Quando torno in Italia dopo due anni di lontananza è l’ottobre 2020. L’uso della mascherina all’aperto è obbligatorio, ma dovrò arrivare nelle strade per capire che questa norma serve a generare enormi sacche di illegalità non perseguita, dove nel caso i controllori potranno sempre andare a pescare a piacimento, per assecondare l’identikit del cittadino asociale che andrà di volta in volta per la maggiore nel catechismo della probità civica diffuso dal potere.
La sera prima di partire mi convinco a prendere con le molle l’ennesima apertura con la pistola puntata alla testa sul sito dell’Ansa, che parla di nuovo vertiginoso aumento dei contagi. La prendo con le molle, perché di spalla viene annunciato l’esordio della figlia di Monica Bellucci su una copertina patinata. E mi dico che se ottant’anni fa il New York Times all’apertura sull’entrata di Hitler a Parigi non mise di spalla una chiacchiera sugli ufficiali della Wehrmacht con cui si era trastullata Marlene Dietrich, evidentemente questo successe perché l’apertura di allora conteneva una tragicità che oggi, malgrado ogni sforzo, si fa fatica a percepire, in primis da chi è ben pagato per farsene banditore con la grancassa.
Dunque parto spensierato. Con mascherine fin sopra i capelli, ma spensierato. A Milano, un breve giro in centro basta per capire che tutte le forze di polizia presenti in città non basterebbero per vigilare sull’obbligatorietà della mascherina all’aperto nella sola piazza Duomo. Per me è normale e significativo fotografare i miei figli al naturale, con la mascherina, ne faccio una questione di orientamento storico per domani. Ma a piazza Duomo mi accorgo che chi si affanna a farsi ritrarre, lo fa nell’effimero ed eterno presente e dunque oggi si ritrova un’arma in più: quella di sguainare, nonostante tutto, la mascherina dalla bocca prima del “click” che dovrà documentare la congiunzione delle labbra a cuoricino.
Alloggio in un albergo sulla piazza della stazione Centrale. Sul portale online avevo prenotato la tripla più economica, con finestra sull’atrio interno, desistendo all’offerta di un sovrapprezzo per avere la vista sulla piazza della stazione. Al nostro arrivo, capisco che l’hotel vuole promuoversi con chi ha avuto il coraggio di andarci di questi tempi e riceviamo al nono piano una stanza con balcone da cui posso guardare il Pirellone negli occhi. Dobbiamo alzarci abbastanza presto e mi sembra comodo prenotare la colazione per tre. L’indomani la sala dove si servono colazione e cena è vuota, immacolata. Una ragazza fa avanti e indietro con la cucina portandoci di tutto, i tranci di torta finali ce li faremo impacchettare e ci seguiranno fino a Roma. Alla fine fa un salto da noi il cuoco, è catanese, mi racconta che oggi in questa sala sono state servite le prime tre colazioni da marzo, lui è rientrato da qualche settimana da Amburgo, dove se n’era scappato in primavera per sbarcare il lunario in un ristorante italiano in attesa di tempi migliori. Ci salutiamo con una cordialità che in altri tempi avresti detto fuori registro e che adesso invece, nonostante le mascherine censurino la mimica facciale, taglia l’aria con un sapore sano e piacevole.
Siamo già sul Frecciarossa delle 8:30 per Roma Termini. Mi colpiscono i set igienici distribuiti dal personale di servizio: per ogni passeggero, una busta di carta dominata dal mantra ripar-TIAMO-Italia, con dentro una lattina d’acqua naturale, una mascherina e una bustina monouso di gel igienizzante. Mi sprofondo nelle parole crociate senza schema delle ultime pagine de La settimana enigmistica, da quasi vent’anni il giochino con cui provo a decrittare la sciarada del mio personalissimo nostos. Alla fermata di Bologna mi rendo conto che il grosso degli habitué del Frecciarossa, scendendo, lascia sui tavolini o sui sedili i propri set igienici e se ne va, il personale di servizio cestina ciò che trova incustodito e consegna nuove buste a chi è appena salito. Mi sembra lampante che questo servizio di Trenitalia sia una commessa faraonica destinata in primo luogo a far salire la produzione di spazzatura indifferenziata per ogni chilometro di viaggio. La Freccia sfila sui binari con piacevolezza, viaggia in perfetto orario, il viaggio sarebbe piacevole se il silenzio non fosse interrotto dagli altoparlanti ogni quattro-cinque minuti, per ricordare, tra le altre cose, che chi non indossa la mascherina sarà prelevato dalle forze di polizia alla stazione in cui il treno effettuerà la prossima fermata. L’avviso giunge da una voce femminile formale e suadente; a me che vengo dalla Germania, questa cosa appare molto italiana: darsi sempre la pena di infiocchettare ogni comunicazione con un certo sex-appeal che nessuno si era augurato. Ma se, come ora, questa presunta trovata di marketing viene applicata a un memento di schietto sapore questurino, l’effetto è particolarmente penoso, mortificante per la dignità di chi è costretto ad ascoltare. Per fortuna mio figlio mi siede di fronte: con lui posso sempre ironizzare su tutto e ci divertiamo.
