dalla prefettura con pochi giorni di anticipo e sono avvenuti senza un accompagnamento degli ospiti nelle nuove strutture. Inoltre, molti ospiti hanno preferito rifiutare il trasferimento e cercare in autonomia altre soluzioni abitative. Per i titolari di protezione umanitaria, che hanno perso il diritto all’accoglienza, i trasferimenti hanno riguardato solo alcuni casi, quelli più vulnerabili, che sono stati ricollocati in accordo con il comune di Milano in diverse strutture: alloggi per l’autonomia, comunità mamma/bambino, dormitori. In altri casi sono stati gli enti gestori a garantire l’ospitalità in forma gratuita a coloro che ne avevano perso il diritto.
A Milano, osserva il Naga, accade anche che coloro che hanno diritto all’accoglienza, in quanto richiedenti di protezione internazionale, non riescano ad accedervi. Questo succede perché la procedura da seguire non è del tutto chiara e lineare a causa dei continui rimpalli di competenze tra prefettura, questura e comune. Ma anche perché tale diritto non viene esplicitato ai richiedenti asilo al momento della presentazione della domanda in questura e l’accesso si basa unicamente sull’attivazione dei richiedenti, che spesso non sanno di poterne usufruire. Chi riesce ad accedervi, può vedersi revocato tale diritto per svariati motivi: abbandono del centro di accoglienza, mancata presentazione all’audizione, presentazione di una domanda reiterata, disponibilità di mezzi economici sufficienti, violazione delle regole della struttura in cui si è accolti.
Secondo i dati resi noti dalla prefettura di Milano, nel periodo compreso tra l’1 gennaio 2018 e il 31 agosto 2019, le revoche alle misure di accoglienza sono state 534, di cui 435 per abbandono del centro di accoglienza senza preventiva e motivata comunicazione in prefettura. Quest’ultimo dato è il risultato, spiega il Naga, di un forte e preoccupante irrigidimento dei controlli delle presenze nei CAS. Un irrigidimento imposto dalla prefettura agli enti gestori che ora devono “immediatamente” comunicare l’assenza di un ospite, mentre in passato gli operatori avevano la possibilità di valutare le ragioni della mancata comunicazione e verificare se questa era giustificabile per motivi di lavoro o personali.
INSEDIAMENTI INFORMALI
Questa realtà ha spinto i volontari del Naga a indagare sui luoghi dove trovano ospitalità i cittadini stranieri che escono dal sistema di accoglienza o che non vi accedono, anche se ne avrebbero diritto. I sopralluoghi, iniziati a gennaio 2018, sono stati coordinati con l’unità di medicina di strada della stessa associazione, che durante le uscite registrava una presenza sempre maggiore di richiedenti asilo o titolari di protezione umanitaria negli insediamenti informali diffusi in città. L’esito di queste visite, che si sono ripetute nel tempo, è un quadro abbastanza dettagliato di tali insediamenti e delle persone che li abitano.
Gli insediamenti informali sono classificati secondo alcune tipologie: strutture e spazi all’aperto abbandonati, palazzine in disuso, piazze e giardini pubblici. Nel primo gruppo rientrano vecchi capannoni industriali, ex magazzini ferroviari o militari, edifici sportivi in disuso, costruzioni non finite, ex scali ferroviari. Si tratta di ampi spazi coperti o aperti, ma privi di acqua e luce, dove in alcuni casi vengono costruite piccole baracche che proteggono dal freddo e delimitano uno spazio più intimo e privato. In altri casi questi luoghi sono utilizzati solo come rifugi notturni e le sistemazioni, con materassi e sacchi a pelo, sono più precarie e temporanee.
Questi insediamenti, in particolare quelli che nascono negli spazi all’aperto, sono poco visibili dagli abitanti della zona, perché protetti da recinti e vegetazioni alte. Per questo attirano sempre più persone, spesso già sgomberate da luoghi più esposti, e sono quelli che hanno la maggiore probabilità di espandersi.
Nel secondo gruppo rientrano gli edifici per uffici, le scuole o altri complessi con funzioni pubbliche non utilizzati da tempo. In questi casi le condizioni di vita sono più accettabili. Le occupazioni nascono a seguito di azioni collettive sostenute da movimenti per il diritto alla casa e per il sostegno ai cittadini stranieri. L’impegno politico facilita una gestione comunitaria degli spazi, la possibilità di ottenere acqua e gas e quella di rivendicare le proprie istanze alle istituzioni interessate. Inoltre, queste sistemazioni consentono agli abitanti di accedere più facilmente ad alcuni servizi cittadini, quali l’anagrafe, la scuola, l’assistenza legale. Anche queste occupazioni però sono soggette a sgombero, ma a differenza di quello che accade negli altri casi, la presenza di un gruppo ben strutturato e organizzato politicamente tutela maggiormente gli abitanti e può evitare il rischio di una dispersione sul territorio.
