Disruption. Non ricordo più dove e quando ho sentito per la prima volta questa parola. Forse in qualche conferenza, uscita dalla bocca di un operatore logistico terrorizzato. Nel linguaggio dell’universo marittimo portuale il concetto si riferisce a qualsiasi arresto nei nodi di produzione e distribuzione della catena di fornitura, di cui i porti sono gli snodi centrali, le “infrastrutture critiche”. Sono le otto di mattina e sia il varco Albertazzi che il varco di Ponte Etiopia restano presidiati dalla notte prima. Il porto di Genova, in altre parole, è fermo. Raggiungo a piedi il varco di Ponte Etiopia e, rispetto a tutte le altre volte, di camion in entrata e in uscita non se ne vedono. Di rumori in banchina non se ne sentono. I sindacati confederali hanno indetto ventiquattro ore di sciopero in tutti i porti italiani per protestare contro l’auto-produzione e per ribadire la necessità di maggiore sicurezza sul lavoro. Viviamo in un un paese con ottomila chilometri di coste e cinquantotto porti di rilevanza strategica nazionale, riorganizzati dalla recente riforma in quindici nuove Autorità di Sistema Portuale che rappresentano i nodi della catena logistica del trasporto merci, in continuità con i corridoi della rete trans-europea dei trasporti che collegano l’Italia all’Europa, dal Baltico all’Atlantico, e alle reti del Mediterraneo. Eppure, di questo sciopero nazionale non ne ha parlato quasi nessuno.
I blocchi dello scorso marzo
Qualche mese fa i blocchi ai varchi furono selvaggi, durarono due giorni a causa della morte di un camionista ai gate del terminal container di Voltri e per solidarietà ai lavoratori della Compagnia Portuale “Pietro Chiesa”, che proprio oggi, venerdì 11 maggio 2018, va in liquidazione dopo oltre cento anni di storia. Le code dei camionisti che da trentasei ore stavano in cabina a bestemmiare si perdevano a vista d’occhio durante il blocco dei varchi, i disagi si propagarono fino all’autostrada fermando la circolazione da Genova a Piacenza, a Torino, a Milano. Negli interporti avevano proclamato lo stato d’allerta meteo per non far uscire i camion. Ecco cosa vuol dire disruption: piazzi dei cassonetti dell’immondizia di traverso al varco principale, ti siedi lì, dai fuoco ai copertoni, se necessario litighi coi camionisti mentre una nube di fumo nero infesta l’aria, accendi una serie di fumogeni e si blocca tutto quello che c’è prima o dopo.
Anversa, Rotterdam, Genova
Sono alcuni anni che frequento il porto di Genova. Ho dovuto aspettare il tempo necessario, metabolizzare tutto ciò che ho ascoltato, osservato e ricordato prima di scrivere qualcosa sul primo porto in Italia per volumi di merci movimentate. Ho studiato i dettagli e imparato a conoscere un mondo tanto affascinante quanto contraddittorio, con la sua forza lavoro fuori dalla storia e al contempo esposta alle minacce della globalizzazione economica, all’arroganza di armatori e terminalisti. Una forza lavoro con le sue regole scritte, non scritte e circoscritte in un perimetro che ne definisce con precisione i rapporti sociali e i vincoli contrattuali. Un luogo, il porto, in cui il lavoro resta rischioso, usurante, professionalizzato, sempre più automatizzato, per certi versi pagato a cottimo, organizzato all’istante, turno dopo turno, giorno dopo giorno, nave dopo nave, con una flessibilità che aumenta in proporzione all’intensità dei traffici.
L’estate scorsa, mentre vivevo nei pressi della Maddalena, per distrarmi nel tardo pomeriggio passeggiavo verso i magazzini del cotone del porto antico, dietro calata Molo Vecchio. Di fronte avevo il Sech – Southern European Container Hub. Osservavo il mare, la nave ormeggiata in calata Sanità, le ralle che aspettavano il container che scendeva dalla gru di Paceco, e mi venivano in mente gli indicatori delle performance e la resa lorda nave, la struttura organizzativa del lavoro tra dipendenti fissi e flessibili, permanenti e occasionali. Pensavo che quel terminal era niente in confronto a ciò che mesi prima avevo visto ad Anversa e a Rotterdam, eppure restavo ipnotizzato da quel ciclo operativo perché da tre anni ne studiavo i dettagli, scomponevo le variabili della filiera del container, ascoltavo e conoscevo portuali “cottimisti di natura”, e poi sindacalisti, agenti marittimi, spedizionieri, operatori, insomma tutta quella comunità umana che ruota intorno alla merce e soprattutto la gente che si mette i guanti e va a lavorare in calata e nei terminal di primo, secondo, terzo o quarto, nei turni spezzati e anticipati, di giorno o di notte, nei week-end e festivi – la merce non deve stare ferma.
