L’altra sera mi trovavo per Spaccanapoli impaludato nel fiume umano che riempiva la strada. Nel flusso di persone alla ricerca del proprio godimento vacanziero, alcune sagome si distinguevano dalle altre. «Vera cucina napoletana! Cucina tipica napoletana! Alla Trattoria Tal dei Tali!». Urlava una ragazza minuta con in mano alcuni volantini stampati alla bell’e meglio in bianco e nero. Pochi metri più avanti, verso piazza San Domenico, un ragazzo sulla ventina mi ferma, anche lui proponendomi del cibo: «Ciao! Conosci il ragù?». Non c’è più religione, ormai due volte su tre ti scambiano per turista. Eppure, preso dalla fame, mi lascio convincere ad accompagnarmi al locale. Mentre andiamo giù per via Mezzocannone, M. continua a raccontarmi la “storia aziendale” della società per cui lavora. In tre anni la proprietà è riuscita ad aprire quattro attività. Tutte nel centro storico, tre su quattro specializzate nel ragù. Mi colpisce una in particolare, perché da quanto mi racconta il ragazzo, fa solo asporto. Ragù take away. Per come stanno andando le cose a Napoli, l’intuizione è geniale: nella frenesia di migliaia di persone in costante movimento, oltre ai dolci tradizionali e alla pizza, si “europeizza” anche il ragù, trasformandolo in street food. Impossibile, fino a poco fa, pensare assieme le otto ore di cottura del sugo e la velocità con cui il turista medio è portato a soddisfare il suo bisogno di sfamarsi per strada. Si sa, per famiglie, ristoranti e trattorie napoletane il ragù è un piatto domenicale.
Svoltato l’angolo, dopo aver superato il take away stracolmo di clienti, arriviamo sulla strada del ristorante, un unico lungo parcheggio abusivo. Accanto alla porta d’ingresso noto una targhetta con tanto di bandierina europea: “Cofinanziato dal progetto Sviluppo Napoli, iscritto alla Federazione Anti-racket Italiana e del Consumo Critico”. Avevo già letto qualcosa su questo progetto finanziato dall’Unione europea e promosso dall’assessorato comunale alle politiche giovanili: dieci contributi da ventimila euro destinati alla nascita o al sostegno di giovani imprese distribuite sul territorio.
Varcato l’uscio il locale è stracolmo. M. mi fa accomodare, per poi salutarmi e tornare per strada ad “acchiappare” clienti. Prima di andarsene viene fermato da una ragazza che ipotizzo sia una dei responsabili dell’attività: «M. la settimana prossima ci saresti per fare il “medico”?». Con un po’ di sconforto in viso e con una voce sommessa M. risponde: «Va bene… ma per tutta la settimana?». «Lo sai, F. non ci sarà per tutta la settimana prossima e deve essere sostituito», gli risponde la responsabile. Nessuna replica, M. abbassa il capo, prende altri volantini dal bancone della cassa e torna a fare “promozione”.
Nel frattempo, arriva un cameriere che mi porta il menù e prende l’ordinazione. Ne vedo un altro che fa su e giù tra la sala superiore e la cucina. Sono in due, di sabato sera, per ottanta posti a sedere, che prendono le comande, servono e sparecchiano. Il campanello della cucina suona ripetutamente per avvisarli che gli ordini sono pronti. Come palline di un flipper i due ragazzi sbattono avanti e indietro per tutto il locale, mentre chi sta all’accoglienza si limita a fare cassa, preparare digestivi e dessert.
Arriva il mio piatto, me lo porta direttamente uno della cucina, perché il campanello era suonato a lungo invano e i due camerieri, tra uno sparecchio e un apparecchio, non lo avevano sentito. Finito di mangiare, uno dei due camerieri mi chiede se gradisco dolci, amari, caffè. Cordialmente gli dico no e lui, un po’ controvoglia, insiste, ma dopo poco rinuncia. Pago il conto, devo dire salato, e me ne esco.
Mi fermo con gli amici a bere una birra. Trascorse alcune ore, verso le due del mattino, incontro di nuovo M., distrutto, che ha appena finito di lavorare. Scopro che abbiamo amicizie in comune e fraternizziamo. Essendoci conosciuti mentre lavorava, ci risulta naturale iniziare a parlarne. Lavora lì da due mesi, il primo con un contratto di collaborazione occasionale, retribuito venti euro per quattro ore – ma in realtà ne prendeva quaranta e lavorava dalle 18 a chiusura (certi fine settimana finiva di pulire la sala anche alle tre del mattino) a nero. Il secondo mese gli avevano proposto un contratto a tempo indeterminato a novecento euro al mese, sei giorni su sette: dal martedì al sabato promozione, ossia volantinaggio, dal primo pomeriggio fino alle 18; poi, a seconda dalle esigenze, ogni giorno diverse, andava a fare “accoglienza” al take away o “sala” al ristorante dove mi aveva portato. Per una decina di ore di lavoro al giorno, guadagnava a stento quattro euro all’ora. «Certo, l’inizio della settimana è più tranquillo e rispetto ad altri posti dove sei totalmente a nero e ti pagano tre euro e mezzo all’ora qui è un po’ meglio. Ma il week-end è un inferno. Non ti dico, poi, la domenica a pranzo… e dobbiamo portare quei cappelli ridicoli… I responsabili all’inizio sembrano più che disponibili, ma in realtà, dopo che ho lavorato il primo mese ho scoperto che fanno le multe ai lavoratori se sbagliano». Multe? «Se uno dei cuochi fa bruciare il sugo si becca cento bombe di multa, li levano dalla busta paga… Oppure se gli aiuto-cuoco si dimenticano il pane fuori dalla cucina a fine servizio sono altre trenta bombe». E per la sala? «Teoricamente ci sono le multe anche per chi lavora in sala, tipo chi rompe bicchieri o bottiglie, ma essendoci anche i “vecchi” che lavorano alla fine non arrivano mai…».
Gli chiedo cosa significasse la frase della responsabile sul “medico”. Mi guarda con lo stesso sconforto con cui aveva guardato lei e mi spiega che il medico è uno di loro che deve dare disponibilità totale, in qualsiasi locale sia necessaria, per qualsiasi cosa, per tutto il giorno. Sempre in giro a volantinare e non appena serve qualcosa, anche delle più banali, deve accorrere. Stessa paga. «Se uno dei ristoranti ha un afflusso imprevisto, i due in sala non ce la fanno, mi chiamano e io smetto di fare promozione e scendo a fare il cameriere».
Mi spiega che in tutto sono una ventina di dipendenti, che lavorano, a turno, per tutti e quattro i locali. I lavapiatti sono immigrati, mentre gli aiuto-cuoco sono tirocinanti che vengono dagli istituti alberghieri. In sala si lavora con i più “anziani”, quelli che hanno dato vita all’attività. All’inizio, mi dice, le mance andavano solo a loro, poi la situazione è cambiata. Mi viene da chiedergli quanti litri di ragù producono a settimana. M. risponde che il take away non cucina il sugo, sono gli altri due che producono per tutti e tre, fanno una cosa come trenta litri di ragù al giorno (settecento venti al mese), ma il quantitativo cambia a seconda della stagione.
Dopo una lunga chiacchierata si è fatto davvero tardi, io e M. ci salutiamo. A pranzo del giorno dopo lo aspetta un’altra giornata di lavoro. Tornando a casa, ripenso al mio piatto di pasta; mai mi era capitato di mangiarne uno così amaro. (andrea pomella)
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