La terza e ultima tipologia è quella delle piazze e giardini pubblici. In questi luoghi dormono piccoli gruppi di persone che costruiscono giacigli di fortuna con cartoni, giornali e coperte che nascondono durante il giorno. Queste persone a volte formano piccole comunità che condividono la preparazione dei pasti o la custodia dei beni. Anche questi insediamenti, che solitamente sono stabili, vengono sgomberati e distrutti il più delle volte per ragioni di decoro urbano.
Insieme alla descrizione dei luoghi, i ricercatori del Naga forniscono anche molte informazioni sull’identità delle persone che abitano questi luoghi: richiedenti asilo; titolari di protezione; stranieri appena arrivati in Italia che non hanno ancora formalizzato la richiesta di protezione; stranieri in Italia da molti anni che hanno perso il lavoro e sono senza documenti; stranieri con regolare permesso di soggiorno; rom con cittadinanza rumena, bosniaca o italiana; cittadini italiani per nascita. Alcuni richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale sono usciti dal sistema di accoglienza per scelta personale oppure perché i progetti Sprar a cui hanno avuto accesso si sono conclusi. Provengono da diverse regioni e hanno scelto Milano attratti dalla possibilità di trovare lavoro o per la presenza di una comunità di connazionali. In questi casi la permanenza in un insediamento informale è breve perché attraverso la rete amicale riescono a trovare un letto in un appartamento condiviso. Altri sono stranieri che hanno perso il lavoro e, non avendo una rete familiare o amicale che li possa aiutare, non hanno più la possibilità di pagare un alloggio. Queste persone rischiano di perdere anche il permesso di soggiorno o lo hanno già perso, e tornano a essere irregolari dopo tanti anni trascorsi in Italia. Altri ancora non sono in grado di lavorare per problemi di salute, ma non riescono ad accedere ai sussidi statali perché privi di residenza. Un problema questo che riguarda oggi molti richiedenti asilo ai quali è negata l’iscrizione anagrafica, e a cui il report del Naga dedica un approfondimento a cura di Enrico Gargiulo, docente di sociologia all’Università di Bologna.
SGOMBERI SENZA ALTERNATIVE
Davanti alla crescita degli insediamenti informali, il comune di Milano ha reagito in modo repressivo attraverso sgomberi, anche ripetuti, e senza offrire soluzioni alternative alle persone che li abitavano. Questi aspetti, sgomberi e politiche comunali, sono affrontati nella parte conclusiva dell’indagine, che si conclude con un insieme di proposte per garantire maggiori diritti ai migranti accolti o esclusi dal sistema di accoglienza nazionale.
Negli ultimi anni, ci ricorda il Naga, sono state emanate nuove norme che facilitano l’esecuzione degli sgomberi. Le più rilevanti sono contenute nel cosiddetto decreto Minniti in materia di sicurezza delle città (2017). Un decreto che prevede la stipula di appositi “patti”, sottoscritti tra prefetto e sindaco, e l’istituzione di un Comitato metropolitano. Il decreto dà nuovi poteri al sindaco per adottare ordinanze contro l’incuria e il degrado del territorio; e in materia di allontanamenti e divieto di accesso a specifiche aree (Daspo) amplia i luoghi dove è possibile applicare queste misure. Compito del prefetto è inoltre quello di istituire, nei casi in cui sono coinvolte persone con fragilità, una Cabina di regia per definire un piano di misure emergenziali per la loro tutela.
Dopo il decreto Minniti, il ministero dell’interno ha emanato due circolari per la sua attuazione. Nella prima si definiscono i compiti della Cabina di regia e del Comitato metropolitano. Nella seconda si richiama la necessità di attuare gli sgomberi con tempestività, rinviando alla fase successiva la tutela delle persone in condizioni di fragilità. Onere che viene delegato completamente ai comuni che attraverso i servizi sociali dovrebbero effettuare il censimento degli occupanti e individuare i soggetti per i quali attivare misure di sostegno. Nel 2018 è stato poi emanato il decreto Salvini, in tema di immigrazione e sicurezza, che ha ampliato ulteriormente l’ambito di applicazione del divieto di accesso in specifiche aree urbane – il Daspo urbano – come i presidi ospedalieri, gli spazi destinati a fiere, mercati e pubblici spettacoli.
