Cronaca di un viaggio con la scuola ad Auschwitz e Birkenau per il giorno della memoria
Ci sono le cose che ti aspetti perché, in fondo, un viaggio con la scuola è sempre un viaggio con la scuola che comincia alle otto del mattino con una telefonata: «Prof mamma ha fatto la pizza salsicce e friarielli, posso portarla?». Prima di capire che sei sveglia senti la tua voce rispondere: «Ok ma i documenti li avete?». Gli insegnanti hanno un chiodo fisso in queste occasioni: perdere qualche alunno e non avere i documenti in regola, i ragazzi hanno il loro: non avere abbastanza da mangiare, in generale e – in questo caso – essere ridicoli vestiti “da neve”. Sì, perché andiamo in Polonia e se c’è una cosa su cui ci hanno bombardato i responsabili della Provincia è che farà freddo, un freddo che non ne abbiamo nemmeno idea. Questo è il terzo anno che la Provincia paga, per la Settimana della Memoria, un viaggio ad alcuni studenti delle scuole di Napoli e provincia che li porta al campo di concentramento di Auschwitz e al campo di sterminio di Birkenau. Nel 2006 fu scelta un’unica scuola di Napoli per un esperimento pilota, nel 2007 quattro classi di quattro scuole, quest’anno, per la prima volta, sono partite rappresentanze di undici scuole (tre di Napoli e otto della provincia) più tre delle scuole che avevano già fatto quest’esperienza negli anni passati. I numeri sono importanti. Siamo quasi settanta, ci incontriamo all’aeroporto di Capodichino. C’è un’aria un po’ strana; un viaggio con la scuola prevede almeno il doppio del guardaroba di una normale settimana a casa, il doppio della lampade abbronzanti (per chi le fa), il doppio delle cure di bellezza (tutti i ragazzi del gruppo in partenza hanno le sopracciglia depilate) e questo c’è. Ma si avverte anche altro nell’aria. Nelle testimonianze degli anni passati, nei video preparati dai ragazzi partiti l’anno scorso c’era forte l’idea di una specie di viaggio “definitivo”, andare ad Auschwitz e tornare cambiati per sempre. Forse si è insistito troppo su questo tasto, forse si è attivata una specie di sfida… ma vuoi vedere che con tutto quello che ci hanno fatto vedere, con tutto quello che abbiamo letto, ascoltato in queste settimane lì davvero succederà qualcosa a cui non siamo preparati?
Arriviamo a Cracovia nel pomeriggio, dopo due ore di volo che per alcuni era il primo. Il cambio in slotj ci rende subito ricchi e segna la prima frontiera: non siamo più a casa. Joanna, la nostra guida, ce lo ricorda nell’autobus verso l’albergo, dovremo abituarci al cibo che è diverso, qui mangeremo soprattutto le zuppe, “il carni” e le patate. L’ingenua Joanna non sa che, in questi tre giorni, potremmo sostenerci anche solo con i viveri portati dalla patria. La mamma di Salvatore, infatti, non è stata l’unica a pensarci digiuni in terra straniera. Appena sbarchiamo in albergo, nel centro della città, osservo – a tratti commossa – barbuti insegnanti alle prese con interi carichi di insaccati in busta, collaboratrici della Provincia controllare la tenuta stagna di bottiglie di extra vergine d’oliva, perfino Sara, una delle mie alunne, esile con un giunco, estrarre dallo zaino un numero imprecisato di panini al prosciutto crudo che ci accompagneranno per l’intero triduo. Dopo cena ci riuniamo in un salone al sesto piano dell’albergo da cui si vede tutta la città, sembra bella. Ci sono i ragazzi, gli insegnanti, un paio di presidi, l’assessore Cortese, il presidente Di Palma. E poi c’è Guido Sacerdoti. In questo viaggio non è facile capire chi accompagna chi. Guido Sacerdoti è venuto ad Auschwitz con noi per la prima volta. Ad Auschwitz è morto quello che sarebbe stato suo zio, se gliene avessero lasciato il tempo; un ragazzo di Torino, giovane e bellissimo, di cui parla Primo Levi ne La tregua. Guido Sacerdoti è nato dopo, quella storia l’ha sentita raccontare, l’ha studiata ed è venuto a raccontarla a noi, proprio lì. E ci racconta, con onestà netta, la sua piccola manìa, qualcosa da cui nemmeno il tempo l’ha messo a riparo. «Ogni volta che mi allaccio le scarpe sento una voce, dentro di me, che mi dice: fai presto – sbrigati – stanno arrivando i nazisti».