Porto i miei figli a Roma per la prima volta, ho pianificato cinque giorni intorno al tema della sorpresa, quella che nel tessuto urbano romano si può ancora cogliere in tanti scorci barocchi che le epoche successive sono riuscite solo in parte a cancellare: girare un angolo e trovare l’assolutamente inatteso. Oberati di mascherina e zaino, da Termini andiamo al mercato dell’Esquilino, per quattro soldi compriamo uva, banane e pomodori e poi giù a piedi per Monti, piazza Venezia, il ghetto e siamo già a Regola, dove dieci mesi fa ho affittato un appartamento per questi giorni. A Roma la disciplina generale è molto più spiccata che a Milano, l’evidenza decostruisce tutti i miei preconcetti pompati a forza di lontananza e puntate sui siti d’informazione main-stream. Quando entro in casa, assaggiando l’uva bianca che ho comprato devo riflettere proprio su questo: i mercatanti dei banchi dell’Esquilino, in massima parte asiatici di area indiana, potrebbero dare lezioni di distanziamento sociale ai gaga che ho visto esibirsi in zona Buenos Aires. Forse è vero che nelle difficoltà il povero sa salvarsi meglio di chi a salvarsi non ci ha mai dovuto pensare.
Roma non è bella, è stupenda. Mancano i torpedoni che scaricano nei punti nevralgici del turismo americani e cinesi a pacchi di sessanta alla volta. Trascorro una mezz’ora di bellezza surreale al Gianicolo alla fontana dell’Acqua Paola in un tramonto pigro e luminosissimo: ci siamo solo io, i miei figli e una pattuglia di carabinieri che per dover di firma ogni tanto ferma una macchina per un controllo.
Come Milano, Roma è pesantemente militarizzata e temo che chi in Italia ci vive, abbia smesso pure di farci caso: quando a piazza Fontana, a San Babila, a San Pietro, al Pantheon, sono passato in prossimità di militari armati fino ai denti che chiacchieravano tra loro, quella è stata sempre l’occasione per sentir parlare abbruzzese o molisano o pugliese. E quei ragazzi e quelle ragazze parlavano con un tono e con delle parole che si sarebbero abbinate meglio a vestiti più scamiciati. Parole aggressive come quelle divise da Rambo le ho sentite invece in una delle piazzette intorno a Montecitorio, da un uomo sulla quarantina travestito da persona distinta che, fregandosene di poter essere ascoltato, urlava al telefono: «Sì, sta pubblicando ogni giorno cose nuove su Facebook, ma io ho tutto quello che mi serve per spaccargli il culo!». La prossimità al potere dirada i margini della diplomazia, ma doverne prendere atto mentre passeggio con i miei figli aspettando che si faccia ora di cena, mi disgusta lo stesso.
Avevo programmato la sorpresa della cupola di San Pietro vista dallo spioncino della Chiesa dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, avevo programmato la sorpresa di piazza Navona come si apre allo sguardo voltandosi a sinistra venendo da piazza Pasquino, avevo programmato perfino la sorpresa familiare di far finta di ritrovarci per caso a piazza San Martino ai Monti 2, e poi tirare fuori una lettera che mio nonno aveva spedito a parenti che vivevano a quell’indirizzo, con tanto di annullo postale dell’agosto 1951 a corona della sua bella grafia. Non avevo programmato la sorpresa di non incontrare mia sorella, per la quale era troppo anche se i nostri figli si incontrassero da qualche parte all’aperto: troppa paura, troppo inopportuno, troppo groppo in gola. Ne ho preso atto, incassando la sorpresa che non avevo preparato. Questo virus, anche quando non compromette la salute fisica, canalizza i pensieri e altera la percezione del prossimo.
Da Roma torniamo a Nord, siamo un fine settimana a Legnano, da un pezzo di famiglia entusiasta di accoglierci. Sabato mattina i quattro ragazzini del gruppo trafugano un negozio di fumetti, ne escono agguerriti ed entusiasti, ognuno ha trovato qualcosa per il suo palato; c’è il sole d’autunno. Mascherati dalle mascherine, i ragazzi non mascherano d’essere spensierati. Si può essere spensierati senza offendere nessuno. Andiamo anche nel bosco di Campo dei fiori sul lago di Varese a fare castagne. Ce ne sono tante. Piccole, ma tante.