Il porto di Genova, nel frattempo, l’ho girato “in lungo e in lungo”, perché di largo in questo porto non c’è niente. Stretto nella morsa tra la dorsale appenninica e il mare, ho imparato ad apprezzarlo insieme all’area urbana che si sviluppa lungo tutta la costa da Levante a Ponente. Ventidue chilometri partendo da Foce a est, passando per il porto antico e arrivando a Voltri a ovest, laddove è situato il maggior terminal container dell’Alto Tirreno. Una superficie di circa sei milioni di metri quadrati di terra, uno specchio d’acqua di quindici milioni di metri quadrati protetti da una diga foranea. Più di centocinquanta servizi di linea con oltre quattrocento porti nel mondo, il primo terminal container del bacino del Mediterraneo inaugurato negli anni Sessanta. Più o meno venticinque terminal specializzati e gestiti da imprese terminaliste private che trafficano container, merce varia, merce deperibile, acciaio, prodotti forestali, rinfuse solide e liquide, prodotti petroliferi e ovviamente passeggeri tramite crociere e traghetti.
Il corteo unitario
Ora cammino al suo interno con uno di loro che mi dice che c’è gente a Genova che non sa niente del porto e di quello che succede qua dentro. «Le vedi quelle gru di Paceco? Sembra che stiano con le mani in alto», mi fa. È un socio lavoratore della Compagnia Unica, un portuale che tempo addietro nel corso di un’intervista mi aveva spiegato il tipo di flessibilità che esige la merce dai camalli in questo modo: «Oggi pomeriggio se tu mi chiedi, ci vediamo? Non lo so, devo aspettare il messaggio dei turni di lavoro che arriva entro le undici. Ci vediamo stasera? Non lo so, devo aspettare il messaggio dei turni di lavoro che arriva tra le cinque e trenta e le sette. Ci vediamo domani? E devo aspettare fino alle sette e mezza… Nel frattempo siamo entrati in porto che eravamo giovani, siamo andati avanti nella vita come tanti altri, quindi come compagni, mogli, figli… e cominci a dire che non sai se ci sei per andare a prenderli a scuola, non sai se ci sei per accompagnarli all’allenamento, per fare la spesa, le cose normali della vita, che sembra strano ma alla lunga… io credo che di cinquecento, purtroppo almeno quattrocento sono separati. Non sei un punto di riferimento, sei un punto interrogativo: c’è, non c’è, forse…».