Guido Sacerdoti è un laico, viaggia con noi per farsi delle domande che, probabilmente, ciascuno di noi si faceva già prima e continuerà a farsi dopo, cita fonti e dati ma non ha soluzioni. Ci sono ragazzi allora – come Nicolò o Federico o Laura – che hanno voglia di fare loro delle domande e di farle in un modo che, in realtà, significa non farle le domande. «Perché non si dice che dietro l’operazione di Hitler c’erano i soldi degli ebrei, perché non se ne parla?» Come se davvero tra tutti quelli morti ad Auschwitz o a Birkenau ci siano state le schiere di banchieri alla Rotschild e «perché non si dice che il Congresso degli USA è composto al 70% da persone di origine ebrea» o «perché devo sentirmi meglio se, oggi, il governo del mio paese vota la Bossi-Fini?». Restiamo a parlare fino all’una di notte e capisco la loro tentazione, per una volta ti capita l’occasione di stare lì, di fronte al Potere politico, davanti a tutti e dire la tua, su tutto, perché ce n’è da dire. La prima notte va come va in questi casi: tutti nella stanza più grande, totale ore di sonno uguale zero. Al mattino dopo partiamo presto per Auschwitz, che è il nome tedesco di un piccolo centro a mezz’ora da Cracovia, fa freddo ma non ancora quel freddo che ci avevano detto. Ci siamo vestiti, come ci avevano detto, con i pantaloni da neve e i doposci. Sara protesta: «Non c’è bisogno e siamo ridicoli vestiti come i pinguini». “Arbeit mach frei” in ferro arrugginito ci accoglie e ci passiamo sotto, Salvatore e Raffaele si avvicinano «ci sarà pure chi si farà la foto come davanti a un monumento, eh?». Mi colpisce il loro atteggiamento. L’hanno ripetuto più volte che non hanno voglia di farsi fotografare o riprendere (ci sono anche dei cineoperatori in viaggio con noi) in «un posto così». Il campo di Auschwitz non è grande (questo, però, lo capiremo a Birkenau) sono sei ettari di edifici dell’esercito austriaco che i nazisti occuparono per stivarci gli Ebrei dal 1940. Era al centro della Polonia e ben collegato con le ferrovie di tutt’Europa. Entriamo negli edifici di mattoni rossi in fila, c’è molta gente e molti gruppi di studenti ma tutto avviene in un silenzio innaturale. I primi edifici raccontano la vita nei campi: l’arrivo, la selezione, la camera a gas. All’inizio, fino al 1942, i nazisti fanno molte foto, servono per documentare il “valore” dei soldati che sperano di ottenere premi alla fine del conflitto e servono per schedare i prigionieri. Dal 1943 si cambia, però, le foto sono costose e non servono a riconoscere gli uomini e le donne rinchiusi nel campo che, a poche settimane dall’arrivo, non sono più le persone ritratte in posa frontale e di profilo; si passa al tatuaggio che associa ogni persona a un numero e ne diventa il nome. Le pareti di due edifici interi sono ricoperte di queste facce, sotto due date: l’arrivo al campo e la data di morte. Qualcuno non dura una settimana. Nell’ultimo corridoio, sotto due foto distanti, qualcuno che è riuscito a riconoscere una faccia, un nome, una storia, ha messo un fiore strappando quei volti a una serialità feroce. Passiamo negli edifici che raccontano i materiali e le speranze con cui gli ebrei sono arrivati qui: migliaia di spazzolini da denti, vasi da cucina e da notte, scarpe (faccio fatica a fissare lo sguardo), matasse di milioni di capelli, protesi, occhiali, lucido da scarpe, ciucciotti, valigie su cui è segnato a grandi lettere l’indirizzo; quando si parte si può perdere tutto, meglio essere previdenti. Mi fa male lo stomaco. Una ragazza, dietro di me, piange forte, uscire da ogni edificio sembra a tutti, sempre più, una boccata d’aria, una liberazione. Inizia a nevicare. Restiamo ad ascoltare Sergio che insegna storia e filosofia e parla dell’autobiografia in cui Rudolf Hess, il comandante di Auschwitz, descrive il peso del suo lavoro, così impegnativo che non riesce a godersi i suoi cinque figlioletti che vivono in una casetta all’interno del campo, vista sulla camera a gas. Sarà impiccato lì di fronte, a un palo che c’è ancora.
Sono passate quattro ore quando lasciamo Auschwitz. I miei alunni si perdono nel tragitto parcheggio-ristorante. A tavola si parla poco: l’esame di maturità, i libri letti, le medie, qualcuno dice: «Mi aspettavo… e invece…». La neve cade e copre tutto. Birkenau è peggio, molto peggio secondo me. Ad Auschwitz hanno usato edifici che c’erano già, progettati per gli uomini. Birkenau è stato costruito a posta, con un’intenzione e con un metodo che fanno ancora impressione. Birkenau è enorme. Centottanta ettari. Centottanta ettari significa che vedi solo quello. Da ogni lato solo baracche, torri di controllo, filo spinato. E un binario che finisce lì, perché lì tutto sembra finire. Ci muoviamo piano lungo i bracci del campo, quelli che separano le baracche femminili da quelle maschili, fatichiamo a muoverci per la neve e fatichiamo a muoverci e basta. Ci vuole mezz’ora solo per arrivare in fondo al viale centrale. E noi abbiamo appena mangiato e finalmente anche i vestiti “da pinguini” ci stanno servendo. Ora anche l’idea che qualcuno sia riuscito a incontrarsi all’interno del campo mi sembra un miracolo. Inizia a fare scuro, arriviamo a quello che resta dei forni crematori, macerie di mattoni e travi e cenere. Il ritorno fino all’uscita del campo è ancora più lento. Molti ragazzi in autobus dormono e quando dormono sembrano davvero piccoli. Dopo cena ci incontriamo ancora al sesto piano, siamo seduti in cerchio, più vicini di prima. Nessuno osa trarre conclusioni. Marco parla di tutti noi, delle intolleranze che viviamo, del pericolo che uno stato ne faccia legge e dia il diritto di sopruso a tutti, ma comincia: «Io pure non sopporto quello che fanno le donne ucraine o gli zingari che cercano l’elemosina…». Silenzio. La morale è che il nonno di Marco ha sposato una signora che lavorava da lui come badante. E la morale è che stiamo tornando a casa e non è facile cambiare davvero. (brunella basso)
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