Napoli Monitor propone ai suoi lettori, per i mesi di luglio e agosto, alcuni degli articoli pubblicati su Lo stato delle città nel corso di questi tre anni di attività della rivista.
Raccontare la realtà e provare a cambiarla. Due libri sull’Italia di oggi, è un’intervista a Giovanni Iozzoli e Pietro Saitta, autori di due libri per noi importanti usciti alla fine del 2018, pubblicata all’interno del numero 2, nell’aprile 2019
* * *
Due libri usciti da poco hanno attirato la nostra attenzione. Sono L’Alfasuin di Giovanni Iozzoli (Sensibili alle foglie, 127 pp., 13 euro) e Prendere le case. Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle di Pietro Saitta (Ombre corte, 199 pp., 17 euro). Pur appartenendo a generi e autori molto diversi tra loro, entrambi affrontano questioni che riteniamo primarie e che sono alla base, tra l’altro, del nostro impegno per questa rivista. In estrema sintesi, questi autori si cimentano, a nostro avviso in modo convincente, con la sfida e l’urgenza di raccontare i conflitti sociali e le lotte per l’emancipazione che caratterizzano il nostro presente. Allo stesso tempo, più o meno esplicitamente, si interrogano (e ci interrogano) sui modi (e sui nodi) teorici e pratici di un intervento politico di base nell’Italia di oggi, ben al di là degli specifici contesti che sapientemente descrivono. Ci dicono insomma che raccontare la realtà e lottare per cambiarla non sono due cose separate. E che fare politica senza cercare di capire è altrettanto assurdo che cercare di capire senza fare politica.
Abbiamo sottoposto delle domande ai due autori, che ci hanno risposto per iscritto.
LA TERRA DEL MAIALE
L’Alfasuin è un romanzo breve di Giovanni Iozzoli ambientato nel distretto agroalimentare modenese, la terra del maiale. La famiglia Cavedoni, proprietaria di un’impresa di trasformazione delle carni, per restare competitiva sul mercato si adegua all’imperativo di abbattere i costi esternalizzando il lavoro a cooperative spurie, reclutando manodopera a basso costo tramite i meccanismi dell’appalto e del subappalto. Una di queste cooperative è gestita da due fratelli siciliani, vicini alle cosche catanesi e giunti in Emilia in cerca di affermazione nella metà degli anni Novanta. Sotto di loro, una forza-lavoro variegata e precaria da cui prende le mosse la vicenda intrecciando rapide scene e dialoghi serrati, toni ironici e grotteschi, riferimenti alla cronaca ed episodi di pura invenzione.
I reparti dello stabilimento Alfasuin vengono fotografati nella transizione da una cultura aziendale a un’altra – dal vecchio Cavedoni ai suoi due figli –, con l’ingresso sul mercato di milioni di consumatori e di nuovi competitori su scala globale. Questa immaginaria azienda a conduzione familiare risponde rivoluzionando i fattori di produzione, contenendo i costi, introducendo l’automazione, prestando massima attenzione alla logistica e ai flussi di materiali in entrata e in uscita. Tuttavia la catena dello sfruttamento e il sistema illegale che ne garantiscono il funzionamento, camuffati dalle retoriche sull’eccellenza italiana, vengono smascherati da chi decide di rivoltarsi contro una condizione che diventa via via insopportabile.
Domanda: L’Alfasuin ha le sembianze di un racconto di finzione, ma leggendolo si intuisce che i personaggi e le situazioni sono modellati su materiali preesistenti, tratti dalla realtà, dalla cronaca, forse anche dai vissuti dell’autore. Puoi indicarci qual è stato lo spunto iniziale e di quali materiali concreti ti sei servito oltre alla tua inventiva?
