Dopo il pogrom di Ponticelli, le prospettive delle politiche locali e nazionali
In una Napoli invasa dai rifiuti, il 13 maggio scoppia la cosiddetta emergenza rom. Come quella dei rifiuti non è una reale emergenza ma il frutto di politiche sbagliate e di mancati interventi programmatici. Una ragazza rom viene aggredita e rischia il linciaggio da parte di un gruppo di napoletani nel quartiere Ponticelli. Una donna accusa la ragazza di aver tentato di rubare sua figlia, la polizia ferma la ragazza che viene poi portata nel carcere minorile di Nisida.
L’episodio viene amplificato dai media, accrescendo l’isteria per lo zingaro che ruba i bambini. Un gruppo nutrito di persone di Ponticelli attacca i campi abusivi dell’area, si registrano aggressioni, vengono lanciate molotov e alcune baracche prendono fuoco. I rom si rintanano in due campi, alcune volanti della polizia (poche) si presentano sul posto. Alle due di pomeriggio c’è anche l’inviato di Michele Cucuzza per girare “La vita in diretta”. Si scatena il putiferio, in presenza della polizia vengono lanciate altre molotov. La folla è inferocita. I rom sono terrorizzati e reclusi. La polizia presidia i campi e la folla di napoletani controlla la polizia. I rom devono andare via. Arriviamo in serata e un poliziotto ci dice: «Siamo rassicurati dalla vostra presenza, fino a ora non si è visto nemmeno un politico». Alcune ore di discussione e poi arriva la protezione civile: «Non ci sono soluzioni, né tende provvisorie, né chiese, né altro». Non c’è spazio dove metterli al sicuro. Devono andare via (tutti d’accordo!). La protezione civile scorta la maggior parte dei rom fino alla baraccopoli del quartiere vicino. I rom vanno via con i loro Ape, la folla inveisce e grida: «Abbiamo vinto, abbiamo vinto, via, via, dovete andare via». Nessuno viene fermato dalla polizia.
Il giorno dopo appare una manifesto a firma del Partito Democratico: «Via gli accampamenti rom da Ponticelli». Alle 11 c’è un incontro in Prefettura, un intervento tardivo mentre continuano gli incendi dei campi vuoti. I pochissimi rom presenti in un campo appartato vanno via. In serata a Ponticelli non ci sono più rom.
L’area dove sorgevano i campi è interessata da un programma di recupero urbano: 67 milioni di euro disponibili per un intervento di riqualificazione dell’area. Se i lavori non inizieranno entro il 4 agosto di quest’anno i soldi andranno persi. È una storia vecchia di un po’ di anni, ci sono state gare d’appalto andate deserte. Quello che ha fatto cambiare le cose, si dice, è il fatto che sia aumentata la percentuale destinata all’edilizia privata (quaranta per cento).
Un passo indietro
Il 3 maggio all’auditorium di Scampia si tiene un incontro importante, organizzato dal comitato per lo spazio pubblico, composto da italiani e da rom. L’incontro si intitola Asunen Romalen, “Sentiteci Gente”, il nome di un gruppo di rom di Scampia costituito in associazione. L’incontro è pensato per farsi conoscere dalla città ma è anche un confronto con alcuni attivisti rom – Nazzareno Guarnirei, abruzzese e Demir Mustafà, macedone che vive da anni in Toscana – sulle strade da intraprendere per dialogare e far sentire la propria voce. Il risultato è una critica netta all’intervento assistenziale che ha contraddistinto le politiche sui rom negli ultimi trent’anni, un rifiuto dei campi e l’idea di pensare insieme la trasformazione degli spazi, nell’interesse di tutti.
Le politiche sui rom attuate finora non hanno portato risultati significativi. Nella maggior parte delle città italiane si è oscillato tra assistenza, controllo e segregazione, soprattutto attraverso l’invenzione dei “campi nomadi”. Napoli ha seguito questa tendenza. Qui esistono due strutture pubbliche per i rom. Una è il campo autorizzato dietro il carcere di Secondigliano, dove vivono circa ottocento persone, senza alcun collegamento con il resto della città. E l’altro è la ex-scuola Deledda, una struttura dichiarata inagibile e poi adibita a centro di prima accoglienza, dove vivono da cinque anni centoventi rom rumeni. Non è auspicabile che queste rimangano le uniche proposte possibili e che addirittura vengano incentivate, perché non garantiscono standard di vita dignitosi e difficilmente possono generare un circolo virtuoso basato su relazioni paritarie tra le persone.
A Scampia ci sarebbe una grande occasione per fare un salto in avanti. Anni di tessitura di relazioni hanno prodotto contesti in cui le persone, rom e non rom, si occupano dei luoghi in cui vivono, condividendo spazi, preoccupazioni e interessi. Se i miliardi che sono arrivati e che potrebbero arrivare ancora per le politiche sui rom venissero spesi non per la gestione dei villaggi attrezzati o dei centri dove vivono solo rom, ma per creare spazi, strutture, servizi per tutti i cittadini di un quartiere, l’ostilità non avrebbe terreno fertile. Se centinaia di rom vivono da trent’anni (o anche da cinque) in un quartiere, vuol dire che fanno parte di quel quartiere indipendentemente dal fatto che siano nati da un’altra parte, che siano italiani o stranieri. Non solo non è possibile pensare che la soluzione sia “cacciarli tutti”, perché questo è vietato dalla legge, ma non si tratta neppure di far fronte a un’emergenza umanitaria. Si tratta di mettere in campo strategie efficaci di lungo periodo che permettano l’avvicinamento delle persone e una vita dignitosa per tutti. È anacronistico pensare a soluzioni temporanee, perché non solo non si tratta di un’emergenza ma sappiamo già che la “temporaneità” non esiste nella prassi degli interventi pubblici. (francesca saudino)
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