Agire per il bene comune e avere le competenze per farlo. Senza queste due qualità, i tentativi di approntare piani di gestione per il ciclo dei rifiuti sono solo paraventi per altri scopi. Sarà che ci abituano a considerare la partecipazione una prerogativa dei quiz e dei grandi fratelli, ma vige un’ignoranza generalizzata delle proposte intelligenti che, partecipando, nascono dal basso. Il disastro dei rifiuti in Campania, tra i suoi infiniti mali, è innegabilmente anche un momento di presa di coscienza, coatta, per gli autoctoni che vivevano la loro terra senza in fondo conoscerla. Ora non è più permesso, è necessario prendere posizione. E se una parte della cittadinanza e dei funzionari si affida speranzosa alle soluzioni portate avanti, con la forza, dal governo centrale, una schiera nutrita di nuovi soggetti politici fa rete, si informa, avanza alternative, scende in strada, va in campagna, e all’occorrenza si oppone con i corpi agli attacchi alla salute e alle gestioni scellerate del problema immondizia, percependone gli effetti sulla propria pelle.
Non a caso i comitati per la difesa dell’ambiente si moltiplicano in Italia, e le zone in cui l’abitante (ri)diventa cittadino coincidono con aree in cui convergono criticità ecologiche e interessi economici. Così che per fare chiarezza sul “movimento di popolo” sotto i nostri occhi in Campania, sui “facinorosi” e sugli “allarmisti” locali che osano opporre alternative ai piani governativi, è salutare gettare uno sguardo a esperienze simili in altre parti d’Italia. Andiamo a Brescia, per esempio, sede della multiservizi A2A, azienda che gestisce l’inceneritore locale e il “gioellino” di Acerra. Il fiore all’occhiello della cosiddetta “termovalorizzazione” italiana viene analizzato dai comitati ambientalisti bresciani da diversi anni, con il supporto di ingegneri, chimici e avvocati. I buoni cittadini di Brescia hanno scritto nero su bianco in un documento le “cose che non vanno nell’inceneritore Asm-A2A”, in risposta al Rapporto OTU 2006/2007 che ha avuto l’imprimatur dell’amministrazione locale e dell’azienda.
Prima di tutto viene messo in luce come i controlli effettuati dal comune di Brescia sulle emissioni dell’inceneritore appaiano quanto meno opinabili, in quanto il comune detiene il 27,5% delle azioni dell’azienda proprietaria A2A. Inoltre, si sottolinea come il tanto sbandierato premio di efficienza concesso dalla Wtert della Columbia University, provenga da un’agenzia sponsorizzata dalla stessa Martin GmbH, azienda tedesca produttrice dell’impianto Asm, configurando anche qui un chiaro conflitto di interessi. Ma le analisi dei comitati si fanno più rilevanti quando evidenziano gli sforamenti continui dei limiti di legge per le emissioni di PCB, altamente inquinanti, il mancato utilizzo dei filtri di ultima generazione per ragioni prettamente economiche e infine il dato più interessante: gli effetti dell’incenerimento dei rifiuti sulla raccolta differenziata. Sì perché, nonostante sia chiaro che questi siano due processi diversi, ancora non è comunemente accettata la sostanziale competizione che esiste tra incenerire e differenziare: o si fa una delle due cose bene o si fanno entrambe una schifezza.
Visto che la teoria ecologica più recente, ma anche quella economica e in un certo senso la teoria-pratica di sopravvivenza, suggeriscono una maggiore convenienza del riciclaggio rispetto all’incenerimento, i timori si affollano intorno agli ostacoli che un buon ciclo della differenziata potrebbe incontrare. I cittadini di Brescia indicano come ostacolo proprio il loro inceneritore, il quale richiede una certa quota fissa di materiale calorico (a Brescia è di ottocentodiecimila tonnellate l’anno) per mantenere attivo l’impianto. “Il totale fallimento della differenziata a Brescia si rivela nelle quantità del rifiuto indifferenziato, che una differenziata efficace dovrebbe abbattere drasticamente: a Brescia, invece, da quando funziona l’inceneritore la quantità è continuamente aumentata da centoventimila tonnellate nel 1998 a centotrentasettemila nel 2007, giusto per soddisfare il bisogno di combustibile (e di profitti) dell’inceneritore stesso”, si legge nel documento. Se chiediamo conforto a una logica meramente quantitativa risulta palese che per spingere l’attività di raccolta differenziata verso i parametri vigenti per legge (il 65% entro il 2012) dovremo sottrarre sistematicamente, e in crescendo, rifiuto combustibile alle fiamme degli inceneritori. Quindi, perché costruirne altri?