Risposta: Il libro vuole essere una specie di “istantanea” scattata a un pezzo importante del mercato del lavoro italiano, che significa concretamente inquadrare dei rapporti di potere e di valore. Esiste già un’ampia documentazione sociologica o politico-sindacale, che ha come oggetto le trasformazioni che sono al centro della narrazione. Ma è materiale comprensibilmente destinato al perimetro ristretto dei “competenti” o degli attivisti. Invece le storie che stanno dentro questo libro evocano questioni molto “di pancia”: forse non tutti sono interessati alle situazioni contrattuali o agli appalti, ma tutti sono interessati a cosa mettono nel piatto – il cibo, la carne, le filiere, i frigo degli ipermercati. E andare a “guardare dentro” quel mondo, capire quali mani raccolgono, lavorano, impastano, confezionano il nostro cibo, e con che costi sociali, in che condizioni questi processi si realizzano, può essere potenzialmente un tema di grande impatto, anche nella psicologia di massa, nella pubblica opinione mediamente disinformata. Il cibo è qualcosa che diamo per scontato: ce n’è tanto, disponibile a tutte le ore, è una specie di sicurezza acquisita. Da dove concretamente viene fuori, è invece questione occultata e rimossa. Proprio come la salsiccia, che è buona ma è sconsigliato guardarci dentro. Quando nel modenese sono diventate di pubblico dominio certe situazioni assai diffuse nel rinomato “comparto carni” (vetrina ed eccellenza dell’agroalimentare italiano), fette consistenti dell’opinione pubblica sono rimaste interdette: sfruttamento semi-schiavistico, riciclaggio e infiltrazioni malavitose, qualità e igiene inesistenti, impoverimento al posto del mito della coesione sociale. Quelle notizie mettevano in discussione la “purezza” del cibo che avevi nel piatto, nonché la “purezza” del modello sociale in cui credevi di vivere. Se le mani che letteralmente ti danno da mangiare – dalle arance calabresi al prosciutto emiliano – sono piagate dall’ingiustizia, una qualche inquietudine coglie anche il consumatore più distratto – quelle piaghe rischiano di contaminare il “tuo” cibo. E la preparazione del cibo può essere anche metafora di questo tipo di scrittura: per “impastare” questi libri devi stare dentro le cose, andare ai cancelli, condividere le conoscenze, non solo degli elementi vertenziali, ma concretamente delle vite – anche di quelle che non condividi o che ti piacciono meno. E tutto con uno sguardo non paternalistico né accondiscendente. Cogliere i dettagli, le contraddizioni: se ti sforzi un po’ di essere “dentro le cose” i libri vengono fuori da soli, quasi magicamente. Impressioni, racconti, voci, testimonianze (e le facce: le facce parlano, sono fondamentali più della parola) e i personaggi della finzione letteraria ti si squadernano davanti. E lì bisogna provare a farli “ballare” a un ritmo che non sia banale o prevedibile, provare a dare “dignità letteraria” a questi scorci di esistenza, collocarli in un contesto, in un quadro narrativo. Altrimenti restano frammenti.
D: Il tuo libro può essere letto come una narrazione complementare alle analisi di tipo economico o sociologico prodotte negli ultimi anni in ambito accademico o sindacale sui conflitti in settori come quello che tu descrivi. Prima di metterti a scrivere avevi in mente un obiettivo del genere, ovvero di usare la letteratura per rendere più accessibili certe tematiche? E se riconosci una funzione del genere alla tua storia ti senti di fissare caratteristiche utili a tale compito, di stile, di contenuto, di metodo?
R: Sì, lo scopo è propriamente quello di descrivere grandi e complesse dinamiche sociali – che magari si sviluppano nell’arco di vent’anni – facendole raccontare da personaggi, cioè da “persone letterarie”, che se hanno un po’ di verosimiglianza e di pertinenza con il contesto narrato, sono indistinguibili dalle persone vere – anzi diventano più “vere” delle persone in carne e ossa. Sono voci vive, narratori in prima persona, che in due o tre pagine di racconto autobiografico, a mo’ di pennellate sapienti, possono dare vita a una narrazione plausibile sui cambiamenti della società. Le storie e la Storia – antico topos di ogni letteratura: le piccole storie della gente comune, come trama e ordito della grande Storia. Certo, se lo fanno Elsa Morante o Zola viene un po’ meglio. Ma nel mare grande della narrazione c’è posto per tutti: proprio come un prisma a infinite facce ognuno può riflettere – dal suo proprio livello – un frammento di verità sociale. E la verità sociale che racconta Alfasuin, per esempio, è ormai cronaca, documentazione giudiziaria, oltre che sangue, sudore, morti ammazzati e processi. Poi aggiungo una banalità: lo stile e il metodo sono il prodotto dell’oggetto della narrazione, non puoi decidere tutto “prima”, a tavolino. Al massimo puoi scegliere il ritmo o l’estensione della storia, quanto in profondità vuoi scavare o se basta lanciare delle suggestioni – che spesso sono più efficaci, invece dell’approccio didascalico, che ha la pretesa di spiegare ogni cosa al lettore.
