Settemila morti nelle Rsa, le Residenze sanitarie assistenziali, dal febbraio scorso, il 40% per Coronavirus, anziani innanzitutto. A loro si aggiungono i deceduti nelle Residenze assistenziali per disabili, come i sofferenti psichici. Persone che restano senza nome in questa agghiacciante statistica del dolore. La loro morte richiama responsabilità politiche e istituzionali, scelte scellerate di amministratori locali che hanno imposto lo spostamento di pazienti Covid all’interno di queste strutture, trasformandole in letali focolai. Eppure, ciò che oggi ci indigna ha una storia che precede di oltre quarant’anni il Sars-Cov-2, inizia infatti con la chiusura dei manicomi, con la proliferazione di strutture residenziali che sostituiscono, spesso solo nominalmente, i vecchi ospedali psichiatrici, riproponendone logiche e prassi. E se alcune regioni, come la Lombardia, hanno costruito, in modo spesso clientelare, il proprio modello socio-assistenziale sulla residenzialità privata, in tutte le regioni italiane, compresa la Campania, i gestori di queste strutture hanno acquisito un potere tale da farli sedere, in posizione dominante, ai tavoli decisori sulle politiche sanitarie. D’altro canto, la residenzialità per anziani e disabili, da un lato, è lo specchio di un più complessivo modello sociale e culturale che considera queste persone come un peso, un fardello per le ideologie della produttività e del consumo, dall’altro, racconta dell’incapacità dell’attuale rete di servizi territoriali di farsi realmente carico di questi universi. Come funzionano le strutture residenziali? Documenti ufficiali e moltissimi studi forniscono indicazioni importanti.
Il Comitato nazionale per la bioetica, nel 2017, riprendendo i dati forniti dagli studi Progress, evidenzia come, quasi sempre, questi luoghi si trasformino in veri e propri cronicari: “La gran parte delle strutture (ben l’84%) accoglie esclusivamente pazienti a lungo termine. Inoltre, tre quarti delle strutture non hanno stabilito alcun limite alla lunghezza del ricovero. […] Il 35% dei pazienti è ospite di una struttura residenziale da tre anni e più. Ciò suggerisce che le strutture residenziali spesso rappresentino “case per la vita”, piuttosto che tappe di un itinerario riabilitativo, come indicato già nel Progetto Obiettivo Salute Mentale 1998-2000”.
In questi luoghi, attesta il Cnb, la cura si riduce spesso a un mero, e spesso inappropriato, contenimento farmacologico: “Si registra scarsità di piani individualizzati di riabilitazione, basati su un’attenta valutazione delle disabilità, delle risorse, dei bisogni delle persone […]. I farmaci sono ampiamente somministrati (al 96% dei pazienti) e in media ogni paziente assume 2,7 psicofarmaci. Gli antipsicotici convenzionali e la seconda generazione di antipsicotici risultano prescritti al 65% e al 43% del campione, rispettivamente. Emerge la necessità di verifica sull’appropriatezza dei trattamenti, poiché molte prescrizioni sono scarsamente legate a diagnosi specifiche. Per quanto riguarda i pazienti, molti di questi mostrano un grado marcato di disabilità e non hanno prospettive di dimissione a breve termine”.
Qualche anno prima, nel 2013, la Commissione parlamentare di inchiesta sul Servizio sanitario nazionale le indica come contenitori di emarginazione sociale: “In conseguenza dell’espansione residenziale sanitaria e di scarse possibilità di dimissione dei pazienti accolti, le Asl e le regioni finiscono per attuare deroghe di fatto alle normative nazionali, nonché regionali, sui tempi di ricovero, sulle dotazioni strutturali e di personale specialistico; e a seguire, anche i controlli su questo ambito sono, in alcuni casi, divenuti superficiali, quando non inesistenti. A oggi, molte diventano contenitori di emarginazione sociale della disabilità psichica, contrariamente alle finalità dichiarate, con conseguenti fenomeni di ‘wandering’ istituzionale tra luoghi di ricovero; alcune diventano perfino strutture indecenti per un paese appena civile”.
Tanti scandali, in questi anni, hanno raccontato, con immagini diffuse dalle autorità inquirenti, il sistema di violenza che spesso regna in questi luoghi, con il ricorso sistemico alle minacce e alla contenzione fisica. Gli studi condotti attraverso la socioanalisi narrativa dal gruppo di Sensibili alle foglie, e innanzitutto da Nicola Valentino, hanno ben evidenziato come le strutture residenziali ripropongano spesso strutturazione e prassi delle istituzioni totali.
In un recente articolo sul Manifesto, Mariagrazia Giannichedda ha richiamato l’urgenza e la necessità di mettere in discussione questo modello: “Forse siamo ancora in tempo per porre rimedio alla politica e alla cultura delle strutture, del ‘dove lo metto’ riferito alle persone anziane, a quelli che non riescono a essere quei matti facili che si tengono insieme con un po’ di chimica e di parole, alle persone che hanno bisogno di aiuto costante per disabilità, malattie croniche, sventure ricorrenti. In Italia possiamo ricominciare da tre, come diceva Troisi: ci sono ancora funzionanti, resistenti ai tagli e alle ideologie liberiste, modelli di servizio e sistemi locali sociali e sanitari che dimostrano, dati e costi alla mano, che un’abitazione piccola per cinque sei persone funziona meglio che una Rsa, anche per un anziano non autosufficiente; che una rete di presidi sanitari territoriali fa funzionare meglio un ospedale e salvaguarda i suoi successi; che il servizio pubblico ha bisogno della comunità di cui fa parte, dei suoi utenti, dei cittadini organizzati non solo dei professionisti e degli enti che erogano regole e risorse”. Certo, conclude la Giannichedda, resta il problema del profitto, “su cui le strutture sono imbattibili, e anche su questo bisognerà ricominciare a ragionare”.
Dovremmo allora smettere di sentirci assolti, di non sentirci coinvolti, di fronte alla tragedia che si sta consumando, comprendendo che prima del Covid-19 sono state le nostre scelte, i paradigmi che abbiamo assunto, a portare questa tragedia. Chi, come Assunta Signorelli, a Serra di Aiello in Calabria, queste strutture, i loro potentati, li ha combattuti direttamente, pagando un prezzo altissimo per essersi messa contro gli interessi della chiesa, della massoneria, della ‘ndrangheta, della politica (perché è in questa tipologia di grumi che spesso si stratificano queste realtà), ci ha lasciato riflessioni e pratiche da cui, forse, sarebbe necessario ripartire: “Se, invece di progettare e costruire cronicari sempre più grandi, eufemisticamente chiamati residenze con aggettivi i più diversi e fantasiosi, ci si soffermasse sulla necessità per la persona malata di mantenere un legame con il proprio passato, la propria esperienza sociale e relazionale, di vivere la malattia come un passaggio, certamente doloroso, della propria storia di vita, sono sicura, a partire dall’esperienza maturata in più di quarant’anni di lavoro, che non solo le forme e i luoghi del trattamento sarebbero a dimensione umana, ma la cronicità stessa scomparirebbe, trasformandosi l’esperienza di malattia e la sua evoluzione in una forma dell’esistere, visto che la normalità, intesa nel senso nobile del termine, altro non è se non un continuo oscillare fra salute e malattia, entrambe strettamente collegate all’ambiente socio-culturale nel quale la persona vive”. (antonio esposito)
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