Seconda settimana in giro con l’auto, prima tappa sull’Appennino parmigiano, là dove secondo Guido Piovene comincia la vera Emilia, “sensuale, pittoresca, estremista”. Statale della Cisa, una stele posta l’anno scorso sul ciglio di una curva ricorda il centenario della prima corsa automobilistica del pilota Enzo Ferrari, passato per questi tornanti mentre a Milano nascevano i Fasci di combattimento. Alloggiamo in un paese minuscolo, sulla casa di fronte c’è l’iscrizione LEGGE PER LA MONTAGNA, memoria neanche sbiadita dell’istituzione della Comunità montana. Nel piccolo centro, per ascoltare qualcuno non bisogna attendere che rumori di fondo si diradino e forse è anche questa maggiore facilità ad ascoltare e a farsi ascoltare che rende le persone più paghe, più rilassate. È forte l’impressione che quella paura di non venirne a capo, che nella grande città, con sfumature diverse, perseguita un po’ tutti, nel paese di mezza montagna viene schiantata dall’evidenza di essere legati in relazioni di solidarietà e micromutualismo che, all’interno di concisi perimetri, rendono altamente opinabile perfino la ricaduta delle curve macroeconomiche in tempo di pandemia. E addirittura, quando si vive in concisi perimetri di sostanziale autosufficienza, può succedere che l’altamente opinabile degradi nel palesemente falso. La parsimonia e la gentilezza di chi ci ospita e del vicinato contiene un classico segreto di Pulcinella: si è paghi con poco, finché non si desidera il superfluo. Eppure com’è difficile, venendo da fuori, acclimatare la mente a queste dolci evidenze. E oggi chi ha avuto fiducia in quest’evidenza, chi è ricco di parsimonia e dello scambio fecondo tra sé e il paesaggio in cui si muove, paga il dazio meno salato al dover-essere delle prescrizioni pandemiche.
Da giorni ho appuntamento a Gualtieri con il direttore della casa-museo del pittore naïf Antonio Ligabue. Quando arriviamo, troviamo le bici che avevo prenotato per andare in giro nella golena del Po, luogo netto e spettrale, in cui l’acqua e la terra si mischiano giocando a ingannarsi a vicenda. Non troviamo il direttore, di cui mi viene detto che passerà nel pomeriggio. Al nostro ritorno, spero sia la volta buona per visitare il piccolo museo, ma trovo intorno a una grossa Mercedes l’entourage di un ospite d’eccezione, pare sia un critico d’arte di chiara fama. Terminata un’interminabile telefonata, l’ospite d’eccezione intima al direttore di chiudere il museo e di andare insieme a fare un sopralluogo su quei luoghi della golena da cui con i miei figli sono appena tornato con le bici. Per decreto dell’ospite d’eccezione, il museo chiude anzitempo, la compagnia si dilegua su due auto e io resto fuori il museo solo con i miei figli e le bici non restituite. Considerando che avevo concordato un appuntamento molti giorni prima, mi sento un po’ maltrattato, ma la prendo con distacco e al direttore scrivo solo un messaggio per comunicare dove abbiamo lasciato le bici. Non avrò risposta. Ne esco ravvivato nella convinzione che la profonda provincia italiana sfoggi il suo canto migliore quando non si sente osservata, né sottoposta a giudizio: se questo succede, la sua altrimenti preziosa ingenuità la induce presto a steccare, con una desolatezza che altrimenti non le appartiene.
Gli ultimi giorni siamo di base in Valpolicella, i miei figli mi seguono tra vigne e cantine, un po’ mi sfottono e un po’ si divertono. Ci divertiamo. In una gita a Sirmione cedo alla proposta di un barcaiolo che offre un giro intorno alla sottile penisola che s’incunea nel Garda. Mi fa notare, prezzario alla mano, che la sua offerta è dovuta “ai tempi che corrono”. Censuro lo scetticismo dei ragazzi, insistendo che il colpo d’occhio delle grotte di Catullo dall’acqua deve essere un’altra storia. La cosa più bella della gita – che il barcaiolo con voce burbera e saggia condisce di notizie non banali – è quando ci porta un po’ al largo, nel punto in cui si vedono in superficie le bollicine d’acqua sulfurea sfuggite alla canalizzazione subacquea che convoglia le acque della sorgente termale verso le spa degli alberghi di lusso. Questa visione, per tutti noi, alla fine varrà il biglietto.