D: L’impressione è che il microcosmo descritto in Alfasuin voglia riflettere in modo paradigmatico le relazioni concrete tra i diversi attori del sistema produttivo in Italia. Ma cosa resta fuori dalla tua narrazione e su cosa pensi sia importante continuare a ragionare, interpretare, rappresentare?
R: Il tema della rivolta è importante, altrimenti resta la denuncia impotente, la lagna, l’appello umanitario. L’insubordinazione alle gerarchie capitalistiche del mercato del lavoro è speranza di vita – non solo per gli sfruttati, ma in generale speranza di vita civile, di credibilità democratica dei nostri assetti. Questi lavoratori, spesso stranieri, in alcuni casi donne, con la loro ribellione ci dicono che non esiste un’assuefazione infinita all’ingiustizia, e chiamano tutti a interrogarsi sul senso del nostro vivere comune. Una società senza conflitto è come un corpo morto, non ha futuro. Il conflitto è la benzina di ogni movimento, di ogni trasformazione, di ogni innovazione. Il mercato del lavoro italiano è una buona metafora di questa verità: man mano che il conflitto si spegneva, andavano degradando la sua qualità, il sistema delle tutele, la coesione sociale, i redditi, fino ad arrivare alla situazione attuale, estremamente degenerata, in cui sotto lo stesso tetto lavorano centinaia di persone dalla condizione salariale e contrattuale totalmente frammentata – consorzi, cooperative, diretti, partite iva –, spesso in una competizione al massimo ribasso tra loro. In Italia, nella maggior parte dei casi, abbiamo praticato la delocalizzazione senza spostare né lavoro né capitali: “spostando” piuttosto la condizione giuridica, contrattuale (ed esistenziale) di larghi segmenti di lavoro vivo, all’interno degli stessi siti produttivi. Il conflitto dovrebbe ricomporre quello che il mercato ha interesse a segmentare. Ma dobbiamo essere sinceri, siamo ancora lontani da questa benefica dinamica ricompositiva. Le “contraddizioni in seno al popolo” sono ancora prevalenti e ogni potere vive e si perpetua sulle divisioni artificiose dei sottomessi: questa regola vige anche dentro i settori più moderni dell’industria italiana. I libri in genere parlano della vita delle persone, il rapporto, la relazione sociale che tutti ci lega. Marx parlava dell’arcano della merce come di un mistero da svelare, pur essendo sotto gli occhi di tutti: dietro un prosciutto – o un’automobile o una penna o un software – c’è un rapporto di potere tra individui, che dobbiamo continuare a indagare e raccontare.
I FANTASMI DI ZAFFERIA
Prendere le case è una ricerca del sociologo Pietro Saitta su un quartiere della periferia di Messina, dove un’attivista, che l’autore chiama “Crepax”, organizza quasi da sola un sindacato di base per il diritto alla casa di alcuni degli abitanti più svantaggiati della città. È il 2017, l’ultimo anno del sindaco “ribelle” Renato Accorinti, la cui lista è sostenuta da gran parte della sinistra locale. La struttura occupata che appoggia il “sindaco del cambiamento” viene legalizzata dalla nuova giunta. A quel punto Crepax, tra le più attive nell’occupazione, rompe con il collettivo e con il sindacato di cui era parte, che considera troppo accondiscendenti con il sindaco, e costituisce un nuovo sindacato in uno dei quartieri più poveri di Messina, Zafferia.
