Io dico che sarei stato più contento
se li avessi portati a casa quei guanti.
Erano un ricordo, ecco cos’è, qualcosa
che aveva lavorato con me, per tanto tempo.
Aldo De Jaco
Stefano trascina la sua vita in una cooperativa bolognese, è un uomo sulla cinquantina emigrato in Emilia, prima a Piacenza e dopo la seconda carcerazione nel capoluogo della regione. Il protagonista del nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, Cronache dal dopo vita (Jack Edizioni, 2024), sopravvive allo sfruttamento portando a casa il salario tra progetti che spesso falliscono e altri che danzano sull’orlo del baratro. I progetti “li affidano a noi, che dovremmo ‘svilupparli’, quei progetti, e portarli a felice compimento. E più progetti realizziamo (ci sono anche tabelline di valutazioni, premialità varie) più soldi i comuni ci danno”.
È la storia comune di ogni operatore del terzo settore che dopo anni di lavoro precario si domanda se deve ringraziare la miseria perché gli fa mettere il piatto a tavola o se, invece, quell’impegno rappresenta un argine reale all’emarginazione e alla povertà. Il presente osservato dal suo monolocale nel quartiere Pilastro, affligge Stefano ricordandogli la disumanità che si raccoglie nei territori del cosiddetto capitalismo avanzato, che di avanzato hanno solo lo stadio del dolore di una vita che scorre su un binario morto. Sconfitto dei movimenti di lotta degli anni Settanta, porta con sé non la forza del reduce eroico ma la fragilità molto umana del prigioniero che ha ripiegato. Stefano si sente inadeguato in ogni proiezione della sua esistenza.
Anche se il quotidiano può diventare asfissiante, ciò che lo fa soffrire di più è il ricordo della “fuga” dalla misera provincia meridionale, dal paese d’origine, da quel reticolo di vite immerse nell’agro nocerino-sarnese. Questa condizione di fuggitivo pesa come un macigno e assume i contorni indefiniti di un enorme vuoto. L’autore, attraverso la trama di un “giallo”, conduce Stefano a prendere le misure di questa assenza, costringendolo a un confronto serrato con il passato, con le “radici sottili” e i ricordi dei “vecchi amori delle madri contadine, indomite e dementi” per tentare di riappropriarsi di piccoli pezzi smarriti nel tempo, di singoli frammenti che possano alleviare questa sensazione di smarrimento.
Ascolta dopo anni la voce della vecchia madre, ricoverata nella casa di cura del Sacro Cuore, allettata e imprigionata dall’Alzheimer. Poche parole pronunciate sul letto nella camera di quella specie di ospizio: “Tu la devi trovare, Stefanù…”. “‘A Santa nun se trova. ‘O tavuto è vacante”. Il mistero riguarda le ossa di zia Pasqualina, sparite o sottratte da qualcuno dalla tomba nel cimitero. Stefano ricorda vagamente la storia di questa donna che divenne un riferimento per quella comunità schiacciata dalla miseria. Pasqualina, a un certo punto della sua vita, aveva scoperto delle doti mistiche che le permettevano di entrare in contatto con le forze celesti; portava con sé una fede che consentiva guarigioni impossibili e riusciva a percepire sotto la pelle il destino delle cose.
Stefano, abituato a leggere la vita con freddo materialismo marxista condito da una forte disillusione, stenta a trovare una logica nella storia della Santa ma sente che dovrà farci comunque i conti. Qualcosa comincia a muoversi dentro di lui, pensa forse di recuperare le radici da cui proviene, le immagini di quel mondo contadino, di quella “sapiente ignoranza” che era la principale condizione di sopravvivenza. Quell’intricato sistema di vite lo trattiene e Stefano, quanto più cerca di allontanarsi dal mondo magico e dai dolori della propria famiglia, di dominare la forza del passato con la ragione, tanto più comprende di esserne attratto irrimediabilmente. Deve arrendersi. Si trova presto travolto dal carisma di quella presenza: quella donna curva, rimasta sola con rigore in un contesto severo dove il patriarcato legittimava un matrimonio forzato, violento e ingiusto, ma non la solitudine e l’indipendenza femminile. Quella “strega” che parlava con la Madonna e aveva sanato gli incurabili e fatto tremare il potere di chi porta la croce in terra, che scelse di ritirarsi nel suo vascio evitando la scomunica soltanto per amore della sua famiglia.
“Giugno 1989. Viene da piangere e da ridere. Quel piccolo mondo di terra color tabacco, fina, feconda e delicata; e filari di pomodori e uva, broccoli, patate, finocchi, carciofi e percoche, come una benedizione colorata regalata agli uomini operosi dell’agro: tutto stava già collassando, tutto si muoveva in un vividissimo crepuscolo. Le pie figure gobbe, come quella di Pasqualina, coi suoi grembiuli odorosi di letame e foglie, stagliavano la loro ombra incerta sul tramonto d’Italia – e l’entroterra del sud rurale si raggrinziva, si restringeva, si insteriliva, si avvelenava mortalmente, giorno dopo giorno”.
