Due notti movimentate al servizio di innamorati delusi. Racconto di un posteggiatore murale
Questo mese sono stato a Venezia e ho visto per la prima volta la biennale di Architettura.
Equamente divisa tra apocalittici e integrati, con parentesi di simpatica propaganda latinoamericana, mi è sembrata così lontano da tutto quanto vivo quotidianamente che quando mi è successo quanto segue ho tirato un profondo sospiro di sollievo.
Dunque, è andata più o meno così: mi telefona uno del vecchio palazzo di mia madre (periferia occidentale, un palazzo costruito da privati ma destinato ai terremotati dell’ottanta, ora perlopiù di ceto medio analfabetizzante). Mi dice che Salvatore, uno della 167 a cui ho già disegnato la sirenetta nella stanza della figlia anni fa, mi cerca per un affare importante, un genere di richieste a cui è difficile sottrarsi. Primo, perchè loro sono il sistema. Secondo, perché “la curiosità nacque con l’universo”.
Cemento amato
Prendiamo un appuntamento e mi racconta che “s’è spartuto cu ‘a mugliera” e che vorrebbe fare pace a tutti i costi. «Domani è il suo compleanno – mi dice – Amm’ fa ‘na scritta sott’ ‘o palazzo suoje». Ci tiene così tanto che la cosa venga come dice lui che mi chiede una penna e mi fa uno schizzo su un mio libro. Non è la prima volta che mi capitano questo genere di commissioni e io adoro farmi dirigere da loro, perdermi in un’estetica fatta di cose semplici, forse banali, ma sincere e impregnate di un alone di magia. Un po’ come gli uomini preistorici disegnavano le prede che avrebbero catturato nella prossima battuta di caccia, una causa che deve generare inevitabilmente un effetto. «Robbè ‘o frat’, amma scrivere iu ar mi engel». E continua: «Cu ‘nu cuore c’adda parlà sul’isso». Quando mi riaccompagna si ferma a “fare una questione” con uno: parlano di rispetto, mazzate, galera, tarantelle varie. Mi trovo immerso in una discussione a dir poco accesa, poi, dopo le grida, si danno appuntamento la sera per un caffè insieme: amici come prima. Mi porta alla Cumana, mi da dei soldi per i colori e minaccioso mi invita a non “appenderlo”.
Ci rivediamo dopo la mezzanotte. Viene con un amico che conosce bene le sue vicende con la moglie e ne condivide le speranze di riappacificazione. Mi lasciano davanti al muro, enorme e grigio, sotto il quale scorre una fogna a cielo aperto con zoccole annesse che scorazzano indisturbate. Comincio armato di rulli, vernici e pennelli, loro fanno da palo girando con la macchina avanti e indietro. Ogni volta che ritornano, mi danno suggerimenti su come fare: «Fai le ali al cuore – ‘a sfumatura bianca, m’arraccumanno – ‘o bordo preciso». Li rassicuro che è solo l’inizio. Mi chiedono apprensivi se voglio qualcosa da mangiare, da bere, fumare, tirare…
La strada è deserta, solo topi e un cane, qualche rara automobile. Uno si ferma e mi chiede il numero perchè vorrebbe fare lo stesso per la sua donna. In meno di un’ora ho finito, lui felicissimo, per quanto la scorza della sua pelle tesa non lascia trasparire emozioni. Con due dita mi schiocca la guancia destra e portandosele alla bocca se le bacia: «Grazie fratè». Questo pizzicare la guancia è tipico tra zii e nipoti, o comunque tra chi ha una consistente differenza d’età. Io e Totore siamo nati lo stesso anno, ma nel nostro caso questa differenza è lo stile di vita: lui, zio, ha due figlie e le tarantelle; io, nipote, un ragazzino che disegna e si accontenta di poco.
In macchina insiste per cornetto e cappuccino. Sono ormai quasi le due e dietro la cassa del bar sta in bella mostra una foto formato gigante del padre morto del gestore abbracciato con Mario Merola. Le luci sono al neon, bluastre, di quelle che rendono livide le persone che illuminano. Salvatore mi da cento euro – «vanno bene?», dice. Benissimo penso. Ne avevo proprio bisogno. Ma non capisco se il bisogno era di soldi o dell’esperienza umana, l’esigenza (dopo Venezia) di un’arte legata (forse incatenata) alla realtà. Per quanto squallida essa sia.
Post scriptum
Sono passate due settimane. Mi richiama Salvatore, mi dice che il suo amico, quello che faceva il palo insieme a lui, vorrebbe fare lo “stesso servizio” per la sua donna. Gli faccio capire che è meglio parlarne da vicino – stanno facendo nuove leggi, sai? – gli do appuntamento in un luogo che già da tempo alcuni pittori hanno preso di mira. È un posto tranquillo dove si va a dipingere di giorno senza timore di essere arrestati. Salvatore e Lino, è così che si chiama l’altro, si avvicinano mentre Francesco, uno dei pittori che sta cambiando pian piano l’aspetto di quel luogo, è a quattro metri d’altezza su uno scaletto d’alluminio. Mi chiedono cosa facciamo. Sto insegnando a disegnare a quel ragazzo lassù, gli dico scherzando. Il disegno è un’enorme maschera, forse ispirata dai tanti lavoratori a nero neri che passano da quelle parti. Dalla bocca, leggermente equina, sputa una scritta: laqqua di tutti al suo mulino. «Nunn’o riesco a’ acchiappà», mi fa Salvatore perplesso. Chi? Cosa? Gli chiedo. «Stù disegno… nunn’o riesco a’ acchiappà». Gli spiego che viene da qualcosa che neanche noi riusciamo ad acchiappare fino in fondo e che per questo tentiamo di dargli ogni volta forme diverse. I punti interrogativi sembrano materializzarsi nell’aria, sulle nostre teste. «È over ch’a legge vosta è nun gli ‘ncuollo a’ natu disegno?». Confermo, e Lino mi racconta che è un po’ come quando loro non toccano le mogli di quelli che stanno in carcere. Poi chiedo a Salvatore com’è andata a finire con sua moglie. Non si è mossa di un centimetro pare: «Va a fernì c’a sparo», dice innervosito. Abbozzo un timido: ma chi te lo fa fare? Poi va a finire che vai pure in galera. Con la vita che facciamo – conclude –, prima o poi ci vai a finire, tantovale andarci per qualcosa che hai scelto tu. Poi ritornando a noi, mi spiega i dettagli della posteggia murale.
La dedica
Solito appuntamento dopo la mezzanotte, solita strada deserta. Cambia la scritta, che stavolta è tratta da una canzone di Gigi D’Alessio. Sì, mi rendo conto, sembra che sto sguazzando in un mare di clichè arcinoti. Ma l’immaginario di certi ambienti è tanto prevedibile quanto devastato.
Inizia a fare freddo, faccio in fretta. Voglio ritornare a casa quanto prima. In meno di venti minuti scrivo con un rullo bianco “Nel castello la mia regina sei tu”. La o di castello è un cuore fucsia con sfumature rosse e colpi di luce bianchi, la edi regina è sorvolata da una corona con triplice punta. Mi riaccompagnano Salvatore e quello del vecchio palazzo di mia madre che mi mostra fiero il suo nuovo tatuaggio, una croce con la scritta I belong to Jesus. Il tachigrafo del Suv nero (i vetri pure) segna in un assurdo bluetto i centocinquanta mentre una scritta rossa avverte: Troppo Veloce! (cyro)
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