L’autore partecipa attivamente all’impresa. Nel frattempo scrive un diario di campo e raccoglie ogni tipo di materiale, riuscendo a trarne un libro che racconta gli eventi quasi a caldo e dall’interno. Il libro non tace sugli aspetti più ambigui e controversi dei movimenti politici, le debolezze delle persone, la fragilità dei loro legami, la confusione delle loro idee. Dal canto loro, gli/le abitanti del quartiere che aderiscono al sindacato vivono situazioni di disagio estremo, sono ricattate dai servizi sociali e trattate con superiorità dalle istituzioni “del cambiamento”; ma reagiscono con servilismo, razzismo, maschilismo, egoismo e sopraffazione – tutti quegli aspetti che abitualmente tengono alla larga i “normali” militanti della sinistra di base.
In questo panorama, dove il simulacro di lotta comune nasconde sempre una parte oscura, fatta di liti, gelosie e scatti di rabbia, a un certo punto irrompono i fantasmi, che molti dichiarano di vedere, e che giocano un ruolo importante nell’occupazione. I fantasmi rappresentano, qui come altrove, la volontà dei subordinati di prendere il controllo, appellandosi a una potenza superiore a cui hanno accesso solo loro. Questa lettura politica di un fenomeno apparentemente triviale rende il libro estremamente importante per capire come funzionano i movimenti collettivi realmente popolari.
Domanda: Il tuo libro è ambientato nell’ultimo anno della giunta Accorinti a Messina. I limiti di questa esperienza ti erano chiari prima della tua ricerca o è stata una presa di coscienza avvenuta frequentando gli abitanti di Zafferia? Cioè: fino a che punto la ricerca è stata la dimostrazione di una posizione politica o un elemento che ti ha aiutato a formartela?
Risposta: La ricerca è iniziata a circa quattro anni dall’insediamento della giunta Accorinti. Le divisioni in seno alla variegata platea dei sostenitori sono iniziate molto presto. Direi già a pochi mesi dall’inizio di quell’esperienza di governo locale. Prima di scendere in campo per lo studio, avevo pubblicato diversi articoli di critica sui quotidiani locali. Specie in materia di ordine pubblico, che è la mia vera ossessione. Dall’investimento in telecamere alla repressione persino violenta degli abusivi – per lo più fruttivendoli della periferia – mi era chiaro da tempo che c’era stata una perdita di senso. Ma se io scrivevo soprattutto di repressione, altri collocati anch’essi a sinistra scrivevano di gestione del debito, di scelte relative al personale politico reclutato dalla giunta, di politiche sociali. Tra i problemi c’è che erano stati reclutati assessori-tecnici vicini alla destra calabrese oppure al Pd di Renzi. Esiste una società di consulenza agli enti locali, prossima in quegli anni a Renzi, che di fatto esercitava una forma di commissariamento fantasma dei comuni. Messina, al contrario per esempio di Catania, è finita in quella trappola e ha fatto di uno di questi consulenti un assessore al bilancio (ne parla con dovizia di particolari l’antropologo Berardino Palumbo, in un suo articolo sulla rivista di antropologia Illuminazioni). La scomparsa del movimento dalle periferie è un altro di questi punti critici. Insomma, non avevo bisogno di fare questa ricerca per farmi un’idea dei problemi o persino dei “tradimenti”. A ogni modo penso anche che le istituzioni sono strutture strutturanti e che il governo degli enti locali è tale da imbrigliare le persone. Specie se queste, come Accorinti e molti altri nella giunta, non avevano alcuna esperienza precedente di governo. Proprio come sappiamo dai tempi di Weber, questi uomini nuovi armati di buone intenzioni erano necessariamente in balia di tecnici e dirigenti, su cui non esercitavano alcun controllo e da cui dipendevano come un infante dalla madre. Non era una posizione facile quella di Accorinti e gli altri. Ma per me è anche la dimostrazione del fatto che le istituzioni pubbliche non sono entità che i movimenti possono addomesticare. Piuttosto il contrario. E che, dunque, non è nella corsa alle istituzioni che si può produrre cambiamento.