A Milano, l’attuazione di queste norme ha portato alla stipula del Patto per la sicurezza (maggio 2018), alla convocazione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (settembre 2018) e soprattutto a un’ondata di sgomberi. Nel rapporto si elencano tutti i casi noti all’associazione. Il 30 marzo 2018 vengono sgomberati gli ex uffici e magazzini dell’Aeronautica militare. Il 2 aprile l’ex scuola elementare Mazzini in via Zama. Il 7 maggio l’ex scalo ferroviario di Porta Romana. Il 12 giugno alcuni appartamenti in via Palmanova di proprietà del comune di Milano. Il 3 settembre viene sgomberato l’ex palazzo Alitalia a Sesto San Giovanni occupato dal collettivo Aldo dice 26×1. A gennaio 2019 vengono allontanate decine di migranti che avevano trovato ospitalità nell’ex palazzetto dello sport di Lampugnano, recentemente acquisito al patrimonio comunale. Altri allontanamenti di migranti sono stati effettuati sotto il cavalcavia nei pressi del centro di accoglienza di via Corelli.
Secondo diverse testimonianze, nella maggioranza dei casi questi sgomberi non sono stati comunicati in anticipo agli abitanti e quando ciò è avvenuto l’intento era solo quello di fare allontanare le persone prima dell’effettivo sgombero. Gli stessi poi sono stati effettuati senza proporre soluzioni alternative. In alcuni casi – gli appartamenti di via Palmanova e gli ex uffici dell’Areonautica militare – sono state sgomberate famiglie con minori senza la presenza di assistenti sociali. In generale, nella pianificazione degli interventi sembra che venga data attenzione solo ad alcune fragilità: donne con bambini e soggetti particolarmente vulnerabili, mentre per la maggioranza delle persone che si trovano in condizioni di estrema povertà ed emarginazione non è previsto alcun tipo di intervento comunale. Infine, nella scala di priorità degli interventi, sembrano prevalere gli interessi economici legati alla valorizzazione delle aree occupate. È il caso dell’area di Porta Romana che rientra nell’accordo di programma per la riqualificazione degli scali ferroviari dismessi; quello dell’ex area militare in zona Forze Armate, per la quale la società Invimit ha presentato una proposta di trasformazione, ma anche dell’ex palazzetto dello sport di via Palmanova dove il Comune ha previsto la realizzazione di uno stadio da hockey per le Olimpiadi invernali del 2026.
Per superare l’attuale emergenza il Naga propone di uniformare l’accoglienza agli standard qualitativi richiesti dal Siproimi, eliminando le due tipologie oggi presenti. Garantire l’accoglienza anche a coloro che oggi ne sono esclusi, a partire dalla presentazione della domanda di protezione internazionale fino all’esito della procedura. Porre fine alla revoca delle misure di accoglienza senza che prima sia valutata la particolare situazione del richiedente. Mettere in rete le strutture di accoglienza con i servizi del territorio per avviare gli ospiti a un processo di autonomia e integrazione. Attuare una politica regionale specifica per l’inserimento lavorativo di richiedenti asilo, titolari di protezione e cittadini stranieri.
Il Naga chiede che le commissioni territoriali tengano in considerazione qualunque aspetto dimostri il radicamento sul territorio e non solo i motivi di fuga dal paese di origine e che l’ufficio anagrafe accetti l’iscrizione dei richiedenti asilo. E poi, che siano tollerati gli insediamenti informali presenti in città e che questi non siano sgomberati fino a quando non siano messe a disposizione concrete ed efficaci soluzioni abitative; che siano censiti inoltre tutti gli stabili vuoti presenti sul territorio che potrebbero essere messi a disposizione dei senza fissa dimora; che venga sospeso quanto prevede l’art. 5 del decreto Lupi sull’impossibilità di chiedere l’allacciamento delle utenze a chi vive in stabili occupati. Sia istituita la figura del garante per dare una risposta a chi ha redditi bassi per gli attuali canoni e vengano reintrodotti i contributi previsti per sostenere le spese di affitto, una volta che richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale sono usciti dal sistema di accoglienza. (salvatore porcaro)
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