Sono diverse le scene da cui si potrebbe iniziare per raccontare Rosa pietra stella, primo lungometraggio di finzione del regista napoletano Marcello Sannino, prodotto da Parallelo41, Figli del Bronx e PFA: le sigarette e i silenzi davanti al mare del Granatello di Portici, la protagonista nuda in posa davanti ai giovani ritrattisti dell’Accademia di belle arti, sua figlia che mangia un gattò di patate in un contenitore di plastica davanti a sua nonna e all’assistente sociale.
Rosa pietra stella è un film sulla povertà e sulle resistenze individuali, sui marginali e sugli indifferenti. Il film racconta la storia di due giovani donne. La prima è Carmela (Ivana Lotito), rosa che si sforza di non appassire, trentenne alla ricerca di una strada per assicurare a sua figlia quell’equilibrio di cui la piccola ha un disperato bisogno. La seconda è Maria (Ludovica Nasti) che dalla madre sembra aver ereditato la tenacia, il carattere duro e spigoloso come la pietra, e poco altro. Le due vivono in affitto in una piccola casa insieme ad Anna (Imma Piro), la mamma di Carmela. Il fragile equilibrio familiare viene rotto da un ordine esecutivo di sfratto che porterà, dopo una serie di peripezie, alla separazione forzata di madre e figlia, eseguita da un’assistente sociale imprigionata nei propri rigidi parametri burocratici e socio-culturali.
L’universo del film è tutto femminile, mentre gli uomini sono comprimari, perlopiù mediocri o approfittatori: dal prete all’imam, dall’imprenditore traffichino all’avvocato imbroglione, dall’affittacamere che approfitta di Carmela fino al marito di sua sorella Nunzia. Fa eccezione Tarek (Fabrizio Rongione), uomo semplice e dolce, che finisce per innamorarsi di Carmela. Nonostante viva da vent’anni in Italia, abbia un lavoro stabile, e anzi sia quello che per lo stato è da considerare un piccolo imprenditore, Tarek non riesce a venir fuori dal personaggio dell’immigrato che non può guadagnarsi una vita normale, un amore con una donna italiana, un’esistenza nel mondo di sopra. Di quel mondo, nel film, sono visibili solo le istituzioni, che si fanno via via non solo indifferenti ma addirittura nemiche: il prete, che in un momento critico rifiuta a Carmela una delle tante case sfitte che ha in gestione; la famiglia, preoccupata solo della propria reputazione nel piccolo paesino vesuviano; la scuola, assai più impegnata a tutelare una facciata perbenista che a tutelare i suoi alunni più problematici; i servizi sociali, macchina esecutrice di provvedimenti giudiziari e poco altro. Non c’è da stupirsi che Maria individui la stella pur sbiadita di Carmela come quella capace di darle una direzione, forse perché allo stesso tempo, come lei, anche sua madre è alla ricerca di un contatto, di un aiuto. Infatti, dopo che Maria ha preso a pugni un compagno di classe perché aveva dato della “tossica” a sua madre, i ruoli si capovolgono. Carmela si schiera a difesa di sua figlia, mentre proprio Maria la redarguisce: «E invece no, mamma. Ho sbagliato…».
Sannino racconta con stile asciutto, facilitato dalla performance delle due ottime protagoniste, senza voli pindarici né facili escamotage che il contesto offrirebbe, facendo tesoro delle precedenti prove da documentarista (in particolare Porta Capuana, che si rivela lo scenario perfetto per il mondo di sotto rappresentato in questo film). E così il racconto continuamente mantiene e disperde la sua relazione con Napoli, tanto che potrebbe essere ambientato in qualsiasi metropoli d’Europa con la sua stazione fatta di venditori di kebab e cellulari rubati, i suoi migranti “irregolari” in cerca di permessi di soggiorno e i suoi treni ricoperti di graffiti. Più che Mamma Roma, Carmela ricorda Rosetta dei fratelli Dardenne e la Katie di I, Daniel Blake (Ken Loach), giovane donna che non riesce a mantenere i propri figli e nell’impossibilità di trovare un lavoro finisce in un bordello spinta da una rete di uomini meschini e opportunisti. Anche per Carmela, come per Katie, la possibile redenzione passa per il peccato e la mercificazione del proprio corpo, un’eventualità trasversale allo spazio e al tempo, così come la povertà, l’abbandono, la lotta per la sopravvivenza.
Da questo punto di vista, da Napoli arriva una interessante lezione, attraverso il racconto della realtà per opera di un gruppo di bravi documentaristi che hanno scelto di impegnarsi nei film di finzione senza perdere la profondità che il cinema del reale porta con sé. Una profondità che irrompe sullo schermo nelle ultime scene del film, quando a trovare spazio sono i sentimenti, o meglio il diritto al sentimento che le due donne si impongono e provano a riconquistare. (riccardo rosa)
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