D: Nel libro spieghi che la tua militanza era avvenuta finora in un altro tipo di ambiente, e che gli abitanti di Zafferia proiettavano su di te degli stereotipi, forse quanto tu proiettavi i tuoi su di loro. Puoi dirci se e come hai superato queste interferenze?
R: Sono un uomo del Novecento. Ossia un ultraquarantenne figlio di una piccola o media borghesia di sinistra, che si è alimentato degli stessi miti di un’intera fetta di società italiana del tardo dopo-guerra. Pasolini tra questi; insieme alla sua ossessione per il proletariato o il “popolo”. Non sono mai stato popolano, ma sono sempre stato “mimetico”. Anche per necessità, se vuoi. Gli anni Ottanta – quelli della mia adolescenza – erano anni violenti. Il “popolo” a Messina tracimava nello spazio pubblico. E la sua presenza assumeva la forma di risse davanti la scuola o nelle piazze del centro. Una violenza che, nella maggior parte dei casi, non aveva nessuna ragione. Da giovane comunista – oggi sono anarchico – la violenza degli zalli, come il linguaggio locale definisce questi popolani che rubavano, picchiavano e molestavano i ragazzini della Messina bene, la comprendevo abbastanza. Era, mi sembrava, il loro modo di esercitare il conflitto di classe. Questa violenza la temevo anche. Ma ne ero attratto. Parlare il dialetto – o, meglio, quel mix di dialetto e italiano che ne costituiva la lingua – così come l’imitarne le posture fisiche o i rituali verbali che precedevano ed erano anzi propedeutiche alle esplosioni di violenza, mi sono entrate dentro molto presto. L’ho “incorporato”, si direbbe in antropologia. Ma in verità ho sempre maneggiato sufficientemente bene due registri: quello borghese e quello proletario. Un critico ideale potrebbe anche dire che il primo registro adopera il secondo perché ha realizzato un’opera persino “colonial-paternalista” di annessione di quest’ultimo. In me, dunque, ci sono tutte le buone intenzioni e i vizi storici di un certo modo borghese di sinistra di relazionarsi al proletariato e al “popolo”. Comunque immagino anche che tutto questo sia sempre meglio che il “nuovo” modo di relazione con le classi subalterne: quello, per esempio, del Pd. Venendo così ai pregiudizi o, meglio alle reciproche distanze, queste ovviamente c’erano, ma non sono mai state insormontabili. Il mio “pregiudizio”, che consiste essenzialmente nella convinzione di uno strumentalismo di base, era a volte mal riposto nei confronti di singoli individui. Ma è, credo, sostanzialmente vero se applicato a quella classe come tale. Non l’ho mai condannato, però. Sono risposte adattative obbligate. Anzi, credo che la borghesia non sia meno strumentale rispetto ai centri di potere. La borghesia delle professioni, quella dipendente anche dallo stato, oltre che dai privati, lo è certamente. E per le stesse finalità: trovare commesse e lavoro, anziché casa. Per me, in fondo, il lavoro antropologico è un fatto di cinismo. Lo stesso cinismo degli infermieri o dei becchini. Quello che ti fa prendere il quotidiano e la realtà per quello che sono. E che ti fa anche ridere di cose oggettivamente terribili, se quelli che sono con te lo fanno. Inoltre, classicamente, è fatto anche di sospensione del giudizio. Posso avere pregiudizi nel senso di giudizi anticipati sulla realtà, ma non di giudizi morali. Se si rinuncia alla morale, il resto è facile.
D: Una questione importantissima nel libro è il rapporto con Crepax, l’attivista che fonda il sindacato. La vostra lite è centrale nel libro. Ma quando hai pubblicato, eravate ancora in piena rottura. Perché te la sei sentita di pubblicare, anche se sapevi che lei non avrebbe approvato?