Nel 1989 la Santa abbandona il mondo terreno, Stefano si domanda a quanti universi di distanza stesse da quel capezzale mentre la madre assisteva agli ultimi respiri di Pasqualina. Non riesce da solo a recuperare il filo dei ricordi, dovrà farsi accompagnare e (cosa più difficile) fidarsi delle persone che incontra durante il viaggio. Ognuno gli offrirà una prospettiva che arricchirà la trasferta. Una corte dei miracoli si presenta davanti ai suoi occhi, trattenendolo lo aiuta a recuperare la memoria, come un orologio che trova l’oscillazione dopo essersi fermato per molto tempo. “Capisci, Giada, com’è difficile, e terrificante, e straniante guardare al passato? E sostenere quello sguardo? Come vedere un film sapendo già il finale. Il finale”.
Inciampa in alcune vite che lo segnano ancora. Un amore a cui affida “lettere non spedite” sarà il depositario reale del suo presente e della sua storia personale. Uno studioso arrivato da Oriente, invece, gli ricorda cosa significa avere ancora fede nella Storia. Partendo da vedute opposte, si riconoscono nella fiducia di conservare dentro il proprio animo un orizzonte di senso, una svolta all’ingiustizia del presente: l’Angelo della Storia passerà ancora. Forse, il “blocco di malinconia” che Stefano porta con sé, che a volte sembra insormontabile, è il bagaglio più ingombrante delle sue sconfitte. La sua vita, le sue scelte, la sua collocazione spazio-temporale erano state determinate da una “credenza”, di cui percepisce ancora la necessità e l’urgenza, ma non riesce a ritrovarne il campo di esistenza.
A ogni modo, tornare significa recuperare ciò che è stato ma anche immergersi nella desolante condizione dei territori interni, resi completamente asettici dal consumo massificato che ha illuso tutti di potersi appropriare di qualsiasi stile di vita.
La critica allo stato di cose che lo circonda non si silenzia mai, la sua fede assopita smuove ancora le corde dello stomaco; soprattutto quando la cooperativa lo reclama a lavoro e si ripropongono le immagini delle giornate faticose sulla linea scassata della via Emilia, attraversando quella pianura stravolta e violentata.
Il ritmo del racconto è incalzante, complice la ricerca delle spoglie scomparse. Le pagine raccontano lo sforzo che ognuno compie quotidianamente nel ricomporre i pezzi di una vita che non riesce a trovare ordine e collocazione definita. I demoni del presente si alternano ai resti dei modelli sociali spazzati via, rimangono poche tracce che resistono dentro di noi; a tratti sembrano ricomparire isolate, come blocchi di marmo secolari lavorati da braccia antiche, in mezzo ai pilastri di cemento consumati delle nostre città. Per questo la storia di questo cinquantenne si trasforma in un racconto che riguarda una collettività di fuggitivi.
Il personaggio di Stefano non è rassicurante, non riesce a conciliare le tensioni che riguardano tutti, ma il dolore delle fratture non può esimerci dallo sforzo di cercare. Stefano, infatti, non si fermerà e porterà alla fine con sé tutto, non lascerà nulla indietro. Non più.
In questo lavoro minuzioso di ricostruzione si percepisce lo slancio che permette di assorbire la malinconia provinciale afferrando il proprio tempo.
Iozzoli tesse i fili di un racconto complesso, al cui interno si rintracciano le contraddizioni che hanno stravolto la conformazione del nostro paese distruggendo le campagne e le città, Napoli come Bologna. Tuttavia, la trama del giallo non chiude le porte a un destino diverso da quello che si prospetta. L’autore affida le speranze alle parole di Pasqualina, che non sapeva scrivere bene ma leggeva i segni dell’esistente, scritte in una lettera inviata alla madre di Stefano: “Cara cugina… Tu hai tre croci sul cuore. Tre croci i tuoi figli. Non ti preoccupare per annarella anche se sta in america è sotto la protezione di dio. Non ti preoccupare per giulietta, la madonna la guarirà. Non ti preoccupare di stefanuccio, che e un bravo figliolo, avrà una vita bella anche se ti fa suffrire. E altro non posso dire, perché la vita è una cosa misteriosa assai”.
Al termine del viaggio Stefanuccio deve digerire un’ultima delusione, si sentirà dire che “la vita non va come nei film”. Vero, ma il suo e il nostro non sono ancora terminati e dobbiamo scriverne il finale. (luigi romano)
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