Due giorni prima di partire, giovedì sera, sul sito istituzionale tedesco che ho seguito abbastanza regolarmente, leggo che dalla mezzanotte tra sabato e domenica anche tutte le regioni italiane dell’arco alpino diventeranno zona a rischio, dunque chi rientra in Germania da una di queste regioni dovrà fiondarsi a casa, informare il presidio sanitario locale e mettersi in quarantena o – in alternativa – avere a disposizione un certificato di negatività vecchio di non più di quarantott’ore: in questo caso ci si può muovere liberamente, nella non meno infettata Germania. L’indomani cerchiamo di avere un tampone, lunedì ricomincia la scuola e la quarantena coatta sarebbe molto antipatica. I nostri padroni di casa in Valpolicella, con un lavoro di mediazione formidabile, consultano una app che comunica quando è disponibile il prossimo appuntamento in tutte le strutture pubbliche e private della provincia di Verona. L’attesa più breve che offrono le strutture pubbliche è di quattro giorni, non ci serve a niente. Ci serve un tampone rapido ora. Oppure torniamo subito, prima dell’ora x. Prenotiamo alle 12:45 tre tamponi rapidi in un centro privato di analisi cliniche a Verona, ci mettiamo in macchina. Facciamo i tamponi, ci facciamo due risate commentando il solletico nel naso, poco dopo le 13 l’esito: tutti negativi. In serata, con le password fornite, accederemo ai risultati online. Chi ci ospita stampa i file, così che l’indomani potremo rientrare in Germania con una specie di salvacondotto sanitario. Costo dell’operazione, trentacinque euro a tampone. Non so se questa è la linea-Zaia di cui leggo da tempo, ma intanto mi dico che, quando si sta con l’acqua un po’ alla gola, si è contenti di spendere trentacinque euro a testa per aggiudicarsi una specie di Schengen ad personam (in tempi in cui la validità di Schengen resta universale per le merci, ma non necessariamente per le persone). Nel pomeriggio ultima passeggiata per vigne nel vicentino, che poi era la ragione per cui non volevo andarmene un giorno prima.
Come nella migliore delle tradizioni, sabato passiamo dall’Italia all’Austria e dall’Austria alla Germania con zero controlli, neanche un agente frontaliero che faccia bonariamente cenno di circolare: confini statali a presidio zero, dopo che la Germania aveva lanciato l’intemerata sull’inasprimento delle condizioni di ingresso da ogni altro paese confinante.
Si direbbe che le difficoltà di rendere attuativi provvedimenti molto complessi, che avevo notato appena giunto a Milano, si sono ripresentati in Germania con lo stesso tenore: in modo spiazzante, inatteso; magari anche frustrante, se chi come me, per mettersi dalla parte del giusto, ha deciso in autonomia di andare incontro a spese extra e si ritrova in un contesto in cui, dispiace dirlo, l’istituzione si mostra sovranamente indifferente di fronte allo sforzo di civismo individuale.
Torno con la mente alle immagini di vita fruttuosamente distaccata che ho visto sull’Appennino emiliano, ne leggo la chiave virtuosa per un modello che, senza nulla minimizzare, sappia anche rivendicare il diritto a servirsi della memoria di comportamenti stratificati e selezionati attraverso il passaggio delle generazioni, senza farsi dettare cogenti novità solo dall’ennesima conferenza stampa a reti unificate. Sospetto che affidarsi sempre al prossimo decreto governativo per capire cosa si può fare e cosa non si può fare comporti il rischio di far coincidere la rappresentazione di una vita virtuosa con una sospensione della propria esistenza, che è fatta sempre di dubbi e tensioni, che hanno bisogno più di compromessi che di soluzioni finali.
Sono stato felice di aver potuto trascorrere qualche giorno con i miei figli in Italia, ancor più considerando che, nella fluidissima situazione che viviamo, dopo pochi giorni molte cose, come cenare fuori, sono ridiventate illegali.
In generale, l’impressione di aver domato un problema è più piacevole se si riesce a trasformare il problema in una risorsa, piuttosto che annichilirne la presenza. Così si mostra anche più orgoglio di sé, meno paura. L’Italia migliore che ho visto in questi giorni d’ottobre è stata quella riprodotta nel simbolo delle castagne del Campo dei fiori sul lago di Varese: erano piccole e costava più fatica spulciarle dai ricci, ma che piacere, quando hanno riempito una borsa intera! E quella delle bollicine sulfuree delle acque termali del Garda: con ostinazione, nonostante i tentativi artificiali di metterle a valore canalizzandole tutte, parte di quelle acque sfuggono al controllo, fanno il bagno in risalita nelle acque dolci e, giunte in superficie, disegnano un fiore sullo specchio del lago, compiendo fino all’ultimo il proprio destino. (pasquale guadagni)
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