R: In fondo per gli stessi motivi di prima. Ossia perché, in tutta sincerità, a me dei nuovi tarli etici che presiedono alla ricerca sociale non importa molto. Le scienze sociali “di sinistra” si alimentano di alcuni nuovi miti, tra cui la restituzione, oppure la negoziazione tra le rappresentazioni del ricercatore e le auto-rappresentazioni della popolazione osservata. Per quanto mi riguarda, la restituzione intesa come servizio reso a una popolazione osservata può assumere varie forme, significati e anche storture. La restituzione di una ricerca alla Fiat, alla Nestlé o all’Eni, tanto per fare dei nomi a caso, non può essere altro che una forma di consulenza volta al dominio oppure alla castrazione. Se tu restituisci una ricerca fatta con questi gruppi, significa verosimilmente che ti auto-sottoponi alla loro censura. Oppure che fornisci loro strumenti per esercitare meglio il potere. A chi verrebbe in mente di fare questa cosa, specie se una ricerca non è stata finanziata da loro? Al massimo cercheremmo di organizzare eventi pubblici e di confrontarci con questi potentati su temi per loro scomodi. Ma certamente non faremmo una “restituzione” così come la intende una scienza sociale di sinistra, animata da nobili intenti; ossia, sintetizzando grossolanamente, intendendola come un modo di mettere un gruppo davanti lo specchio col fine di migliorarne l’efficienza, la coesione o altro. Molte di queste osservazioni, che ritengo valide se pensiamo al nostro nemico (ossia il “potere”), mi sembrano vere anche nel caso opposto: quello degli amici, dei subalterni o dei movimenti. Noi, oppure i “nostri”, non sono in grado di esercitare censure? La censura, oppure il normale e umanissimo rifiuto psicologico di porci davanti a uno specchio e di vederci meno belli di quanto pensiamo, sono sentimenti che ci sono alieni in quanto persone o gruppi di sinistra? Oppure non ci sono verità che, tatticamente o strategicamente, preferiamo non vengano a galla perché rischiano, a torto o ragione, di ledere la nostra azione? Se concordiamo su questo, la prossima domanda è se la ricerca, intesa come atto di “verità”, sia compatibile con questi vizi e interessi, legittimi o meno. Io penso che o c’è la ricerca intesa come “atto di verità” (utile in quanto verità) o c’è la censura (del tutto inutile). Naturalmente lasciatemi aggiungere che parlo di “verità” tra virgolette. Figurarsi, infatti, se è possibile essere oggettivisti. Chiarito questo, tralascio il fatto che, come in letteratura, la bellezza sta per lo più nel vizio, nel negativo, oppure nella coesistenza di virtù e di vizi. Ossia che i personaggi perfetti raramente sono veri, oppure hanno qualcosa da dirci sulla vita. La ricerca sociale, proprio come l’arte, dovrebbe dare conto della complessità e non dirci che “gli eroi erano tutti giovani e belli”. Che lo siano è quello che tutti sanno, anche i bambini. La ricerca deve preferibilmente dire quello che pochi sanno, a mio avviso.
D: Sei arrivato alle riunioni già sapendo che avresti scritto un libro o ti è venuto in mente durante le attività del sindacato? Fino a che punto hai condiviso questo progetto con gli altri membri del sindacato?
