Se non fosse per la tranquillità con cui i membri di una famiglia del posto arrostiscono le loro salsicce sulla griglia, osservando dalla spiaggia le onde del mare schiumare sulla rena, si direbbe che tutto è pronto per uno dei più violenti attacchi via mare di cui la letteratura militare abbia dato testimonianza. Tra la strada asfaltata dove sono parcheggiate una decina di auto e la riva ci sono meno di dieci metri di spiaggia. Sabbia bianca e sottile. Poi mare, nemmeno troppo. A momenti sembra un lago, confinato (come quasi sempre quando ti affacci sulla costa da queste parti) dalle ciminiere dell’acciaieria più grande d’Europa. In mezzo navi da guerra, a decine, che illuminate dalle luci bianche e blu si muovono immobili un centimetro alla volta, sotto il tramonto e nel vento della sera, avvicinandosi alla base militare di Taranto.
Capo San Vito è un paese che non esiste. La strada litoranea che lo collega al capoluogo si snoda lungo il perimetro di una vasta zona militare, protetta da alte mura e filo spinato. Dall’altra sponda, quella dell’entroterra, si vede qualche palazzina, fino a che anche da quella parte non iniziano le recinzioni, a difesa del faro a cui gli autorizzati accedono tramite un cancello verde riverniciato di fresco. Davanti al faro, quando non ci sono più mura né spine, la distesa d’acqua e le navi. Decine di navi in silenziosa attesa, come pronte all’attacco. Come se il mondo dovesse finire domani.
Procedendo qualche metro dopo il faro c’è il ristorante Citemmuert. Al locale si accede attraverso un piccolo corridoio di sabbia e mattonelle che è una specie di varco nel tempo. Nella sala, le cui pareti sono lunghe una ventina di metri ognuna, i tavoli sono apparecchiati con tovaglie gialle distese su copritavola a quadroni. Sui muri ci sono alcuni ritratti di Taranto negli anni Sessanta. Nelle immagini, ai margini della Città Vecchia, si vede ancora il rione Porta Napoli, l’ultimo ad essere stato abbattuto per intero, in maniera coatta, durante uno dei tanti presunti piani di riqualificazione dell’area, abitata oggi da poche migliaia di persone tra vuoti e crolli, urbanistici e mentali. Accanto ai quadri ci sono i poster pubblicitari degli anni addietro della Raffo, la birra tarantina che da queste parti continuano a bere, anche se gli stabilimenti sono rimasti solo a Bari, Roma, Padova. Ai tavoli del Citemmuert però la Raffo non arriva. «Abbiamo la Nastro Azzurro», spiega Daniele, che con la sua famiglia gestisce il locale. Per oltre quaranta anni suo padre ha lavorato all’interno della fabbrica di birra, ma quasi come risposta alla fuga dalla Puglia degli industriali del luppolo, oggi anche dagli spillatori del ristorante la Raffo è sostituita dalle concorrenti. La sala si riempie lentamente, prima sui lati, poi nella navata centrale, delimitata da sottili e altissimi pali rossi, simili a quelli di un capannone industriale, che sorreggono la tettoia. I piatti sono semplici e abbondanti. Insalate di mare, involtini di pesce, orecchiette, risotti ai frutti di mare, pizze. Se conosci qualcuno il tuo conto diventa «uno scherzo al tavolo cinque», ad alta voce per sottolineare il trattamento di favore.
Ripercorrendo a ritroso il corridoio lo scenario è immutato, per l’occhio più pigro. Ma il tramonto è sparito, il blu della sera più forte, così come le luci delle navi. Le automobili parcheggiate sono sempre quelle, pazienti come il fuoco lento della brace che continua a cuocere le salsicce. Non ci sono più quei pochi bagnanti, ma un po’ più avanti, quando la lunghezza della spiaggia lo permette, qualcuno prende da bere ai chioschetti dove lavorano ragazzi giovani, che stappano bottiglie – questa volta sì – di Raffo a ritmi consoni al contesto. Nella strada silenziosa ora si sente una musica e si intravede, su tre lunghi gradini di cemento che formano una specie di rotonda sul mare, una scritta in bomboletta nera: “OGGI 16 LUGLIO PER QUESTO GIORNO SPECIALE TANTISSIMI AUGURI DI BUON COMPLEANNO A MIMMO DE ROSA PER I SUOI CINQUANTACINQUE ANNI”. All’interno del piccolo spazio, ritagliato affannosamente tra le immensità dell’area militare, e del mare, e delle navi, c’è la festa di Mimmo: una decina di tavoli, bambini che corrono all’impazzata, cartocci di rustici e pizze su un bancone, due grosse casse per la musica e al microfono William, cantante emergente del panorama musicale tarantino.
La prima cosa che colpisce di William è il suo aspetto da rocker. Ha i capelli lunghi e diversi tatuaggi sulle braccia. Ha una bella voce, canta in napoletano ed esegue su richiesta del festeggiato il suo successo E dammella ‘na mezora, cover di un pezzo di Tony Colombo, ultimo brano prima di congedarsi. In alcuni rioni della città William lo conoscono tutti: le sue canzoni le cantano i ragazzini e anche quelli un po’ più grandi, frequenta la curva del Taranto ed «è anche un compagno», racconta chi fa le presentazioni. «Di quelli che stanno per strada».
Quando William finisce la sua esibizione il vento è diventato troppo forte, anche se lo scenario è immutato, o forse no. Le navi sono ancora lì, sotto la luce intermittente del faro e nel buio ormai fitto. Poco distante c’è un altro piccolo capannello di gente, tra i tavolini rossi, in uno spazio ancora più stretto rispetto a quello della rotonda. Ballano a ritmo di musica latinoamericana, mentre le note si mescolano con quelle di Malacatena e Figlio ‘e puveriello, successi di Mario Merola ed Enzo Di Domenico che ora si spandono nel vento sul litorale di San Vito, il paese che non esiste.
Qualcuno si chiede chi siano i nuovi arrivati. Amici, basta un’occhiata. Nei pochi metri in cui sono concentrati il ristorante, i chioschi, la festa di Mimmo e le signore-Macarena, c’è posto pure per loro. Anche perché non esiste un “oltre”, lì dove il paese – e anche il mare, che dopo un po’ già non si vede più – si schianta sul muro verde militare e nei cartelli che vietano l’accesso pure al tramonto, se non lo guardi nel varco che ti è concesso. Da quella lingua di spiaggia dove puoi contare le navi militari, chiederti come si sta con un porto a pochi metri eppure fermi in mezzo al mare, o se il pane con le fave è buono come racconta Daniele. Una claustrofobia da vita spinata ma con sabbia (e rabbia) nei calzini, da cui si finisce per fuggire in macchina costeggiando il muro, cercando aria e chiedendosi a cosa pensano quelli quando si ostinano a parlare di Sud. (riccardo rosa)
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