Per i difensori dell’incenerimento questi impianti sono l’avanguardia nel mondo per quanto riguarda un buon ciclo dei rifiuti. Eppure il professor Paul Connet, docente emerito di Chimica alla St. Lawrence University di New York e teorico della strategia “Rifiuti Zero”, invitato recentemente proprio all’inceneritore di Brescia, sottolinea che «negli Usa dal 1995 non costruiamo più inceneritori, perché la comunità scientifica ne ha capito la pericolosità. Una cosa sola si dovrebbe fare: innanzitutto diminuire la produzione pro capite di rifiuti». Connet cita anche gli studi del medico e ricercatore Stefano Montanari, pioniere insieme alla moglie degli studi sulle cosiddette “nanopatologie”. Nonostante il nome possa sembrare inoffensivo, sono in realtà malattie gravissime le cui cause vengono individuate in composti chimici non biodegradabili, prodotti anche dalla combustione dei rifiuti e dal materiale di risulta dei processi di incenerimento. Senza contare i fumi immessi nell’atmosfera, che viaggiano per chilometri e non deperiscono, bisogna considerare anche le ceneri (pari al 15% della quantità iniziale), pericolosissime, che un inceneritore produce, le quali richiedono discariche speciali per essere smaltite. Incenerire l’immondizia nasconde il problema alla vista e lo fa diventare minuscolo, fisicamente, ma in realtà biologicamente enorme.
Se anche volessimo considerare l’incenerimento come “male necessario” e temporaneo, utile per traghettare il ciclo dei rifiuti verso obiettivi di riduzione e riciclo, ancora non si spiegherebbero la quantità di sforzi profusi nella realizzazione dell’unico impianto campano, quello di Acerra, e l’inerzia totale nell’approntare anche solo un abbozzo di raccolta differenziata (proprio ad Acerra la differenziata è inesistente). Ci dev’essere una qualche ragione. Guardiamo altrove, questa volta in Abruzzo, in cerca di lumi. La bufera che ha colpito recentemente l’establishment regionale è un avvitarsi di tangenti, concessioni, truffe e appalti legate al business dei rifiuti. L’assessore alla Sanità della Regione Abruzzo Lanfranco Venturoni (Pdl) è stato posto agli arresti domiciliari, mentre sono indagati per corruzione due senatori del Pdl, Paolo Tancredi di Teramo e Fabrizio Di Stefano di Tollo (Chieti) e il sindaco di Teramo Maurizio Brucchi (Pdl). A finire in manette anche il proprietario della De.Co., Rodolfo Di Zio, di fatto il monopolista dei rifiuti in Abruzzo. La cricca abruzzese era impegnata nella spartizione di una torta succulenta: fornire appalti e terreni a un’azienda “amica”, quella di Di Zio, in cambio di finanziamenti illeciti e tangenti.
L’inchiesta ci fornisce dettagli interessanti sulla competizione tra incenerimento e raccolta differenziata riscontrata anche a Brescia. Dalle intercettazioni apprendiamo come l’imprenditore Di Zio esercitasse pressioni sulla giunta abruzzese per far abbassare lo sbarramento della raccolta differenziata (al 40% entro il 2010 secondo una legge regionale) motivando così la richiesta: «Quello l’inceneritore si mangia una freca di immondizia e io non so dove andarla a trovare…». Per questo occorreva ritoccare il piano regionale rifiuti. Cosa che avviene in data 2 novembre 2009, dove lo sbarramento al 40% sparisce, aprendo all’ipotesi di costruire anche più di un inceneritore. Del fatto che la compravendita di terreni per cui sono indagati Venturoni e Di Zio non fosse orientata alla produzione agricola ce lo dice lo stesso Venturoni in un’altra intercettazione, registrata pochi mesi prima del suo insediamento in assessorato: «Fammi andare in Regione… t’avessi a crede che mo’ tengo ventotto ettari di terreno per fa l’uliveto? Pe fa l’uoglie? Là ci dobbiamo fare l’inceneritore Robbè». Progetti a sfondo sociale, insomma.
I sospetti che le attuali gestioni dei rifiuti in diverse regioni italiane rispondano più a logiche affaristiche che a tentativi di risoluzione animati dalla preoccupazione per il bene pubblico, crescono. I comitati campani e del resto della penisola hanno da tempo avanzato proposte il cui guadagno è un ritorno in termini di salute e sostenibilità, più che di milioni da spartire. L’assenza d’interesse monetario che i comitati incarnano, non volendo favorire questa o quella azienda ma un’impostazione teorico-pratica per risolvere il problema, dovrebbe quantomeno rendere degne di interesse per l’opinione pubblica e per i funzionari le soluzioni alternative prospettate dai cittadini. Un raccolta differenziata porta-a-porta che impegni sia gli utenti che gli erogatori del servizio in un’opera di rinnovamento delle abitudini e della consapevolezza sui consumi, oltre a essere intelligente, si configura come necessaria. Altrimenti, la stupidità afasica del consumatore potrebbe rivoltarglisi contro. Presto, molto presto. (salvatore de rosa)
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