R: Nel 2013 avevo pubblicato con l’editore Donzelli un libro, Quota zero, che tracciava la storia del processo di formazione del proletariato messinese a partire dal terremoto del 1908. La parte empirica era dedicata agli edili e all’edilizia, la cui importanza nell’economia e nella società messinese si può fare risalire agli anni della ricostruzione. La Fillea-Cgil mi aveva dato dei fondi e avevo anche utilizzato la sede del sindacato come punto d’ingresso per entrare in quel mondo. Crepax, dopo la pubblicazione, mi aveva chiesto di fare un libro sul movimento per la casa. All’epoca lei stava con qualche sindacato strutturato. Non ricordo se Asia Usb o che altro. Nel libro racconto di questo dialogo e di come le avevo promesso che prima o poi lo avrei fatto. È vero: nei mesi di ricerca non ci siamo mai detti che avrei fatto il libro. Semplicemente perché Crepax e io lo sapevamo. Lei mi presentava ai “rappresentati” del sindacato come un autore. Uno che stava scrivendo un libro. Oppure, quando si arrabbiava, insinuava pubblicamente che stavo conducendo “esperimenti”. Alla maniera di Garfinkel e degli etno-metodologi, insomma. Questa è un po’ l’idea di scienza sociale che Crepax coltiva. Non tanto la sociologia come inchiesta sociale, ma come atto di potere. Che è, in effetti, uno dei lati pubblici della ricerca sociale. La qual cosa mi sembra rilevante per riflettere anche su come è cambiato il rapporto dei “quadri dirigenti” della sinistra con la conoscenza, tra l’altro. Poi, c’era anche il piano della mia “noia” politica. I centri sociali cittadini in quel momento o erano in crisi o erano ripiegati su stessi. Crepax, indubbiamente, era il soggetto politico più interessante in città. C’erano anche i suoi concorrenti, che sono tra l’altro degli amici miei. Ma Crepax, a differenza loro, era totalmente fuori controllo. Una furia. Estremamente affascinante. Unirmi a lei era automatico perché era – ed è ancora – una che fa succedere le cose.
D: Questo libro sembra volere esprimere con degli esempi concreti quello che già avevi teorizzato in un altro tuo lavoro del 2015, Resistenze. Credi che la realtà abbia confermato le tue intuizioni teoriche o ti sei trovato a modificare parti della tua teoria sui movimenti politici?
R: Uno dei punti che sollevavo in Resistenze è che, in una certa misura, il neo-proletariato, gli oppressi o i subalterni non hanno bisogno di una guida perché fanno già alcune cose da sé. Per esempio, negli anni in cui in gran parte d’Italia il movimento non si occupava di case, con le ovvie eccezioni di Milano, Roma o qualche altro posto, i subalterni le case se le occupavano da soli. Sempre nel libro analizzavo, sulla base di fonti secondarie, il rifiuto della pedagogia. Ossia la capacità di questa popolazione di comprendere la realtà da sé, senza guide. Bene, alcune di queste cose mi sembrano confermate dall’esperienza empirica. In Prendere le case c’è, per esempio, molto spazio per i fantasmi. Queste entità, che tutti sembrano prendere per vere, servono di volta in volta a dare coraggio al gruppo di occupanti di una casa, a escludere dei membri dall’occupazione, a stabilire gerarchie morali, a infliggere sanzioni per i comportamenti individuali e altro ancora. Soprattutto, però, servono a rifiutare la pedagogia del movimento. Gli spiriti, a un certo punto, realizzano infatti un “colpo di stato”. Cercano di uccidere Crepax per punirla di un certo suo comportamento e, soprattutto, della sua sfrenata volontà di controllo. Mi sembra, in breve, che almeno una tesi centrale del libro sia dimostrata. Di certo, però, se in Resistenze questo rifiuto della guida mi sembrava una cosa positiva, oggi vedo più chiaramente che senza una visione, o una ideologia, relativa al futuro e agli scopi non si va troppo lontani. In un certo senso, tramite questa ricerca sono tornato nell’alveo dell’ortodossia marxista. Resta vero che quella resistenza alla guida dall’alto (da parte di un’avanguardia) così come il rapporto col tempo (ossia con l’impellenza dei bisogni primari) rendono gli interventi ontologicamente fragili, esposti al fallimento, agli impieghi strumentali da parte di chi si intende salvare. Principio, dunque, di realismo. E anche di cinismo. Ma che sia difficile, d’altronde, è proprio la scoperta dell’acqua calda. Quale sia la risposta? Non lo so. Forse, come diceva uno dei recensori del libro, Dario Colombo, semplicemente ostinarsi a fallire, fallire ancora e fallire meglio. Semplicemente la nostra storia, del resto. Una storia etica, una storia estetica.
Leave a Reply