Siamo di ritorno dal corteo che è partito dalla sala chiamata di San Benigno, nei pressi della lanterna, ed è arrivato in prefettura passando per Palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità di Sistema Portuale. Un bel corteo, partecipato, determinato, assordante. Unitario (l’incubo che non fa dormire la notte la controparte). Circa mille portuali hanno sfilato in direzione del centro, tra una serie di ralle e altri mezzi che aprivano e chiudevano un corteo che a Genova non si vedeva da tempo, composto soprattutto da giovani, uomini piuttosto arrabbiati che inveivano contro il presidente dell’Autorità, che urlavano cori del tipo: «Camalli, noi siamo, e il culo vi rompiamo!»; che intonavano a più riprese, tra i fumogeni e le bombe carta, i versi in dialetto dei trilli:
O trilli trilli trilli t’æ ciû musse che mandilli
mandilli no ti n’æ , t’æ ciû musse che dinæ
o gnao gnao gnao m’ou belin comme t’é cäo
e fotto fotto fotto m’ou belin comme t’é brûtto
e semmo de Zena e semmo da föxe
ne gïa e cugge no piggiemo ciû moggê
fin che a-o mondo ghe saia a moggê do mæ vexin
no piggiemo ciû moggê pe ûn bello belin. [1]
C’erano molti della Culmv, i camalli della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie “Paride Batini”, e poi i dipendenti dei terminal, i sindacati, quelli del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali. Alcuni di loro hanno presidiato per tutta la notte i due varchi dell’Albertazzi e di Ponte Etiopia, e quando li ho visti avevano le facce devastate dal sonno mentre facevano colazione a base di focacce e birre. Hanno messo uno striscione sulla sopraelevata: “Lavoro usurante, autorità portuale assente, sicurezza inesistente”. All’ingresso del varco, non lontano dalle scritte dei nomi di lavoratori morti, i padroni del porto continuano a “godere di posizioni di rendita grazie a concessioni ottenute quasi mai con una gara pubblica, prorogate d’ufficio per decenni”, come si legge nel volantino distribuito dal Calp. I terminalisti preferiscono pagare le multe irrisorie previste in caso di auto-produzione piuttosto che rispettare le regole sul lavoro portuale. Gli striscioni contestano questa pratica illegale di far svolgere il fissaggio delle merci sulle navi ormeggiate nei porti ai marinai degli equipaggi di bordo. Si tratta di operazioni che storicamente spettano ai portuali, non ai marinai. In accordo con gli armatori, invece, le imprese terminaliste nel primo porto italiano rubano il lavoro ai portuali con l’auto-produzione sfruttando i marittimi. Pur di risparmiare qualche euro sul costo del lavoro raschiano in fondo al barile. Nel frattempo chi comanda e si espande nei porti in Italia lo fa perché “ha i volumi”, perché se non si espandesse qui lo farebbe altrove. Comandano loro perché comandano i volumi – dicono – e chi ha i volumi si può permettere di far vivere un terminal o di farlo morire se si sposta altrove. Così la pensano i padroni dei porti in Italia, come dei filantropi che creano posti di lavoro lanciando minacce velate.
All’inizio della discesa del varco Albertazzi siamo una quindicina. Sono da poco passate le tre di questo pomeriggio assolato e restiamo sotto il muro, coperti da un po’ di ombra, seduti a parlare di turni e di contratti, del più e del meno. Abbiamo raggiunto il varco camminando all’interno del porto e poi scroccando un passaggio da un tassista, circostanza che ha scatenato gli sfottò degli altri non appena ci hanno visti scendere dal taxi. La maggior parte dei lavoratori proviene dalla Compagnia Unica e non supera i cinquanta, veste i panni da lavoro e le magliette della Culmv, o quelle con dietro scritto Porters che in genere indossano i cosiddetti “camalletti” che trasportano le valigie dei turisti di crociera a Ponte dei Mille. Mentre una fila di passeggeri e automobili che dovranno imbarcarsi sul traghetto della Grimaldi per Palermo si forma al di là dei cassonetti messi di traverso, una domanda ci perseguita: ma nel coniglio alla ligure i pinoli ci vanno o no? Non troppo lontano, un pannello dà il benvenuto ai passeggeri in più lingue. C’è puzza di plastica bruciata e i vigili, insieme ad alcuni camionisti, cercano di capire quali siano le intenzioni del presidio al varco. Lo sciopero dura fino a mezzanotte, dice qualcuno, e fino a mezzanotte il varco resta chiuso. Passa del tempo. Il porto al di là del varco è ancora fermo. In questa lunga giornata di sciopero il messaggio è chiaro, semplice. Questo porto è il perno centrale in cui la merce, sia essa containerizzata o meno, deve transitare. Finché non finiranno le provocazioni sull’auto-produzione e l’Autorità di Sistema non garantirà la sicurezza sul lavoro, bisognerà fare i conti con questo passaggio obbligato, il collo di bottiglia in cui mi trovo insieme a questa gente. Si direbbe che la dannazione della merce sia tutta qui, in questo varco presidiato da una ventina di portuali che bevono birre e parlano tra loro guardando i video del corteo dagli smartphone, quasi increduli di essere uniti e insieme di avere il potere, solo a volerlo, di interrompere i flussi di merci e i territori che li attraversano senza soluzione di continuità. (andrea bottalico)
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